Spacciati rabbiosi coatti

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Mario Marasco

pp. 142
Anno 2021 (ottobre)
ISBN 9788869482014

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Descrizione

Mario Marasco
Spacciati rabbiosi coatti
Periferia romana e costruzione del panico morale
Prefazione di Pino Schirripa
Postfazione di Pietro Saitta

Al centro di questo lavoro etnografico c’è una comitiva di circa quindici ragazzi, cresciuti in un blocco urbano, ai margini della multiforme metropoli romana. Dipinti come “gang” dai media, la narrazione intende restituire la complessità delle esistenze di questi giovani – che provano a navigare la difficile transizione verso una complessa età adulta –, analizzando e decostruendo stereotipi e pregiudizi, senza trascurare quei locali rapporti di potere in grado di mutare continuamente l’orizzonte morale. Nel lavoro emergono anche gli “altri” abitanti di Marozia (nome fittizio per questa porzione di periferia, ripreso da Le città invisibili di Italo Calvino): immigrati, Rom, operatori del sociale, volontari, forze dell’ordine, ricercatori, giornalisti, politici. Nonostante tali presenze, ciò che risalta è la quasi totale assenza sul territorio di agenti istituzionali. D’altronde è la stessa genesi di Marozia (un complesso abitativo rimasto vuoto, occupato e infine “negoziato” con la politica romana) che ne sottende il destino: l’isolamento. L’analisi antropologica tenta di indagare la dimensione della violenza e della sofferenza – fisiche e simboliche – che si sommano all’illegalità, la quale può apparire l’unica via praticabile per alimentare una diffusa etica della sussistenza e di mutuo aiuto dal basso.
Il testo di Marasco rende giustizia dei tanti facili luoghi comuni con i quali si guarda alle periferie in generale. Ne ricostruisce la complessità e le contraddizioni, con sguardo lucido, non indulgente ma senz’altro partecipato. Riflette sui rapporti di forza che regolano la costruzione dei destini individuali, senza dimenticare le pratiche di resistenza e i tentativi di riscatto.

Mario Marasco si è laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e in discipline demo-etnoantropologiche alla “Sapienza” di Roma, presso la quale ha poi conseguito un dottorato in Storia dell’Europa con una ricerca comparativa (Italia-Etiopia) su bande giovanili e marginalità urbana. Tra i suoi interessi di ricerca: antropologia urbana, microcredito, antropologia dello sviluppo, costruzione sociale del genere e politiche carcerarie in Tigray (Etiopia).

RASSEGNA STAMPA

UN ASSAGGIO

Indice

7 Prefazione
di Pino Schirripa

13 Introduzione

Se non ci sei stato dentro; Chiusure significative e spazi alieni; Un po’ di metodo e l’organizzazione del testo

21 Capitolo primo. Marozia città nascosta

1.1 Come sei arrivato qui?; 1.2 Resilienza locale, stratificazione sociale e disagio diffuso; 1.3 Desertificazione strutturale, carriere scolastiche e disoccupazione

52 Capitolo secondo. Gangster a Marozia

2.1 In caserma tutto bene?; 2.2 Caccia alla gang; 2.3 Razzismo strategico, economia morale ed etica della sussistenza; 2.4 Strategie, tattiche e accesso alle risorse

84 Capitolo terzo. Siamo quelli del “bare”

3.1 Ahmed e la fratellanza; 3.2 Droga, spaccio e uso sociale della “retta”; 3.3 Giovani e anziani

117 Conclusioni

L’ospite scomodo e l’ospizio; Civiltà; Spazio e tempo; Violenze; Esotico bandito; Geografie sociali; Geografie morali

135 Postfazione
di Pietro Saitta

137 Riferimenti bibliografici


 

Prefazione
di Pino Schirripa

Per molti versi, Le città invisibili di Italo Calvino è un testo che, parlando di luoghi immaginari o meno (o forse solo invisibili) parla dell’oggi. In un caleidoscopico insieme, ci vengono restituiti luoghi differenti per costruzioni, flussi che li attraversano, emozioni che suscitano. Se le città invisibili sono un sogno costruito sulle città visibili, il testo di Marasco è invece una lucida e puntuale etnografia di una periferia, tutt’altro che onirica, che si vorrebbe celata allo sguardo. La Marozia di Calvino è una città nascosta, fatta di cunicoli di piombo dove tutti corrono come topi; ma è anche una città sospesa, prigioniera della profezia che vuole che essa si trasformi e si slanci verso l’alto e l’aria trasparente.
Nella finzione di Calvino era Marco Polo a raccontare all’imperatore dei tartari le città del suo immenso impero. Qui, un antropologo napoletano, trapiantato a Roma, offre al lettore il suo sguardo, analitico e rigoroso, su una periferia romana. Come sempre più spesso accade, dunque, questo lavoro è un’etnografia at home. I soggetti della ricerca e il ricercatore sembrano condividere molte cose: una stessa lingua, l’italiano (seppure con differenti gergalità); una città, Roma; uno stesso Stato, con tutto ciò che comporta, e molte altre cose. Eppure, non si può dire che condividano le stesse traiettorie biografiche; le stesse aspettative di vita; la stessa agentività, se con questo termine intendiamo se non altro (ma non solo) la capacità di azione attiva e trasformativa. Marozia, intesa come periferia romana, è geograficamente più vicina dell’Etiopia, dove Marasco ha pur lavorato e a lungo, ma non per questo si può dire che il ricercatore e i soggetti con cui ha interagito siano “strutturalmente” vicini. Non è solo un problema di ruolo (anche se questo c’è) o di sguardo. C’è un problema di fondo: l’incommensurabile distanza data dalla diseguaglianza sociale che segna la traiettoria biografica così come le stesse possibilità di progettare, e anche immaginare, il futuro. Di tutto questo l’autore è molto cosciente, e nella densa introduzione, sulla scia delle riflessioni di Tullio Seppilli, Amalia Signorelli e Marilyn Strathern, si interroga sulle condizioni sociali della produzione della conoscenza etnografica. Si interroga dunque su quello “scarto” che non è dato dal luogo esotico, né dalla storia delle relazioni di dominio coloniale, ma che è dato dalla immediata evidenza delle diverse possibilità legate alla differente posizione sociale. A biografie diverse perché costruite a partire da differenti capacità economiche, e quindi da diversi capitali sociali e simbolici, nel senso in cui Bourdieu usa questi concetti, e aggiungerei dalla possibilità stessa di orizzonti e progetti immaginativi, per richiamare una nozione di Appadurai. Non si tratta di una considerazione che si potrebbe dire, nella sua evidenza, salti subito all’occhio di ogni osservatore avvertito, quanto piuttosto di una postura riflessiva che, attraverso ciò, riesce ad andare oltre un certo solipsismo che ha viziato almeno una parte della svolta riflessiva in antropologia (mi riferisco a quella postura che Piasere [2002] ha definito come la contemplazione del proprio ombelico). […]