Qui è tutto abitato

 18.00

Chiara Cacciotti

pp. 194
Anno 2024 (novembre)
ISBN 9788869483011

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Descrizione

Chara Cacciotti
Qui è tutto abitato. L’occupazione romana di Santa Croce/Spin Time Labs
come esperienza abitativa liminale
Prefazione di Michele Lancione

Partendo da un’indagine etnografica svolta nell’occupazione abitativa romana di Santa Croce/Spin Time Labs, il libro esprime un posizionamento critico nei confronti del termine “emergenza abitativa”. Infatti nella Capitale questa rappresenterebbe una condizione tutt’altro che emergenziale, ma cronicizzata ed endemica. L’autrice indaga gli effetti di questa condizione sulla vita della comunità occupante posta al centro del caso di studio, che sembra esperire una condizione di liminalità abitativa caratterizzata dal costante tentativo di organizzare, vivere e apprendere una modalità affatto ovvia di abitare collettivo.
L’intero libro è quindi un tentativo di restituire la complessità soggiacente a un preciso modo di abitare gli interstizi urbani che è tutt’altro che provvisorio o temporaneo. Da una parte, vi è la restituzione e interpretazione della vita quotidiana nel palazzo, dell’“economia morale” al suo interno e della sua grammatica spaziale. Dall’altra, vi sono i tentativi degli occupanti e degli attivisti del movimento di lotta per la casa locale di trovare un nuovo meccanismo politico per fuoriuscire dalla condizione che li caratterizza. Ciò che viene individuato è in un processo di apertura dell’edificio al territorio circostante. Un processo che, nei suoi dieci anni di vita, l’ha trasformato in un bene pubblico non statuale capace di accogliere pubblici differenti.

Chiara Cacciotti è antropologa e assegnista di ricerca presso il Politecnico di Torino, all’interno dell’ERC Starting Grant “Inhabiting Radical Housing”. Fa parte del core team del Beyond Inhabitation Lab. Recentemente ha cotradotto il volume Il potere dei re (Raffaello Cortina, 2019), scritto da David Graeber e Marshall Sahlins.

RASSEGNA STAMPA

UN ASSAGGIO

Indice

7 Prefazione
di Michele Lancione
11 Ringraziamenti
13 Introduzione
1. Ma perché non ti trasferisci qui?; 2. C’è crisi (episodica) e crisi (endemica); 3. Let’s start from the end. Organizzazione del testo
25 Capitolo primo
Organizzare la liminalità. Spin Time Labs
1. Senza luce non si vive!; 2. In direzione ostinata e contraria; 3. Dalla crisi delle occupazioni nasce un nuovo meccanismo; 4. Liminale non è marginale; 5. Nessuno si salva da solo. Genesi del rapporto con la Chiesa Cattolica; 6. Vite da scarto vanno in città; 7. Ognuno a casa sua fa quello che vuole. I conflitti con l’abitativo
90 Capitolo secondo
Vivere la liminalità. Santa Croce
1. No privato? No privacy!; 2. Questa è casa mia; 3. Questa non è casa mia; 4. In questa casa mancava il salone; 5. Togliere le parole dal corridoio; 6. Secondo te siete una comunità?
147 Capitolo terzo
Imparare la liminalità. Action
1. L’esperienza di qua; 2. Il percorso; 3. Lottando si impara; 4. C’è vita (politica) oltre l’occupazione?
175 Conclusioni. Sarà una bella lotta?
183 Bibliografia


 

Prefazione
La politica dell’abitare
di Michele Lancione

Questioni di accessibilità economica, proprietà e possesso; titoli di proprietà fondiaria ed edilizia; mutui; densità; manutenzione, riparazione, sicurezza energetica e servizi igienici; la turistificazione del tutto; infrastrutture; percolazione virologica ed ecologica; demolizioni, ricostruzioni; sfratti, sgomberi e forme di violenza di genere e domestica, comprese vite senza dimora; brutalismo coloniale esercitato prima attraverso la costruzione di case da parte di coloni e poi attraverso il domicidio; il timore di farsi intravedere in casa, con le unghie colorate e con il rossetto; soluzioni abitative arrangiate in funzione di opportunità di lavoro che vaste regioni metropolitane “offrono” a lavoratori locali e migranti; baracche spostate a seconda delle piene, ormai imprevedibili, del fiume del lago del cielo del mare; ghetti rurali arrangiati per il prossimo carico di schiavi razzializzati a servizio del pomodoro; periferie bilocali senza un albero e senza una parola. Queste e molte altre intersezioni formano la “politica dell’abitare”: un terreno trasversale di preoccupazioni vissute e sentite dalle maggioranze urbane e rurali di tutto il mondo.
La politica abitativa fatta dal governo urbano o statale è altra cosa. Intende affrontare, nei migliori dei casi, alcune delle questioni sopra elencate ma spacchettandole, leggendole una alla volta, come problemi singoli da trattare attraverso soluzioni tecniche e in alcuni casi – come quello delle persone senza dimora – medicalizzate. Il risultato è un insieme di approcci che riproducono un’idea di “casa” scollegata da un’idea di abitare, da un’idea di come ci si sta a casa, e di cosa quello stare a casa comporta per il se e per il mondo. Tale compartimentalizzazione della casa è funzionale, e figlia, del ruolo che la casa stessa è chiamata a ricoprire nel capitalismo contemporaneo razzializzato e finanziarizzato. In quanto bene, la cui funzione di scambio assume un valore scollegato a quello d’uso, la casa può funzionare solo nella sua più assoluta neutralità rispetto ai processi di abitare in cui è coinvolta. È sradicata, discorsivamente ma anche operativamente attraverso strumenti legali e finanziari, dal suo radicamento nel mondo, in modo che essa possa diventare mezzo attraverso il quale fissare e quindi ricreare valore capitale (Rolnik 2019; Blomley 2004). La politica abitativa fatta dal governo urbano o statale, nella sua tecnica ignoranza, è funzionale a questa strumentalizzazione della “casa”.
Ma se la casa è lo strumento primo di quel tipo di “ripiegamento” con cui l’essere umano si costruisce un rifugio dal mondo, questa sua operazione non è una chiusura, ma una relazione: una forma di (ri)produzione. In altre parole, il confine che separa la casa da e nel mondo è costitutivo della casa e del mondo. Il problema della casa è creare l’illusione della separazione, da cui derivano tutta una serie di premesse fondamentali alla cui porta bussa il rapporto di produzione capitalistico nella sua capacità di generare desideri scollegati – perché mediati dal denaro – da esigenze diverse dalla loro riproduzione e che possono quindi tranquillamente portare alla totale dissoluzione delle parti coinvolte (Guattari, Negri 2010). Perché il capitale funziona proprio attraverso rotture – come quella casa/natura, famiglia/genere, dimora/non-dimora, cittadinanza/straniero – ed è capace di provocarne altre, a seconda di quali tecnicità vengono messe a disposizione (dal mutuo al catalogo di IKEA; dal catalogo di IKEA al derivato). Questo intreccio – tra il rifugio e il capitale – distacca, per sempre, la casa dall’abitato e i due non si parlano più fino a quando l’uno irrompe violentemente nell’altro, ecologicamente, socialmente, culturalmente e, soprattutto, esperienzialmente.
Eppure, nonostante ci si sia impegnati con grande determinazione a ridurre la casa a un simulacro dell’abitare, qui è tutto abitato. Sempre, comunque. Da cui l’inevitabilità del fatto che ogni lotta per la casa è sempre lotta per abitare – anche se, come ricorda giustamente Margherita Grazioli, c’è ancora molto da fare per accettare questo fatto dal punto di vista dell’azione politica diretta (Grazioli 2024). Il lavoro da fare è riappropriarsi della capacità di prendersi cura di quelle relazioni estese che la casa abita e modula, nei diversi piani intrecciati delle sue economie riproduttive, di genere, ma anche ecologiche e infrastrutturali (Cavallero, Gago 2021). Di tracciarne l’estensione temporale e spaziale, rifiutando la loro semplificazione a tecnica e la loro funzionale divisione. Sarà solo tornando a pensare e a fare la casa come spazio nel quale la lotta di classe è lotta di genere, la lotta ambientale è lotta di riproduzione, la lotta per vivere al mondo è lotta antimilitarista, e tante altre cose, che quella stessa casa potrà essere ripensata nel suo modulare e quindi nel suo agire sull’intersezione tra questi processi, i nostri corpi e il nostro collettivo essere viventi e in divenire (Lancione 2023).
E questo libro questo fa: testimonia la cura necessaria per rendere quel tipo di casa possibile. Lo fa con delicatezza e con modestia, due delle più importanti qualità della lotta politica (hooks 1990). In queste pagine vediamo una casa che è stata ripresa in mano nella sua capacità di intessere e mantenere complesse relazioni abitative nel e con il mondo. Spin Time rifiuta la cesura richiesta alla casa e al suo abitante povero, migrante, differentemente altro nel capitalismo urbano romano. Se tutto è abitato sempre e comunque, ma violentemente costretto a non esserlo per diventare funzione di altro, qui abbiamo un esempio di rifiuto rispetto a questo essere messi a servizio. Ma non c’è solo negazione. Le storie raccontate in questo libro offrono una concreta affermazione, una ricucitura con la funzione primaria dello stare a casa, nel mondo, in quanto essere viventi. Non è semplicemente il fatto che si occupi. È che si costituiscano e mantengano modalità di cura collettiva dove non ci dovrebbero stare, sia perché le classi popolari e i migranti nel centro di Roma non ci devono stare, sia perché a due passi da Piazza Vittorio che ci fa uno squat. Ci sono molti livelli di ricucitura col mondo, nel caso che Chiara, con lucidità, radicamento e sensibilità etnografica, ci fa conoscere in questo libro. Sono livelli che a volte cozzano, si scontrano, non si capiscono e si innervosiscono. Ma insistono e stanno al loro posto perché la casa questo deve fare, stare al suo posto, e il suo posto è nel mediare il rapporto corpo-mondo e nel farlo in modo che entrambi ne traggano beneficio. Un beneficio collettivo, per le relazioni estese che chi ci vive intrattiene con spazi e tempi vicini e lontani. Spin Time a Roma questo lo sa fare e questo libro lo dimostra molto bene.
E allora la domanda permane: perché non legalizzare tutto, perché non renderlo permanente, perché non investire sull’infrastruttura esistente, invece di sradicare, sgomberare, piallare per farci cosa? Un altro hotel? I libri a volte hanno la capacità di agire sul presente. Io credo che una attenta lettura di queste pagine non possa far altro che portarci collettivamente a difendere Spin Time, a prenderci radicale cura della e per la sua vita. A prenderlo come spazio da cui apprendere come ricucire e quindi come immaginare l’orizzonte concreto, quello esteso nelle sue relazioni e quindi vissuto attraverso le stesse, delle nostre “politiche dell’abitare”.

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