Aimé Cèsaire
Discorso sul colonialismo
seguito da Discorso sulla negritudine
 
Carta - 7-13 maggio 2010


di Giuliano Santoro

"Una cività che si dimostra incapace di risolvere i problemi causati dal proprio funzionamento è una civiltà decadente".Il "Discorso sul colonialismo" di Aimé Césaire, poeta e intellettuale martinicano scomparso nel 2008, a 95 anni, dopo una vita dedicata all'impegno contro il colonialismo, comincia con queste parole, e va diritto all'obiettivo: "Il fatto è che la cosiddetta civiltà 'europea', la civiltà 'occidentale', come è stata forgiata da due secoli di regime borghese, è incapace di risolvere i due problemi principali che la sua esistenza stessa ha generato: la questione del proletariato e la questione coloniale". Lo sferzante "Discorso" apparve per la prima volta nel 1950, ma sarebbe stato stampato nella sua versione più nota a Parigi cinque anni più tardi. Oggi viene proposto nella versione italiana [Ombre corte, 106 pagine, 10 euro] da Miguel Mellino, insieme al più recente "Discorso sulla negritudine", in cui il poeta mar-tinicano affronta ancora una volta [a quasi quarant'anni di distanza dal primo scritto sul colonialismo] il rapporto sempre fervido di tensioni tra universalismo e parzialità, tra essere in comune e differenze. Suona attuale, il pamphlet di Césaire, perché è a globalizzazione avvenuta che ci siamo resi conto di quanto il destino dell'umanità e del pianeta sia davvero una cosa sola, e che se all'origine stessa della nozione di Occidente c'è una lunga serie di distinguo e definizioni "in negativo": dal rapporto tra cittadini e stranieri nell'antica Grecia passando per la mitologia da "scontro tra civiltà" ante litteram della battaglia di Lepanto nel sedicesimo secolo, fino all'esportazione della democrazia dei neocone alle guerre umanitarie, l'Occidente ha la sua qualità nella presa di distanza da ciò che nongli appartiene ma che è territorio di conquista. Césaire ha il merito di cogliere questa caratteristica fondante della modernità, proprio all'indomani della vittoria contro il nazismo e di ribaltare la retorica democratica alla vigilia della conferenza di Bandung dei "paesi nonallineati", che nel 1955 proietterà per la prima volta nelle relazioni internazionali il "terzo mondo" e ci spingerà oltre il colonialismo. Di fronte all'ennesima autoassoluzione dell'Occidente, Césaire è davvero spietato: "Varrebbe davvero la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell'hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista e cristiano del ventesimo secolo che anch'egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso", scrive, ricordando che il nazismo ha "applicato all'Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente agli arabi d'Algeria, ai coolie dell'India e ai negri dell'Africa". Césaire è un intellettuale della diaspora politica e transnazionale che Paul Gilroy ha definito dell'Atlantico nero. La cultura è un campo di battaglia direttamente politico, e Cesaire attacca frontalmente [come faranno dopo di lui autori diversi del calibro di Edward SaideFrantz Fanon] l'umanesimo europeo. È in questa chiave che, sottolinea ancora Mellino, va letto ilsurrealismo di Césaire: è uno strumento utile a contribuire alla "distruzione del simbolico" delle convenzioni culturali per svelare "il ruolo 'strutturante' delle rappresentazioni e dell'ideologia nel sistema di dominio coloniale".
"Soprattutto - ricorda Mellino nella esauriente introduzione al 'Discorso' - gettava le basi di quello che qualche anno dopo sarebbe diventato un nuovo tipo di pratica critica e di analisi testuale: la 'teoria del discorso coloniale'". Così, il "Discorso" aggredisce duramente il razzismo degli scrittori e degli intellettuali europei. Césaire cita il filologo francese Ernest Renan, che nel diciannovesimo secolo - decenni prima delle aberranti teorie della razza hitleriane, quindi in tempi non sospetti - scrisse queste parole: "Noi non aspiriamo all'uguaglianza ma alla dominazione. I paesi estranei alla nostra razza dovranno ridiventare paesi di servi, di braccianti agricoli o di lavoratori industriali. Non si tratta quindi di sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini ma di evidenziarle e trasformarle in legge". C'è un altro elemento di estrema attualità. Smentire l'auto-assoluzione delle democrazie colonialiste significa mettere in luce la forza dei movimenti anticoloniali nel riportare al centro dei sistemi occidentali, ben visibile agli occhi dei benpensanti, tutta la violenza che si consuma lontano dalle sicure case europee. Oggi, a sessant'anni di distanza, quella barbarie non è più così lontana, ed è pienamente dispiegata e operante. Non si comprendono i nuovi schiavi di Rosarno oppure l'universo concentrazionario dei Centri di detenzione per migranti irregolari se non si riconosce que-sta qualità del mondo postcoloniale: alcuni dei tratti del colonialismo si riproducono in pieno Occidente e, allo stesso tempo, alcune caratteristiche che si direbbero del mondo "sviluppato" appaiono nel bel mezzo del "terzo mondo", rendendo inutili o quanto meno insufficienti i concetti stessi di "sviluppo" e di "sottosviluppo". Soltanto quelli che Fanon chiamerà "dannati della terra" sono in grado di vedere di cosa è fatta que-sta "totalità" di violenza e contraddizioni estreme di cui si compone il mondo; ecco il paradosso della relazione tra "tutto" e "parte".
La "negritudine" è il concetto che Césaire ha vissuto ed ha elaborato,come moltissimi schiavi e come immigranti, in una condizione materiale di sospensione e contaminazione continua, tra Parigi e la Martinica, tra le frequentazioni marxiste europee e quelle dei giacobini neri di Haiti: è una parzialità dalla quale è possibile vedere la totalità del mondo. Per questo motivo la lotta anticoloniale non deve tradursi nello sforzo di restaurare presunte "condizioni originarie", di rimette-re indietro le lancette dell'orologio della storia in nome di una qualche società tradizionale: "Per noi il problema non è quello di riproporre uno sterile e utopico ritorno al passato, ma quello di un suo reale superamento - scrive Césaire - Non vogliamo far rivivere una società morta, questo lo lasciamo agli amanti dell'esotismo". Tuttavia, non bisogna neppure aspirare alla semplice riproduzione del modello di sviluppo europeo e statunitense: "Non vogliamo prolungare la società coloniale - prosegue il poeta martinicano - la più putrida che sia mai marcita sotto il sole". La decolonizzazione ripristina, nota ancora Mellino, "la singolarità,la pluralità e la trasversalità come condizioni essenziali dell'esistenza". E queste condizioni appartengono soltanto ai colonizzati. Il ribaltamento della nozione di identità cui fa riferimento Césaire, questo mix di condizioni sociali ed economiche, appartenenza etnica e produzione di cultura, verrà ripreso da molti e in contesti diversi: le Black Panthersnegli Stati uniti useranno la nozione, biologicamente inventata, di "razza", per tracciare con forza la linea del conflitto contro i loro nemici. Svuotando la "razza" dei suoi contenuti biologici [cosa che per altro farà anche il razzismo differenzialista, che include ed esclude in base alle esigenze del mercato del lavoro] i militanti del partito della Pantera nera l'hanno trasformata sapientemente in strumento di lotta politica.Questa mossa, dirompente per una organizzazione che affermava di volersi ricollegare al marxismo rivoluzionario, è servita a creare ap-partenenza in una società in cui la generica"classe" è fortemente disgregata, e soprattutto a smarcarsi dalla generica rivendicazione diseguaglianza universale. La "negritudine", in que-sto caso, è riuscita a ribaltare sul terreno dei propri nemici tutto il peso delle differenze e delle diseguaglianze che marcano l'esperienza esistenziale di chi è discriminato e persino a costruire nuove forme di relazioni sociali e di lavoro, oltre che nuove discipline di studio come i "black studies". "Ecco cosa è stata la Negritudine - scrive Césaire nel 'Discorso sulla negritudine', che invece risale al 1987- la ricerca della nostra identità, l'affermazione del nostro diritto alla differenza, l'imposizione a tutto il mondo del riconoscimento del nostro diritto e del rispetto della nostra personalità". E ancora: "Io non penso ad una identità arcaicizzante, avida di se stessa, ma ad una identità desiderante il mondo". Dalla differenza, e non dalla negazione di essa, si arriva persino ad un nuovo concetto di universale "come approfondimento della nostra singolarità". Perché, come si legge nelle ultime righe del "Discorso", "il nostro impegno ha senso soltanto se si propone come un riradicamento, ma anche come espansione, come un superamento, come la conquista di una nuova e più larga fraternità".



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