Descrizione
Giulia Fabbri
Sguardi (post)coloniali
Razza, genere e politiche della visualità
Oltre a un complesso sistema di rapporti di potere di natura sociale, politica ed economica, il colonialismo ha prodotto anche un apparato di costruzioni discorsive relative alla nerezza e ha svolto una funzione centrale nel processo di strutturazione dell’identità italiana come bianca in modo omogeneo. Tali costruzioni hanno plasmato uno specifico immaginario ancora oggi pervasivo che reifica specifici processi di razzializzazione.
Attraverso una prospettiva intersezionale, il volume rintraccia l’articolazione delle categorie sociali del genere e della razza in relazione alla cultura visuale contemporanea. In particolare, l’indagine si focalizza sul modo in cui la razza viene visualizzata e, dunque, sulla stretta relazione tra la perce-zione delle categorie razziali e i processi visuali. Attraverso l’analisi di una serie di immagini proprie della cultura di massa italiana contemporanea (pubblicità e fotografie), viene mostrato come tali fonti ripropongano un immaginario coloniale relativo alle rappresentazioni delle donne nere, che pone i soggetti all’interno di specifici processi di ipersessualizzazione e di negazione dell’agency. La visualità è dunque un campo all’interno del quale si riproducono le costruzioni razziali e di genere, ma si configura anche come uno spazio in cui tali costruzioni possono essere contestate. In quest’ultima direzione si situano pratiche artistiche “controvisuali”, come il progetto di Karima 2G, cantante italiana di origine liberiana che sviluppa un’autorappresentazione dirompente e oppositiva della nerezza.
Giulia Fabbri è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Lettere e Culture Moderne di Sapienza Università di Roma, dove nel 2020 ha conseguito un Dottorato di ricerca in studi di genere. I suoi ambiti di ricerca comprendono gli studi di genere, gli studi critici sulla razza, gli studi postcoloniali e decoloniali, gli studi storici e letterari, la teoria femminista e gli studi sull’intersezionalità
UN ASSAGGIO
Indice
7 Ringraziamenti
9 Introduzione
25 Capitolo primo. Razza e razzismo: un approccio teorico e storicoa
1. Il caso italiano; 2. Razza, genere e colonialismo; 3. Le leggi razziali degli anni Trenta e la razza nell’Italia postbellica
51 Capitolo secondo. Il dibattito italiano su razza e razzismo dal 1990 a oggi: uno sguardo sullo stato dell’arte
1. Premessa. Una panoramica sul contesto italiano; 2. Gli anni Novanta: l’avvio di una nuova fase; 3. Permanenze e innovatività: gli anni Duemila; 4. Conclusioni
86 Capitolo terzo. Razza e genere nella cultura visuale di massa contemporanea
1. La cultura visuale come campo di ricerca transdisciplinare. Note sulla metodologia d’analisi, 1.1. Nascita e sviluppo dei visual culture studies; 1.2. La contaminazione con i cultural studies: cultura, discorso, potere; 1.3. Razza, visualità, controvisualità; 2. Ve(n)dere la razza. Intersezioni di bianchezza, nerezza e genere nelle pubblicità dell’Italia contemporanea; 2.1. Nerezza da mangiare: colonialismo, razza, classe e consumo; 2.2. Razza, genere e sessualità nell’industria pubblicitaria; 2.3. “Piacere nero” e altre sfumature di razzismo; 2.4. Bianchezza a contrasto; 3. Sguardi, agency e subalternità. Asimmetrie di potere nella narrazione visuale della migrazione; 3.1. Premessa. Narrazioni visuali di (o sul) confine; 3.2. Fotografia e migrazioni: considerazioni metodologiche; 3.3. (S)confinamenti nella Roma postcoloniale; 3.4. Intersezioni di sguardi al confine della Fortezza Europa
159 Capitolo quarto. Controvisualità e pratiche artistiche oltre i confini dello spazio-tempo: l’afrofuturismo
1. Memoria storica, tecnologia, immaginazione; 2. L’afrofuturismo femminista in Italia
187 Bibliografia
203 Filmografia
Introduzione
Questo libro prende forma in un periodo storico particolarmente significativo da più punti di vista. Il 2020 è stato segnato da un’emergenza globale che ha cambiato forse permanentemente molti aspetti della vita sociale e individuale, in modi ancora difficili da comprendere del tutto. Ma è proprio nel pieno di una pandemia e in un contesto di isolamento di cui si fatica a ricordare un precedente che la vasta mobilitazione antirazzista transnazionale promossa dal movimento Black Lives Matter statunitense ha preso vita, ed è stata caratterizzata da contenuti e risonanze inedite nella storia del movimento. Questi due fenomeni – la pandemia e l’esplosione delle proteste antirazziste – sono strettamente connessi almeno a due livelli: in primo luogo, la crisi sanitaria determinata dalla diffusione del Covid-19 ha fatto sì che una ulteriore faccia del razzismo sistemico emergesse, dal momento che negli Stati Uniti la pandemia si è inserita in un contesto di disuguaglianze sociali ed economiche su base razziale e quella africana americana è risultata tra le comunità marginalizzate più colpite; in secondo luogo, la tecnologia e i social media, il cui uso è stato ulteriormente incrementato dalla condizione di isolamento, hanno reso le immagini dell’uccisione di George Floyd visibili a milioni di utenti e, al contempo, hanno consentito l’organizzazione di una rete di attivismo e solidarietà transnazionale. Le manifestazioni e le rivolte nate a seguito dell’omicidio di George Floyd da parte dell’agente di polizia Derek Chauvin hanno determinato alcuni importanti nuovi fenomeni, tra cui l’ingresso nel linguaggio mainstream di concetti e parole fino a quel momento confinati nel lessico accademico e in quello dell’attivismo antirazzista statunitense. Come osserva Camilla Hawthorne, concetti come defunding – cioè la richiesta di de-finanziare i corpi di polizia – o prison-industrial complex sono entrati nel dibattito pubblico statunitense ma anche nelle agende politiche di singole contesti urbani, come quello di Minneapolis, il cui consiglio comunale ha effettivamente decurtato circa otto milioni di dollari dal budget del Dipartimento di polizia e ha re-indirizzato i fondi verso altri servizi sociali. Al di là della diffusione e della effettiva applicazione di tali propositi, il risultato fondamentale è che il dibattito scaturito dalle mobilitazioni antirazziste del 2020 ha aperto lo spazio alla possibilità di immaginare un’organizzazione sociale e civile in cui il ruolo della polizia sia significativamente ridimensionato. Anche se ciò non si configura attualmente come una realtà concreta, ora il definanziamento della polizia e l’assunzione da parte di vari organismi della società civile di molte funzioni da essa finora svolte rientrano nelle potenziali strade da intraprendere per concepire un modo diverso di vivere collettivamente. Questo è uno slittamento importante nel modo di rapportarsi alle strutture sociali perché costituisce un’interruzione di un modello di pensiero per il quale la polizia è un’istituzione immutabile e l’organizzazione sociale e politica così come la conosciamo non è passibile di cambiamento. In secondo luogo, le manifestazioni dispiegatesi negli Stati Uniti hanno dato il via a mobilitazioni anche in Europa, dove i movimenti antirazzisti hanno articolato discorsi a partire dalla specificità dei razzismi europei. Se negli Stati Uniti le proteste si sono focalizzate sulla violenza della polizia, sul sistema carcerario e sul modo in cui questi sono espressione di un razzismo sistemico, in molti Paesi europei esse si sono rapportate con il passato coloniale e con la definizione dell’identità razziale europea come uniformemente bianca. In questo contesto l’Italia ha visto dispiegarsi sul proprio territorio una molteplicità di mobilitazioni – contro l’oppressione razzista, contro le politiche migratorie correnti e contro l’attuale legge per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di figli e figlie di persone straniere – che hanno riscontrato un significativo interesse da parte della società civile. Oltre a ciò, nei mesi successivi l’omicidio di Floyd si sono susseguite iniziative di discussione e dibattito durante le quali si è avviata una riflessione sul significato politico e sociale di tali mobilitazioni, così come sull’incontro del movimento Black Lives Matter con le reti antirazziste europee. Se, da un lato, le proteste nelle piazze italiane sono state caratterizzate dal protagonismo delle comunità nere in Italia, composte da italiani/e neri/e e da persone immigrate, dall’altro l’improvviso interesse di una parte di società bianca ha fatto emergere questioni e domande intimamente legate alla storia del razzismo (e dell’antirazzismo) italiano. A fronte di una così ampia risonanza delle manifestazioni statunitensi in Italia e di una così forte reazione all’ennesimo atto di violenza razzista, molte studiose e attiviste – tra cui Angelica Pesarini, Espérance Hakuzwimana Ripanti, Oiza Q. Obasuyi, Djarah Kan – hanno osservato come l’uccisione di Floyd abbia generato una rabbia e una solidarietà che però non vengono manifestate anche nei confronti delle persone razzializzate in Italia, dove pure di razzismo si muore. Perché dunque l’omicidio di un uomo africano americano negli Stati Uniti ha generato, a ragione, una così vasta mobilitazione mentre l’uccisione di Jerry Masslo, Soumaila Sacko, Idy Diene (solo per citarne alcuni) e le costanti morti di migranti nel Mediterraneo non destano un pari livello di indignazione? Le contraddizioni che emergono a partire da queste considerazioni informano direttamente non soltanto sulla tendenza italiana a identificare il razzismo come un fenomeno proprio di altri luoghi e/o di altri tempi, ma anche sui termini entro i quali si situano le posizioni antirazziste italiane. L’articolazione italiana del razzismo è strettamente connessa con il colonialismo – e, dunque, con le eredità delle politiche razziali applicate nelle colonie dell’Africa Orientale Italiana, con la strutturazione dell’identità nazionale come bianca in opposizione alla nerezza costruita delle popolazioni colonizzate e con l’interrelazione tra oppressione di genere e di razza – che ha rappresentato un evento cruciale nella definizione delle categorie razziali nel contesto italiano e, in generale, europeo. La successiva memorializzazione selettiva della dominazione coloniale, la rappresentazione benevola e bonaria dei colonizzatori italiani e l’eclissi dal dibattito pubblico del discorso sul razzismo nelle colonie hanno contribuito alla stabilizzazione di un’immagine degli italiani come intrinsecamente non razzisti. Come afferma David Theo Goldberg, l’esternalità che ha caratterizzato il colonialismo – cioè il fatto che si sia articolato fuori dai territori nazionali delle madrepatrie – ha facilitato la rimozione dalla memoria collettiva del ruolo di razza e razzismo nella storia e nel processo di costruzione dell’identità italiana. Tale impianto soggiace a quella evasività che la società italiana mostra quando si tratta di fare i conti con il contesto italiano: il razzismo sembra essere un fenomeno proprio di altri luoghi – tra cui, soprattutto, gli Stati Uniti – ed esso appare riconoscibile e condannabile solo quando si manifesta altrove. Ma quando la violenza razzista (nelle sue molteplici forme) emerge in Italia essa non viene identificata come espressione di un fenomeno strutturale ma piuttosto come conseguenza di eventi isolati o di situazioni emergenziali che, dunque, non hanno bisogno di essere discussi. Prestare la stessa attenzione e indirizzare la stessa indignazione verso il razzismo italiano significherebbe non soltanto doverne riconoscere la natura sistemica e demolire l’immagine che gli italiani hanno di sé come non razzisti, ma anche ragionare su cosa significhi supremazia bianca in Italia, su come si articoli il privilegio bianco, sui limiti di quello che Obasuyi definisce “antirazzismo performativo”, e sulla resistenza di una parte di antirazzisti bianchi a riconoscere il proprio posizionamento e mettere in discussione i propri privilegi. […]