Veronica Redini
Frontiere del "made in Italy"
Delocalizzazione produttiva e identità delle merci
 
"Studi culturali", 1, aprile 2009

Recensione
di Franco Lai

Negli ultimi dieci anni circa la ricerca antropologica ha mostrato un interesse molto forte per i processi di mutamento in corso nei paesi dell'Europa Orientale. Per la ricerca antropologica italiana la Romania ha assunto un ruolo importante, sia per ragioni culturali come la forte emigrazione sia per il flusso inverso di imprenditori italiani che in questo paese hanno trasferito le loro aziende. Proprio di questo si occupa il volume di Veronica Redini, e in particolare dei settori delle calzature e dell'abbigliamento. La vicenda descritta è quella degli imprenditori italiani, prevalentemente del nord-est, che, dopo la fine del regime di Ceaucescu, trasferiscono le loro produzioni in alcune regioni industriali della Romania approfittando della favorevole congiuntura politica ed economica. Il governo infatti intende aprire il paese agli investimenti stranieri. Gli imprenditori italiani allora trasferiscono del tutto o in parte le attività produttive. Alcuni prendono in affitto i capannoni e portano dall'Italia le macchine, pronti a spingersi ancora verso est in cerca di situazioni più favorevoli (oggi questa frontiera sembra essersi allargata alla Moldavia e all'Ucraina). Altri acquistano le strutture e si insediano più stabilmente nel paese. Questo flusso di imprenditori, tecnici e manager italiani è così forte che la città di Timisoara nelle conversazioni prende il nome di "Trevisoara". Ad attrarre le imprese italiane, oltre alle facilitazioni per l'acquisto o l'affitto degli impianti, è il basso costo della manodopera (insieme alla scarsa presenza dei sindacati).
Il campo di ricerca che l'autrice circoscrive come luogo privilegiato per il lavoro etnografico è rappresentato da alcune imprese localizzate nelle città di Cluj-Napoca e Timisoara. Lavorando su un contesto specifico, Redini ha potuto trovare la collaborazione di alcuni imprenditori e tecnici italiani da una parte e di sindacalisti e di operai dall'altra: una collaborazione che si è dimostrata centrale per poter ricostruire le dinamiche del lavoro in fabbrica. Le soluzioni stilistiche che Redini sceglie sono molto efficaci nel restituire al lettore i luoghi (la città, la fabbrica, il tempo libero, i mercati cittadini, ecc.) e gli ambiti della vita quotidiana (il lavoro, le relazioni interpersonali, ecc.) frequentati durante il lavoro sul campo. Così l'autrice alterna in modo equilibrato uno stile narrativo e descrittivo con uno più analitico. La stessa scelta di alcuni titoli di paragrafi o capitoli è volutamente allusiva: Umano troppo umano è il rimando al documentario sul lavoro in fabbrica di Louis Malle, A love supreme all'opera di John Coltrane, Sex and the city alla nota serie televisiva.
Il volume ruota attorno al problema della definizione del made in Italy e del modo in cui si esplica localmente "la vita sociale degli oggetti" che i lavoratori romeni contribuiscono a fabbricare ma che spesso non possono permettersi di acquistare. Nella delocalizzazione vengono trasferite le attività di trasformazione, mentre la progettazione e le altre attività che richiedono un forte capitale di conoscenza e creatività restano nella sede italiana. Oppure, più semplicemente, la produzione è affidata ad aziende italiane che lavorano in conto-terzi per il grande marchio. Da questo punto di vista, il cosiddetto "made in Italy" appare come il frutto di un'ingegnosa ma ambigua costruzione politica. Ad esempio, le calzature sono fabbricate in Romania (o in altri paesi) ma secondo un progetto e un brevetto italiano. La loro immagine sul mercato è contraddistinta appunto dall'essere un prodotto della tecnica e della cultura italiana come attesta il brevetto, mentre è marginale che siano fabbricate da mani romene. Insomma il brevetto, il prodotto dell'ingegno, supera la dimensione del lavoro manuale necessario a produrlo.
E' interessante notare che uno degli stereotipi nati in Romania con l'arrivo dell'industria italiana riguarda la supposta incapacità degli operai locali di realizzare opere di pregio. Così la "romenata" indica un oggetto romeno visto come "brutto", di scarsa qualità tecnica ed estetica. Si potrebbe leggere tra le righe di questi discorsi che agli italiani spetterebbe la speciale "missione" di rendere le operaie romene capaci di fare cose "belle". La speciale "fascinazione" che scarpe e abiti italiani fabbricati in Romania producono tra le donne del luogo è raccontata e analizzata nel capitolo intitolato A love supreme e nel paragrafo Sex and the city. Il racconto dello shopping nei mercatini di Timisoara alla ricerca di autentiche merci italiane può sembrare puramente aneddotico a una prima lettura. Si tratta invece di una acuta ricostruzione dei modelli di consumo locali. Si potrebbe dire con Geertz che in realtà si tratta di aneddoti capaci di fare luce sulla stratificazione di significati di cui la vita sociale degli oggetti si carica. Scarpe e capi d'abbigliamento italiani sono ricercati e acquistati come oggetti di status, di distinzione. Tuttavia, spesso, per riuscire a possederli le uniche possibilità sono quelle di rivolgersi alle imitazioni, ai falsi che appaiono talvolta "veri" quanto quelli autentici, oppure a cercare nei mercatini gli esemplari trafugati dalle fabbriche: un fatto così frequente che si cerca di porvi rimedio effettuando dei controlli sulle operaie o proponendo acquisti scontati e a rate. Gli oggetti dunque si configurano come un "amore supremo", come le scarpe di Manolo Blahnik che Carrie di Sex and the city colleziona. La descrizione dello shopping insieme alle giovani operaie romene è a questo riguardo significativa. Quando si è una buona "cercatrice" si riesce a trovare gli oggetti desiderati: scarpe e maglioni italiani "autentici" o delle perfette imitazioni, si potrebbe dire dei "falsi veri" più che dei "veri falsi".



Liberazione - 14 giugno 2008

Italia-Romania, il razzismo del "made in Italy"

di Massimiliano Tomba

Le merci sono per natura cosmopolite. Con lo sfruttamento del mercato mondiale, scrivevano Marx ed Engels nel 1848, la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. I prezzi bassi delle merci sono stati l'artiglieria pesante che ha costretto ogni nazione ad adottare il modo di produzione capitalistico; dovevano anche costringere «alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari». Così non è stato. O meglio: barbarie e civiltà si sono invertite. In Italia è iniziata la caccia al romeno. La paranoia antiromena ha conquistato le prime pagine dei giornali con l'aggressione della donna a Roma nel settembre 2007. A questa ha fatto eco la richiesta di Walter Veltroni di estendere anche a casi di violenza sulle persone e sulle cose la normativa sull'espulsione immediata prevista per i cittadini comunitari quando mettono a repentaglio la sicurezza nazionale. La «xenofobia dei barbari», pur di non capitolare di fronte al cosmopolitismo della merce forza-lavoro, è pronta a sacrificare pezzi dello stato di diritto sull'altare della sicurezza nazionale. Evocando stati emergenziali viene confermato il carattere opzionale del nesso tra democrazia e mercato. La libertà di quest'ultimo è glorificata quando si tratta del movimento delle merci, diventa un problema quando invece riguarda il movimento di una merce particolare: la forza lavoro. Alla quale è anche maledettamente attaccato un corpo.
È di questi corpi che si occupa la ricerca etnografica di Veronica Redini ( Frontiere del "made in Italy". Delocalizzazione produttiva e identità delle merci , Ombre corte, 2008, pp. 175, euro 15). L'autrice afferma infatti che il lavoro deve «essere inquadrato in una prospettiva che focalizzi l'attenzione sui processi di incorporazione, sulla corporeità e la soggettività in quanto dimensioni centrali in un'analisi critica dei processi di produzione» (pp. 8-9). Si tratta di un percorso etnografico che si è svolto a varie riprese tra il 1999 e il 2007 in due città della Romania, Cluj-Napoca prima e Timisoara poi. La ricerca, nata con l'obiettivo di analizzare l'attività delle imprese italiane localizzate in Romania, ha posto attenzione a ciò che avviene in fabbrica, alle relazioni tra imprenditori e operai, cogliendo però anche tutta l'importanza di ciò che avviene nelle pratiche del consumo. È questo il tratto specifico della ricerca etnografica di Veronica Redini: l'interesse per le «pratiche di soggetti che producono oggetti deve spostare il proprio sguardo dal prodotto e dai significati che gli vengono attribuiti a quell'ampio contesto in cui tali oggetti nelle fabbriche, nei negozi o nei luoghi istituzionali operano quegli stessi significati» (p. 8). Occuparsi di merci italiane prodotte all'estero significa infatti occuparsi anche dei processi politici di costruzione dell'identità delle merci.
Nel 2001 più del 41% dei prodotti calzaturieri italiani sono stati importati. In larga misura dalla Romania. Sono infatti circa 16mila le ditte a capitale italiano attive in Romania. L'analisi del made in Italy , delle sue frontiere, come recita il titolo del libro di Veronica Redini, deve dunque partire da là. Dai laboratori romeni. Dall'analisi dei corpi che producono, patiscono e resistono in un pezzo di Italia situato in Romania. Si tratta di corpi di operaie costrette a mangiare alla linea della produzione; di corpi che vengono sistematicamente insultati e che, quando sbagliano, vengono presi a schiaffi dal tecnico italiano di turno. È qui che prende corpo il razzismo. Anche quello rabbioso che urla contro i romeni in Italia. Cioè il lato perturbante dell'Italia in Romania.
I salari romeni sono raggiunti velocemente dal capitale, il disciplinamento della forza-lavoro ai ritmi di lavoro occidentali deve essere prodotto con gli strumenti della violenza. La stessa violenza che accoglie gli occupati romeni che cercano di varcare i confini e riequilibrare il differenziale salariale emigrando in Italia. È a partire dai laboratori della produzione, dalla sfera del comando sulla forza-lavoro che si mostra come il tentativo di imporre una divisione etnica del lavoro, una differenziazione geografica di salari e intensità del lavoro, così come si sta delineando in Europa, presuppone la preliminare etnicizzazione di gruppi di popolazioni. Quando i "civili" imprenditori italiani, vestendo gli abiti di una lunga tradizione razzista, affermano che «quello che manca in Romania è l'armonia», mentre invece i «popoli sviluppati sono popoli armoniosi» (p. 110), stanno con ciò marcando lo spazio culturale del made in Italy a partire dal suo altro: dalla costruzione del romeno. Lamentano infatti che la lunga permanenza in Romania esporrebbe l'italiano al rischio di «romenizzazione», che, come viene spiegato da un altro imprenditore italiano, è sinonimo di abbrutimento. L'italiano romenizzato è «distrutto», «degradato», «degenerato dentro», perché la «romenizzazione è una dimenticanza di quella che è la propria identità italiana» (p. 111). Un'identità che segue il destino della merce. Che, dal momento che i confini economici e del made in Italy non coincidono con quelli dello Stato-nazione, deve quindi essere costruita.
La difesa della propria identità italiana è l'immagine vista allo specchio della difesa del made in Italy delle merci fabbricate in Romania. L'identità italiana viene affermata per distinguere servi e padroni. Il tecnico italiano imprime il ritmo (p. 56), le operaie e gli operai romeni lavorano… con «il cronometro attaccato al collo» (p. 63). È il comando italiano sulle produzione a determinare l'identità delle merci. Chi imprime il ritmo, imprime anche il marchio. Nel mercato mondiale non importa la localizzazione geografica della produzione: merci fabbricate in Romania possono essere e sono di fatto made in Italy . Non solo infatti l'etichetta con scritto made in Italy non indica e «non vuole indicare il luogo dove effettivamente il prodotto è stato realizzato, ma lo stesso made in è oggetto di molteplici interpretazioni» (p. 98). Come quando l'italianità della merce viene negata alle merci fabbricate in Italia nei laboratori cinesi. O quando, negli Stati Uniti, viene occultata la provenienza cinese delle divise della Major League di baseball «perché considerate dai consumatori tra i prodotti di abbigliamento sportivi "più americani"». Molte sono le osservazioni possibili sul marchio, sulla sua costruzione culturale e il suo potere di innalzare il prezzo del prodotto nel mercato. Veronica Redini segue i molteplici fili di queste interpretazioni, ma riporta poi la barra sul carattere di feticcio della merce, vale a dire sul «processo di occultamento della fonte del valore» (p. 109). Nel caso studiato dall'autrice del volume emerge che la fase romena della vita di queste merci è un momento «che non è incluso nel processo di riconoscimento del prodotto» (p. 131). Un ex amministratore dello stabilimento Geko (il nome è fittizio) dice espressamente che sullo stabilimento non vedi il marchio Geko, ma c'è scritto "Magic Development". Per molto tempo l'azienda «non ha voluto neanche mettere i quadri, i poster della Geko… Perché non si doveva sapere che c'era la Geko qui e che produceva con un'azienda di duemila dipendenti» (p. 117). Un'azienda che in Romania, come in Italia, continua a praticare una feroce politica antisindacale.
Conformemente al feticismo delle merci, che rimuove il momento della produzione, l'identità delle merci, tutta giocata nella sfera della circolazione, rimuove la fase romena della loro creazione. Rimuove il lavoro di operaie e operai romeni, per poter appiccicare alla merce l'etichetta di un'identità che permette di rialzarne il prezzo. Un'identità italiana per un mercato non romeno. I processi di costruzione di identità passano sempre attraverso linee di inclusione ed esclusione. Solo la decisione delle operaie romene di riappropriarsi, anche attraverso il furto, di ciò che loro stesse hanno prodotto, ha indotto le ditte italiane a prendere in più seria considerazione il mercato interno.
Tutto questo mostra come la definizione del made in Italy , l'identità della merce, sia innanzi tutto una attribuzione connessa con l'autorità, con un «procedimento di oggettificazione culturale… attraverso il quale si delinea l'esistenza di cose e idee italiane». Così se la dicotomia vero/falso viene messa in questione dal fatto che molti produttori che producono i "veri", producono anche i "falsi", la dicotomia culturale-egemonica che viene ad affermarsi nella difesa del "vero" falso, cioè del made in Italy in Romania, è quella tra italiano-bello-armonioso da un parte, e romeno-brutto-degenerato, dall'altra.
La merce, se solo la si va a vedere là dove essa riceve il proprio valore e non solo dove essa si presenta con un prezzo, parla già il linguaggio del razzismo. Feticismo è invece l'occultamento della produzione, come avviene per il «cosiddetto capitalismo "immateriale" nel quale tanto più viene affermato il valore di concetti come il design, lo stile e la ricerca, opacizzando tutto ciò che di pratico viene svolto altrove, tanto più però esso fonda il proprio funzionamento sulla materialità, l'alto impiego di manodopera e la standardizzazione delle mansioni» (p. 131). La delocalizzazione a Est non rappresenta il mondo, ma una porzione di Timisoara dice del mondo più di quanto non dica Silicon Valley da sola.



il manifesto - 24 giugno 2008

Marchio di origine
IL FASHION DEL DOMINIO

In un saggio la crescente colonizzazione della Romania da parte del «made in Italy». Le frontiere mobili dei brand tra superlavoro e salari in picchiata per difendere uno status symbol minacciato dalle contraffazioni

di Ferruccio Gambino

Quali sono i guai dell'Italia che si scaricano sui romeni? A séguito del recente e perdurante ciclo di paranoia antiromena, i pochi commentatori meglio intenzionati hanno abbozzato un elenco dei disagi e delle frustrazioni che si esprimono nell'avversione all'immigrazione dall'Europa sud-orientale. Pochissimi sono andati a osservare le attività degli italiani in Romania e le conseguenze sociali delle loro operazioni.
Il nuovo libro di Veronica Redini affronta la questione e va oltre, aprendo nuove prospettive sull'invisibilità sociale e sui rapporti sociali che l'Occidente impone o contratta nei suoi traffici (Frontiere del made in Italy, ombre corte, euro 15). L'autrice rende conto «di un percorso etnografico che si è svolto a varie riprese tra il 1999 e il 2007 in due città romene, quella di Cluj-Napoca prima e di Timisoara poi» tra camici blu romeni, affaristi italiani, fungaie di capannoni in aperta campagna, voli aerei durante i quali si mutano non soltanto vestiti ma anche immagini di sé e visioni del mondo. Leggendo il volume si è continuamente sollecitati a fare i conti con l'Italia fuori dall'Italia e in particolare con i rapporti di lavoro che negli scorsi vent'anni il capitalismo italiano ha in parte negoziato e in parte imposto sia in Italia sia nei paesi euro-orientali, dove il comando euro-occidentale sperimenta una certa espansione.
La peculiarità del comando italiano in Romania non consiste tanto nel «made in Italy» e nell'aura che lo avvolge quanto nella penetrazione diffusa e nell'accaparramento di manodopera e beni locali da parte di imprenditori, esperti, tecnici di produzione di provenienza italiana. Mentre gli imprenditori di altri paesi, quali la Francia e la Germania muovono verso l'Europa sud-orientale con gli ingenti investimenti diretti di grandi aziende, sono ben 16.000 circa le ditte attive a capitale italiano in Romania, addensate perlopiù nell'ovest del paese.

Il cronometro al collo

La varia umanità italiana in Romania, dove primeggiano i veneti, ha stabilito una sua presenza capillare. Per gran parte degli espatriati e dei pendolari è diventata irresistibile la tentazione di far soldi e di condurre una vita più agevole spremendo le cosiddette risorse sociali, economiche ed emotive locali senza dover avventurarsi oltre i 700-800 chilometri. Come organizzare la spremitura non è facile: occorre che i ritmi di lavoro imposti in Romania siano occidentali, ossia stretti, e che il prodotto risulti «made in Italy» agli occhi del consumatore, che i salari rimangano assolutamente «romeni» e che si tenga alla larga lo spettro delle rivendicazioni di chi lavora.
Questa sommaria architettura sociale presenta alcuni effetti di spaesamento e molti attriti. L'autrice mette a fuoco gli uni e gli altri ponendo sotto osservazione il settore delle calzature. Il clima sociale risulta carico di tensioni, soprattutto in concomitanza con l'espansione economica che la Romania va sperimentando. Le tensioni più acute riguardano tre campi: i ritmi di lavoro, la distanza messa tra le maestranze romene e le merci che producono e infine la difesa di un «made in Italy» che viene prodotto lontano dallo Stivale. Sui ritmi di lavoro questo libro contiene pagine memorabili, tali da diradare come nebbia al sole le storie della fine del lavoro seriale. Secondo un navigato esperto «noi abbiamo ancora il cronometro attaccato al collo!»; e a parere di un altro: «c'è questo impiego di tecnici italiani, perché è il tecnico italiano che deve imprimere il ritmo». Non soltanto vengono imposti standard dei tempi che si avvicinano sempre più a quelli italiani ma, in qualche caso, trattandosi di manodopera femminile ricattabile, la si blocca alle macchine persino durante la consumazione del pasto. Il divario salariale rispetto all'Italia permette addirittura di produrre con più cura, specialmente nelle fasi più delicate. È ovvio che una parte degli occupati di ditte italiane in Romania punta a superare le frontiere e a cercare un posto di lavoro in Italia a ritmi analoghi ma con il vantaggio dei salari italiani, un fenomeno che si osserva anche in altre aree euro-orientali nei confronti della Germania e di altri paesi dell'euro.
Consumatori e consumi sono dappertutto evidenti, non altrettanto coloro che vengono consumati nel processo di produzione e distribuzione. Veronica Redini ne porta alla luce le testimonianze partendo dall'analisi del geroglifico sociale della merce, nella fattispecie della calzatura «made in Italy».
Racconta un'imprenditrice italiana in Romania: «Negli anni Novanta (a Vigevano) facevamo solo un lavoro specifico, con roba pregiata. Pregiata vuol dire che lavoravamo solo rettile, pitone, coccodrillo... è un prodotto per l'America, per gli sceicchi». Adesso in Romania l'imprenditrice comanda lavoro femminile che produce per un marchio famoso, un marchio che punta alla quantità, ai grandi numeri dei consumatori occidentali, ma soltanto grazie al margine di distinzione (e di prezzo) di una mitica innovazione di prodotto. Si tratta di un «made in Italy» che viene prodotto in Romania e che è destinato esclusivamente ai mercati occidentali. Qui si apre un gioco di recinzioni mercantili apparentemente italiane e di passe-partout altrettanto apparentemente romeni.
In realtà si tratta di una modalità elementare della vituperata lotta tra le classi sociali che è vecchia almeno quanto il capitalismo: imprenditori che intendono vendere agli abbienti a caro prezzo le merci alle quali le operaie non dovrebbero accedere, pena la svalutazione delle merci medesime; operaie che sono decise a riappropriarsi di beni creati dalle loro mani. Si intravvede che le barriere di questo ridicolo doppio corso della moneta cominciano a incrinarsi, poiché, a fronte dei furti di scarpe, la direzione si acconcia a vendere a prezzo ridotto alle operaie una quota della produzione destinata al mercato locale. Sono forse questi i primi segni per le ditte straniere che è bene evitare di prendere sottogamba il consumo interno.
Questo volume, con pochi altri, mostra su quali spalle si regge l'ascesa economica romena e i suoi effetti: donne o uomini ordinari in larga parte sradicati dai territori di origine dalla vecchia nomenklatura e dalla nuova democrazia, costretti o a sottostare ai dettami e al regime salariale dei nuovi signori, oppure a emigrare - e tuttavia non rassegnati a piegare la testa sotto il peso del «made in Italy». Veronica Redini guida il lettore attraverso il campo minato di dibattiti e definizioni del «made in Italy» e lo conduce indenne fino al luogo della demistificazione. Per molti «il vero prodotto italiano» appare connotato dalla nazionalità del produttore, da una componente «culturale» e da una traiettoria commerciale.

Lungo il Danubio

Secondo gli imprenditori e i tecnici intervistati, il displuvio tra l'elemento italiano - «il bello», «l'armonioso» - e l'elemento romeno - «il brutto», «la romenata» - segna pure la separazione tra l'autenticità e la contraffazione. Poi, come già negli anni Ottanta a Hong Kong per la moda italiana, gli esportatori italiani esaminano la merce contraffatta e sovente giungono alla stessa conclusione asiatica di allora: «Trattiamo con questi qui». Descrivendo i negozi di un noto marchio italiano a Bucarest e Timisoara, Veronica Redini scrive: «dall'Italia provengono il progetto espositivo, i mobili e gli accessori d'arredamento, solo gli elementi in qualche modo meno visibili come i vetri e la manodopera sono romeni».
Il suo libro riesce a mettere sotto la lente d'ingrandimento gli elementi meno visibili, quelli che il baccano mediatico intende seppellire sotto lo scalpitio delle ronde antiromene. Dunque, fatica coraggiosa e di lunga lena, quella dell'autrice; e pubblicazione tempestiva in una congiuntura difficile qual è certamente questa, una congiuntura che aumenta le distanze sociali e l'ostentazione mentre colpisce chi crea il «made in Italy» lungo il basso Danubio ancor più che lungo il Po.






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