Sandro Mezzadra
La condizione postcoloniale
Storia e politica nel presente globale
 
il manifesto - 13 febbraio 2008

Viaggio ai confini mobili del capitalismo globale
Un mondo dove convivono diversi modi di produzione, di lavoro e temporalità storiche. «La condizione postcoloniale», un saggio di Sandro Mezzadra
di Miguel Mellino

Nella loro introduzione a Translation, Biopolitics and Colonial Difference, Naoki Sakai e Jon Solomon – due dei critici più originali degli studi postcoloniali asiatici ospiti a Bologna nei giorni scorsi di due seminari sul tema della traduzione – affermano che le «entità macro-spaziali» (stati-nazione, regioni o altre comunità culturali omogenee) lasciateci in eredità dalla modernità coloniale non sono la traduzione letterale di un qualche presunto soggetto trascendentale (come la sovranità nazionale o l’Occidente) ma una forma storicamente specifica di «appropriazione del comune». Se guardiamo ai conflitti più importanti del nostro presente, si può certo sostenere che questa descrizione del progetto coloniale moderno restituisca una dimensione politica davvero cruciale a uno dei presupposti essenziali degli studi postcoloniali: il capitalismo moderno si è costituito come una «macchina produttrice di differenziazione», si è sempre dispiegato attraverso dispositivi biopolitici di segregazione e confinamento.

Oltre i limiti dello spazio

Sakai e Solomon sono piuttosto chiari su questo punto: le recinzioni materiali si sono da sempre accompagnate da recinzioni «immateriali». I processi di accumulazione originaria hanno riguardato certo i beni materiali, ma hanno scatenato la loro violenza anche sulle culture, le lingue, i saperi. Attorno a premesse di questo tipo è andato configurandosi negli studi postcoloniali un importante dibattito sulla nozione di «capitalismo postcoloniale». Può dirci davvero qualcosa sulla condizione globale contemporanea? Il libro di Sandro Mezzadra La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale (Ombre corte, pp. 180, euro 16) offre alla discussione su questo tema un contributo sicuramente originale.
Sin dalle prime pagine, e «correggendo» un importante deficit politico e di radicalità che attraversa buona parte della critica postcoloniale di matrice anglosassone, Mezzadra mette bene in luce che ciò che intende per «condizione postcoloniale» ha a che vedere soprattutto con i modi in cui sono andate articolandosi sia la costituzione materiale dell’attuale capitalismo globale, sia le insorgenze che lo attraversano e che ne contestano i principi. Aprendo l’archivio degli studi postcoloniali in modo giustamente «selettivo» Mezzadra colloca al centro della sua analisi la nozione di «confine» o, meglio, quel principio di confinamento spaziale e temporale che era al tempo stesso «codice e limite interno fondamentale del progetto coloniale». Era proprio questa proliferazione di confini a produrre nelle società coloniali ciò che Frantz Fanon chiamava ne I dannati della terra uno «spazio proteiforme», ovvero uno spazio sociale eterogeneo caratterizzato dalla coesistenza nello stesso territorio di diversi modi di produzione, diversi regimi di lavoro e diverse temporalità storiche.

Geografie frattali del dominio

In modo estremamente convincente, e affrontando l’argomento a partire da molteplici punti di vista, Mezzadra individua nell’infiltrazione di questi codici coloniali di confinamento negli ex-spazi metropolitani la specificità «postcoloniale» della nostra condizione contemporanea. È proprio la diffusione globale di questo principio coloniale di confinamento e quindi l’irruzione di questo spazio «disomogeneo» o «proteiforme»nel cuore delle stesse metropoli occidentali a consentirci di definire il nostro presente come postcoloniale.
Secondo Mezzadra, infatti, «una volta che il confine coloniale ha cessato di organizzare in modo coerente la geografia globale, esso si diffonde ovunque, riproducendosi sulla superficie apparentemente liscia del presente globale: accompagna la nuova logica delocalizzata della produzione, segna in modo brutale intere società che furono un tempo capaci di liberarsi dal giogo coloniale, introduce nuove radicali differenze di status e nuove forme di apartheid nell’Occidente postcoloniale, si fortifica fisicamente, condannando potenzialmente a morte chiunque tenti di attraversarlo, passando tra le recinzioni tra Tijuana e San Diego o facendo naufragio nel Mediterraneo». È così che la condizione postcoloniale, in quanto sintomo della sovrapposizione di quei confini «infrasistemici» che avevano permesso in passato di distinguere chiaramente la dimensione spazio-temporale delle metropoli da quelle delle colonie, mette radicalmente in discussione qualsiasi interpretazione storicistica del presente, qualsiasi tipo di sapere improntato a una qualunque filosofia della storia. In effetti, si tratta di una condizione che vede il riaffiorare disordinato dell’insieme dei passati storici che il capitalismo moderno ha trovato sulla sua strada, in cui «sussunzione formale» e «sussunzione reale» del lavoro al capitale riescono a ibridarsi, a convivere fianco a fianco senza definire una qualche tendenza lineare di sviluppo.
Mezzadra però ci mette costantemente in guardia dall’evitare facili analogie tra la condizione coloniale del passato e quella postcoloniale del presente. Il post di postcoloniale non sta mai ad indicare una persistenza stabile e lineare nel presente del passato coloniale. Esprime certamente delle continuità, nel senso che tra le genealogie del presente globale vi è anche e soprattutto il colonialismo moderno, ma non può costituirsi come un semplice equivalente del termine neocoloniale. Soprattutto perché la «scoperta dell’eguaglianza» trasmessaci dalle lotte anticoloniali, il rifiuto del mondo a scomparti tipico della situazione coloniale, costituisce un portato irreversibile del nostro presente.

La possibile defezione

Così, ciò che Mezzadra tiene a sottolineare è che la radicalità delle rivendicazioni di egalité e libertè profuse in tutto il mondo dalle insurrezioni anticoloniali ha messo per sempre in crisi la possibilità di assumere come scontato lo stesso principio del confinamento e la conformazione «attorno ad esso di un modello univoco di governo dei processi politici e produttivi, nonché uno stabile assetto dei confini, geo-politici o identitari». Mi pare che proprio qui il suo lavoro offra suggerimenti davvero interessanti attraverso cui pensare la nozione di capitalismo postcoloniale: nella sua definizione dell’istanza postcoloniale come condizione instabile e aleatoria in cui le possibilità stesse del capitale – il suo costituirsi come «macchina di differenziazione» – devono essere costantemente riaffermate, ovvero vengono quotidianamente sfidate dalle pratiche di uomini e donne che nella loro irriducibile molteplicità cercano di sottrarsi all’azione dei suoi dispositivi biopolitici di confinamento: nel Chiapas come in Palestina, a Buenos Aires come nelle banlieues parigine. E che nel momento stesso della loro soggettivazione aprono la questione politica della loro ricomposizione in quanto classe: della traduzione della loro inclusione differenziale nella produzione di un nuovo comune.



La traduzione che cattura la realtà
La mescolanza di lavoro salariato, «libero» e servile che caratterizza la realtà contemporanea confluisce nelle diverse forme della produzione di ricchezza unificate tuttavia dal comune linguaggio del valore
Augusto Illuminati

Perché questo libro di Sandro Mezzadra serve per comprendere i conflitti di classe e sociali in Italia? Cosa dobbiamo imparare da esperienze di paesi che un tempo si definivano variamente coloniali, ex-coloniali, sottosviluppati, in via di sviluppo, del Terzo Mondo? Non è la prima volta che alcuni studiosi o militanti hanno tentato di spiegare e organizzare un processo di lotte nei paesi cosiddetti avanzati facendo riferimento ai movimenti di liberazione nazionale; il terzomondismo è stata una tonalità influente negli anni della conferenza di Bandung e poi nel convulso periodo fra il 1966 e il 1978. Lo stesso guevarismo, il maoismo si possono leggere come imbarazzati ed embrionali tentativi di provincializzare l’Europa. Meglio dire, che si è trattato spesso di false partenze, che giravano intorno all’intuizione dei limiti dell’esperienza occidentale, ma sussumevano le rivoluzioni del Terzo Mondo in una prospettiva sostanzialmente eurocentrica.

Gli idiomi dello sfruttamento

Oggi la novità degli studi subalterni (in senso lato), così brillantemente sintetizzati ed esposti da Mezzadra, consiste nel mostrare come la costituzione dell’accumulazione primitiva in Occidente ha seguito una strada più complessa di quella tracciata da Marx in riferimento soprattutto all’esperienza inglese; che inoltre tale processo non è concluso ma si rinnova quotidianamente evidenziando quella mescolanza di sussunzione formale e reale (lavoro servile, vincolato e «libero») presente e non sempre avvertita già all’inizio e al momento clamorosamente evidente su scala tanto globale quanto locale. Il lavoro precario in Occidente non designa infatti soltanto una fascia crescente di occupazione intermittente che si colloca a metà fra gli impieghi fissi di tipo fordista (residuali in Europa e Usa, dilaganti in Asia) e l’uso di metodi apparentemente molto più antichi (lavoro a domicilio, schiavizzazione dei minori, illegalità di laboratori e maquilladoras varie, lavoro forzato), ma sintetizza efficacemente la generale precarizzazione e la confluenza di diversificate forme di lavoro in una produzione omogenea di valore che rende produttivi e coordina in rete tutti i sistemi di estorsione della ricchezza. In altri termini: li «traduce» da idiomi locali arcaici o ultramoderni nel comune linguaggio globale del valore e lo fa sia metaforicamente (cioè estraendo plusvalore con metodi eterogenei e monetizzandolo) che instaurando una serie di protocolli formali che vanno dalle procedure informatiche al gergo accademico internazionale di requisiti, skills e «crediti».
Una delle tesi di fondo del libro è appunto che la traduzione costituisca oggi uno dei modi essenziali di funzionamento del capitale globale, producendo la struttura semantica e grammaticale del linguaggio del valore, con una variante intensificata di quello che lo studioso giapponese Naoki Sakai ha definito homolingual address, in cui il soggetto dell’enunciazione si rivolge ai destinatari del proprio discorso assumendo la stabilità e l’omogeneità tanto della propria lingua quanto di quella di chi lo ascolta – postulando insieme la trasparenza della comunicazione e l’indiscussa sovranità della propria lingua. S’intende che lingua e comunicazione oggi hanno un ruolo centrale (economico, non solo allegorico) sia nella sfera della produzione e distribuzione di beni e servizi che nella sfera finanziaria. Il rovescio di una traduzione omolinguale, che nei linguaggi omologa la sottostante società, è una traduzione eterolinguale in cui si costituisce un soggetto collettivo capace di porsi come soggetto di trasformazione radicale a partire dagli antagonismi e dai conflitti che contraddistinguono ogni singolo momento di «cattura» nella sussunzione formale o reale. Come il capitale ha incontrato varie forme di subordinazione disciplinare e produttiva e se le è annesse, cercando di assimilarle alla propria logica e stabilizzarle, così deve variare l’alternativa di classe, il «noi» a cui ci riferiamo nelle nostre pratiche politiche.
Traduzione riuscita fra lotte e resistenze vuol dire dunque costruire un’egemonia nel confronto con gli oppressori-sfruttatori sul duplice registro del potere e dell’appropriazione. Il rigetto di ogni mito della buona comunità devastata dall’aggressione esterna del capitalismo o delle potenze coloniali (un’omolingualità tutta difensiva e reattiva) rimodula uno temi essenziali degli studi subalterni: l’indicazione del comune come terreno di smentita di una falsa modernizzazione, rivendicazione opposta alle ricorrenti recinzioni – ieri (ma ancor oggi) agrarie, adesso anche del sapere, come dimostrano le controversie sul software e sui brevetti genetici e farmaceutici.

Il sogno di una cosa

Ma l’arcaico-comunitario è spesso una trappola nefasta, tal che Mezzadra conclude con grande validità: «occorre prendere congedo da un’immagine dei commons come qualcosa di esclusivamente già dato ed esistente, e lavorare all’ipotesi che il comune sia qualcosa che deve essere prodotto, costruito da un soggetto collettivo capace, nel processo della sua stessa costituzione, di distruggere le basi dello sfruttamento e di reinventare le condizioni comuni di una produzione strutturata sulla sintesi di libertà ed eguaglianza. Che cos’altro è il comunismo, il “sogno di una cosa” che dobbiamo tornare finalmente a sognare?». Pare, questo volume di Sandro Mezzadra, un buon programma per far uscire la moltitudine dalle lande nebbiose dove troppo spesso è relegata a forza di evocarla in modo impreciso.



Liberazione - 23 aprile 2008

Pensiero postcoloniale
bussola nel mare del conflitto

di Girolamo De Michele

Il libro si apre con l'immagine del comandante Achab che, chino sulle carte nautiche dei quattro oceani, traccia le rotte «con l'intento di portare a compimento il pensiero monomaniaco della sua anima», quasi a voler suggerire un primo uso di questo testo: una cartografia critica degli studi postcoloniali, che con colpevole ritardo cominciano ad essere tradotti e studiati anche in Italia. Si tratta di autori - Chakrabarty, Chatterjee, Mbembe, Chakravorty Spivak, Sanyal, Sakai, Boutang - che ridefiniscono «i processi di ibridazione, negoziazione e resistenza che l'intervento dei soggetti colonizzati ha iscritto fin dalle origini della modernità» nella trama del discorso coloniale. E che, attuando un radicale mutamento di paradigma nel rovesciare il rapporto centro-periferia (dall'occidente europeo al mondo globale), mostrano la maggiore ricchezza di un approccio orientato a «provincializzare l'Europa».
"La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale" (Ombre corte, pp.172, euro16) contiene una mappa degli studi postcoloniali, cartografata con perizia e competenza da Sandro Mezzadra, che varrebbe da sola la fatica della lettura. Ma chi intraprende questa lettura difficilmente riuscirà a fermarsi al livello della bibliografia ragionata, perché l'autore mostra una spiccata propensione - tipica di chi ha una lunga frequentazione con il pensiero radicale - a complicare, piuttosto che a ridurre, la complessità dell'argomento, mostrando come gli stessi studi postcoloniali non siano sottesi da un paradigma unitario, ma descrivono, nelle loro linee di fuga e di sviluppo, un campo di studi in continua frammentazione. Piuttosto che cercare di ricondurre la teoria ad unità, prova a «cogliere le opportunità implicite in questa situazione, ponendo le basi per un uso più libero delle categorie e delle acquisizioni della critica postcoloniale». Un uso che continuamente rinvia alle pratiche, ai conflitti, alle lotte che ridisegnano ogni giorno lo stato dei rapporti di forza nel contesto globale. In altri termini, questo libro per un verso esiste in conseguenza dell'esistere e del confliggere di una condizione migrante globale; per altro verso, esso sa di essere non una esposizione teorica buona per quei talk show televisivi o quelle pagine dei grandi quotidiani dove i Sartori e i Panebianco ci annunciano che il latte è ricco di calcio e i neri hanno il ritmo nel sangue, ma uno strumento al servizio di quelle lotte e di quella critica allo stato di cose esistente - «nella fuga portarsi dietro un'arma», scriveva George Jackson (e ripeteva spesso Gilles Deleuze). Dalla critica postcoloniale, sostiene Mezzadra, si può estrapolare un'immagine del presente come «un tempo in cui l'insieme dei passati che il moderno capitalismo ha incontrato sulla sua strada riemerge disordinatamente in una sorta di "esposizione universale", in cui "sussunzione formale" e "sussunzione reale del lavoro sotto il capitale", lungi dal poter definire una tendenza lineare, si ibridano e coesistono fianco a fianco». Il presente, dal punto di vista a-centrico assunto (qui è consistente la presenza di Benjamin) è un intreccio di forme vecchie e nuovissime di sfruttamento, di soggettività stratificate e in continuo mutamento: più che le carte di Achab, ci viene in mente quel Freud che nel mentre tracciava la mappa delle istanze che compongono l'Io, criticava i propri schemi perché fissavano sulla carta ciò che è in perpetuo movimento. Nondimeno, se questo libro è una bussola per orientarsi in questi mari, il merito è anche dell'autore e del metodo di lavoro: il recupero della lezione operaista (il metodo della tendenza, lo studio dei soggetti a partire dai conflitti che li generano) incrociata con quella «globalizzazione dell'eredità teorica dell'operaismo italiano» avviata da Negri e Hardt con "Impero". A questo metodo Mezzadra aggiunge l'approccio meta-linguistico all'economia politica derivato da Marazzi, ma soprattutto dai lavori del giapponese Naoki Sakai sui rapporti tra soggettività e traduzione come chiave di lettura della transizione senza fine nella quale siamo in situazione: se il domino del capitale significa traduzione della dimensione globale nell'unico linguaggio del valore - «l'indirizzo omolinguale», dice Sakai - la moltitudine può essere ripensata come «comunità non aggregata di stranieri», una comunità «al cui interno ci rivolgiamo l'un l'altro attraverso l'attitudine dell'indirizzo eterolinguale».
Solo un folle si mette tra Achab e la sua balena, ha detto un filosofo contemporaneo. L'ambizione di Mezzadra è proprio questa follia che consiste nel mettersi nel mezzo, tra la "naturale" potenza distruttiva del mostro e la riduzione della pluralità dell'umano a monomania paranoica del baleniere: dalla parte di quella moltitudine umana e linguistica che brulica sulla tolda del Pequod - il «sogno di una cosa che dobbiamo finalmente tornare a sognare».






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