Descrizione
Gianluca Bonaiuti
Una teoria politica della finzione
Saggio sul pensiero utopico
Da tempo il concetto di “utopia” è entrato in un orizzonte d’indeterminazione. Non solo il suo significato politico si è fatto via via più ambiguo, ma la stessa capacità d’immaginarsi realtà alternative ha perduto, almeno in parte, la propria attrattiva in ragione della loro crescente superfluità. Anche chi sondasse l’immaginario contemporaneo, si vedrebbe costretto a riconoscere che il nostro è il tempo delle “distopie”, che ci assediano, piuttosto che quello delle utopie. Il volume non ha come obiettivo quello di mettere fine alle controversie interpretative sulla tradizione utopica, offrendo magari una nuova definizione, al contrario vuole esibire la complessità del profilo teorico del concetto per mostrare il tratto paradossale, quindi produttivo di senso, che lo definisce sin dalla coniatura originaria del termine nell’opera di Thomas More. Ciò che diventa chiaro grazie al concetto di utopia, è la persistente difficoltà che incontriamo nel gestire le possibilità. Se utopia, in senso proprio, è allestimento di una finzione della possibilità, il suo scopo resta quello di ridurre la contingenza. Così, quando si decreta la morte dell’utopia non si fa altro che ammettere la propria impotenza rispetto a una complessità straripante e a una contingenza ingestibile. Come sofisticato riduttore della contingenza, però, l’utopia permette un accesso al possibile che forse può ancora riservare qualche sorpresa.
Gianluca Bonaiuti insegna Storia delle dottrine politiche e Culture politiche all’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni: La catastrofe e il parassita (Mimesis, 2004, con Alessandro Simoncini), Corpo sovrano (Meltemi, 2006) e Lo spettro sfinito. Note sul parassitismo metodico in Peter Sloterdijk (Mimesis, 2019). Ha curato le edizioni italiane di alcune opere di Niklas Luhmann, Boris Groys, Peter Sloterdijk ed Heiner Mülmann.
UN ASSAGGIO
Indice
9 Premessa
15 I. Derealizzazione ovvero nella provincia utopica
1. Una parola inafferrabile; 2. Indeterminazioni del reale; 3. Humana coniectura; 4. Concetto omogeneo di realtà; 5. L’enigma della finzione; 6. Insula ficta; Excursus 1: Le forme del possibile e il “segreto utopico” di Hegel; Excursus 2. La finzione del politico ovvero dove Heidegger non sbaglia
69 II. Lo spazio della finzione
1. Homo fingens; 2. Costruttivismo cartografico; 3. Teoria dell’isola; 4. Come in prospettiva; 5. Escapologia I: La fuga nell’abbondanza; 6. Escapologia II: La fuga nella rappresentanza; Excursus 3: L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento
113 III. Antropotecniche immaginate
1. Auto-operazioni; 2. Il paradigma di un’eu-politica immaginata; 3. “Dove siamo quando pensiamo?”; 4. Felicità teoretiche; 5. Verticalismo politico (Escapologia III); 6. Homo homini creator; Excursus 4: Il “secondo valore” ovvero esilio nella periferia del Diavolo; Excursus 5: Metabolismi architettonici ovvero la sindrome dinamica dei corpi d’abitazione
164 IV. La finzione dopo la finzione
1. The future cannot begin; 2. Apocalypse Now (Escapologia IV); 3. Abitatori della catastrofe; 4. Variazioni topologiche; 5. Che fine ha fatto l’utopia
211 Conclusione
Premessa
Da molto tempo l’utopia giace, inerte, sul fondo del cassetto della nostra memoria. Assomiglia a quei ricordi piacevoli, ma distanti, di cui si ha un po’ di nostalgia, ma di cui si sente di poter tranquillamente fare a meno per continuare a vivere. Non è sempre stato così. Per un intervallo storico significativo, diverse generazioni di uomini si sono rivolti ad essa come a una risorsa intellettuale di prima grandezza, necessaria perché in grado di mobilitare energie politiche altrimenti incapaci di trovare espressione. Intesa come forma di intelligenza teorica sui generis, l’utopia ha indicato una forza creatrice in grado di costruire spazi di possibilità altrimenti invisibili, e quindi prefigurare, con essi, orizzonti di esperienza non raggiungibili sul momento, e però auspicabili e degni di attenta considerazione. Da qualcuno è stata concepita anche come il principale antidoto alle “sclerosi dell’intelletto adattivo”, a tutte quelle forme, cioè, in cui l’intelligenza diventa politicamente inattiva specchiandosi senza resti nel reale. È probabilmente per questo che la parola utopia raccoglie oggi su di sé un certo tono nostalgico, oltre al ben noto riflesso di inutilità.
E questo al di là di tutte le accuse e le smentite di cui è stata fatta oggetto nel frattempo. Osservata a posteriori, l’intelligenza utopica ha il volto un po’ ingenuo di una capacità in grado di dar vita a quel genere di sogni belli ma impossibili che accompagnano la crescita delle facoltà, anche dell’intelletto moderno; a questo primo deprezzamento, si è poi aggiunta la convinzione ch’essa potesse essere anche inutile e dannosa, se troppo direttamente legata all’orizzonte politico di progettazione, in quanto specchio di un perfezionismo incompatibile con le complessità dell’umano. Ma siamo proprio sicuri che si sia trattato solo di questo? Siamo sicuri che oggi comprendiamo pienamente quali fossero i moventi che agitavano le intelligenze di generazioni che alla proiezione utopica hanno dedicato le loro migliori energie? Personalmente ne dubito. Dubito soprattutto che si abbia contezza del modello di intelligenza che in essa era contenuto.
Non v’è dubbio, d’altronde, che il modo in cui oggi si studia l’utopia non faccia che confermare la necessità di questo congedo. “Utopia” è divenuto da tempo il titolo per una raccolta di ricerche tese alla catalogazione e alla rubricazione di voci. Sull’utopia si scrivono dizionari e compendi, si raccolgono antologie, si elencano autori e progetti, si redigono indici e cataloghi, seguendo il tipico modello di raccolta dell’archivio, il quale non ha altro scopo che quello di repertoriare idee e renderle disponibili al lettore per tutte le sue eventuali occasioni d’intrattenimento. Niente di male in tutto questo. Per quanto possa sembrare paradossale che il destino di una forma di osservazione del mondo che porta nel nome la ricerca di un’alterità, un altrove spaziale o temporale (un altro luogo, un altro tempo), finisca per ritrovarsi confinata nell’alterità del tempo passato. Fa parte, forse, del residuo d’importanza che sembrano potersi riservare quelle “umanità varie” – humanities nella lingua delle culture che le hanno forgiate – cui con molto scetticismo, e malcelata ironia involontaria, si cerca di attribuire il nome di scienze, quello d’ingigantire i propri archivi: che si tratti dell’ultima utopia “umanistica”?
Forse ciò è legittimo anche da un altro punto di vista: non è forse il modello dell’archivio il modello guida per la costruzione della memoria? Se è così, allora, questo effetto di “musealizzazione” dell’utopia è un semplice adattamento alla logica funzionale delle nostre tecniche di memorizzazione. Perciò non si può chiedere, per l’utopia, nessun altro spazio o luogo di accoglienza. […]