Rassegna stampa
il manifesto – 27.1.2022
Se il dolore di vivere è arma contro il potere
di Massimo Filippi
Psicoanalisi e rivoluzione di Ian Parker e David Pavón-Cuéllar (ombre corte, pp. 177, euro 15, traduzione di Enrico Valtellina) è un sorprendente «manifesto rivolto ai movimenti di liberazione» che, come afferma Pietro Bianchi nell’elegante postfazione, «è da accogliere come una salutare ventata di aria fresca».
Doppiamente sorprendente e fresco questo manifesto perché si sviluppa attorno a due mosse tutt’altro che scontate. La prima: l’accostamento della psicoanalisi alla rivoluzione. Accostamento azzardato dato che tanto pensiero radicale ha giustamente accusato la psicoanalisi di essere espressione del potere eteropatriarcale e la continuazione biopolitica della psichiatria. La seconda: la decisione di fare del pensiero di Lacan uno degli assi portanti del loro testo. Quel Lacan che, nel 1969, rispose con sprezzante paternalismo a chi lo contestava: «Ciò a cui aspirate come rivoluzionari è un padrone. L’avrete».
SCRITTO nel pieno della pandemia («un momento di profonda crisi politico-economica in cui il mondo simbolico e i mondi futuri che possiamo immaginare sono colpiti e minacciati da forze materiali reali completamente fuori dal nostro controllo»), il manifesto di Parker e Pavón-Cuéllar si dipana seguendo un movimento circolare: decolonizzare la psicoanalisi per risoggettivizzare collettività rivoluzionarie, denaturalizzarne le fondamenta per ripoliticizzare il disagio, depsicologizzarne teoria e prassi per ristoricizzarle. E viceversa: «possiamo trasformare il mondo, trasformandoci, ma anche trasformarci trasformandolo».
La sofferenza psichica non è questione individuale quanto piuttosto il sintomo – come la febbre climatica e l’asfissia pandemica – di quelle malattie note con i nomi di capitalismo, sessismo e razzismo. Per questo, senza disconoscere il carico di violenza che la psicoanalisi si porta appresso, i due autori cercano di far parlare la sua vena trasformativa che, in maniera carsica e tuttavia dirompente, non ha mai smesso di percorrerla, quella vena che non si propone di guarire l’individuo per adattarlo alla società intesa come immodificabile «ambiente naturale», ma per individuare «il nostro desiderio di oppressione» e fare di «questa conoscenza il primo passo verso la liberazione». «Ciascuno deve liberare non solo se stesso ma liberarsi da se stesso».
L’inconscio si trasforma così da profondità oscura in «insieme di relazioni sociali» di marxiana memoria, in un intreccio di «incontri e disaccordi, spiegazioni e contraddizioni, alleanze e conflitti». La ripetizione da «ripetizione del medesimo» in «ripetizione che crea la differenza», in spazio di «resistenza, insistenza e perseveranza». La pulsione da istinto cieco e acefalo in desiderio di ribellione capace di dire «la verità in faccia al potere». E il transfert da sottomissione a un soggetto supposto sapere in capacità di riconoscere «da soli e per se stessi» i blocchi attorno a cui si coagulano i meccanismi della servitù volontaria.
DOPO AVER DICHIARATO la loro adesione al movimento ecosocialista, in alcuni punti, purtroppo non sufficientemente sviluppati, i due psicoanalisti colgono anche gli evidenti legami che corrono tra dominio intraumano e specismo («L’illusione che noi siamo al centro, con l’Io come padrone di casa, è una storia ideologica potente secondo cui gli umani sono il centro del mondo, contrapposti agli altri esseri senzienti del regno animale»). Da cui la necessità di deanimalizzare la società umana insieme all’animale per riattivare la «parte animale che palpita» in noi. «È come se l’antica degradazione dell’animale sia servita a preparare tutti noi all’attuale degradazione dell’essere umano».
CON TUTTI I LORO som/movimenti e lasciandosi alle spalle Edipo, Parker e Pavón-Cuéllar ci mostrano il rovescio della psicoanalisi: la disadattano per portarla dal lettino alle piazze, per far sì che il dolore di vivere in «questo mondo miserabile» diventi «un’arma contro il potere». La loro psicoanalisi rivoluzionaria è pertanto parte del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. In effetti, oggi più che mai, «lottiamo per il controllo non solo dei mezzi biologici e tecnologico-economici di produzione e riproduzione della vita, ma anche dei mezzi simbolici di espressione e relazione, di esistenza ed esperienza, di coscienza e desiderio, di conoscenza e potere».
Connessioni – dicembre 2021
Recensione di “Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione” di Ian Parker e David Pavón-Cuéllar
di Giada Cola
Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione nasce durante la pandemia dal lavoro a quattro mani di Ian Parker e David Pavón-Cuéllar. Tradotto da Enrico Valtellina per Ombre Corte, il manifesto intreccia idee difficili da trasporre sul piano narrativo. Richiede un’opera di traduzione pratica su due livelli, uno clinico e l’altro politico, vicendevolmente implicati tra loro.
La lettura di queste pagine è un processo frenetico, perché febbrile e urgente è la questione che ci sottopongono. Come possiamo riconsiderare quelli che vengono diagnosticati e trattati come problemi psicologici individuali, riconoscendone la dimensione politica, storica e sociale? La sofferenza che abita gli esseri umani è un mero indicatore di disfunzioni psicopatologiche che necessitano un riadattamento individuale, oppure lo sfruttamento lavorativo, la precarietà, l’imperativo performante che abita il nostro tempo c’entrano qualcosa e richiedono un ingaggio collettivo, che porti al cambiamento?
Sembra che le odierne tendenze psy abbiano uno sguardo riparativo e riabilitante. Biografie straordinariamente articolate tra luoghi, generazioni e legami, una volta immesse nel circuito della cura finiscono per essere prosciugate in racconti granitici, fermi ad un tempo presente, che non ammette trasformazioni. Il sintomo è in questo senso un rigurgito indesiderato dell’inconscio, visto come hostis – nemico, da espugnare con l’esercizio della consapevolezza e da domare attraverso la normalizzazione. L’ambiente che causa, circonda e alimenta la sofferenza è considerato esterno all’individuo e contrapposto ad esso: da ciò deriva un atteggiamento (anche clinico) di parcellizzazione e frammentazione, nonché una pericolosa adesione intellettuale ed etica a un presunto ordine naturale. Un ordine contraddistinto da sfruttamento, oppressione e da un dilagante senso di alienazione nei confronti degli altri e dell’ambiente. Un ordine che celebra l’autonomia e bandisce la possibilità di scoprirsi reciprocamente dipendenti nelle relazioni, influenzabili da ciò che incontri, scontri e conflitti riescono a generare in termini di possibilità e cambiamento.
La considerazione di mente e di Io come proprietà individuali contribuisce a reificarli e la scienza che si presta a questo discorso si trasforma da strumento di comprensione a dispositivo di previsione e controllo. Opera al fine di ricondurre l’eterogeneità e la complessità ad un modello dominante di umanità, quello che si è affermato attraverso il colonialismo, il capitalismo, il patriarcato. Persiste l’idea darwiniana di omogeneità come fattore cruciale per la sopravvivenza, al punto tale che ogni differenza viene negata o patologizzata e solo di rado riconosciuta come elemento indispensabile per generare effetti e favorire mutamenti. Questa razionalità sostiene anche un certo tipo di ricerca e di approccio alla conoscenza, accumulata ed espulsa in un circuito bulimico di uso e consumo e solo raramente attenta agli aspetti individuali, qualitativi e singolari.
Il manifesto di Parker e Cuéllar non si limita ad auspicare una rivoluzione del pensiero. La realizza, scegliendo parole che agiscono una trasformazione e presentando la psicoanalisi come possibile alleata. Lungi dall’essere la celebrazione in termini assoluti di una disciplina, la proposta degli autori muove da una contestualizzazione della psicoanalisi come prodotto storico e sociale ben definito, dotato di potenzialità e limiti. Alla sua versione conservatrice, affezionata alla lotta piccolo borghese dell’Io contro pulsioni, istinto e natura, viene contrapposta una psicoanalisi rivoluzionaria. Una psicoanalisi capace di sostenere i movimenti di liberazione e l’attivismo, perché in grado di riconoscere l’umana tendenza a replicare nelle storie autobiografiche e familiari le strutture ideologiche ed economiche dominanti.
L’invito è quello di dar voce alla frattura intimamente percepita quando avvertiamo a un tempo sopraffazione e desiderio di liberazione, ma anche godimento nel reiterare le stesse dinamiche di potere che ci affannano. La liberazione sembra allora passare dalle corde vocali, dal corpo, da respiri e odori condivisi nella stanza di analisi. Spazio a sua volta mai completamente avulso da dinamiche di potere e sopraffazione. Si pensi ad esempio all’applicazione del modello psicoanalitico come principio esplicativo di tutto ciò che emerge dentro e fuori dal contesto clinico, o all’afonia a cui è ridotto l’analizzato, quando lo psicoanalista s’intestardisce parlando al posto suo. Anche la relazione d’aiuto è intrisa di dinamiche di potere e di potenziale sopraffazione: saperle riconoscere e problematizzare è indispensabile per non abusarne. “Liberare la psicoanalisi”, scrivono gli autori, è un processo cruciale affinché essa possa fungere da risorsa e sostenere la liberazione.
Ciò sembra essere particolarmente importante nel lavoro clinico con le famiglie, strutture sociali intrise di un’ideologia normativa e inserite in matrici strutturali che replicano l’organizzazione sociale. Organizzazione nella quale la felicità è raggiungibile a patto che vi sia un’adesione capillare al modello dominante: tutti i legami che si discostano da esso, corrono il rischio di essere percepiti come carenti ed esser ricondotti a percorsi di sviluppo “normali”. Ferreira scrive che l’elemento centrale di un mito familiare è la condivisione di modelli di distorsione della realtà. Il termine distorsione non è da intendersi in senso psicopatologico. Esso denota piuttosto l’abilità di costruire e mantenere credenze complementari circa i ruoli familiari, trovando senso e giustificazione ai propri modelli relazionali. Forse la distinzione dei ruoli e conseguentemente delle aspettative che ciascuno sviluppa nei confronti degli altri è un processo intrinsecamente sociale e politico, a cui nemmeno l’analista è estraneo. Ciò rende necessario non sentirsi esonerati, in quanto professionisti della cura e della salute, dal problematizzare i propri sistemi di credenze, riuscendo a coglierne l’influenza e il potere che sono in grado di esercitare nell’incontro con l’altro.
Uno spunto interessante a questo proposito potrebbe arrivare dalla sistemica e dalle riflessioni di Gianfranco Cecchin sul tema del linguaggio: il significato delle parole è solo apparentemente generato da chi le pronuncia e molto più verosimilmente attribuito da parte di chi le ascolta. Se una forma di influenzamento è inevitabile, anche nella relazione terapeutica, possiamo pensare che una terapia finisca “bene” quando il cliente diventa e si percepisce attivo nella ridefinizione della propria storia e della propria posizione.
I movimenti femministi, l’attivismo disabile, i tentativi di affermazione delle persone con fragilità psichica, le lotte delle minoranze etniche, sessuali, identitarie possono trovare un valido alleato nella psicoanalisi rivoluzionaria che Parker e Pavón-Cuéllar raccontano in queste pagine. Al contempo, possono a loro volta essere validi alleati per quei professionisti e quelle professioniste della cura che avvertono con dolore il sottile confine tra cura e controllo e provano costantemente a non scadere nella psicologizzazione dei soggetti, guardandosi bene dall’adattarli all’ideale normativo, che non rende alcuna giustizia alla meravigliosa diversità che ci contraddistingue.
IBRIDAMENTI / DUE – 9 novembre 2021
Dark Analisis
di Luca Negrogno e Irene Sottile
Collocare su un piano politico l’insieme di questioni aperte dal tema della “salute mentale”, che per ora accettiamo provvisoriamente come sintetico concetto-ombrello, è uno dei compiti più urgenti dell’attualità. Il manifesto Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione di Ian Parker e David Pavón-Cuéllar (ombre corte, 2021) costituisce un importante strumento per articolare questo compito, rivolgendosi direttamente a chi pratica la psicoanalisi e a chi si impegna per superare le varie forme di oppressione politica, economica e sociale che caratterizzano la vita sotto il giogo del capitalismo. La discussione che crediamo il libro possa alimentare, dato che è la questione che tiene insieme i vari elementi trattati nel testo stesso, riguarda la possibilità di decolonializzare, depatriarcalizzare e in generale sottrarre alla riproduzione delle strutture di oppressione le pratiche di cura.
Questa domanda, nella sua formulazione così ampia, tiene insieme i due interlocutori principali del discorso degli autori: chi pratica la psicoanalisi e i movimenti. In entrambi i casi si tratta di target la cui posizione è specificamente contradditoria: da una parte, chi pratica la psicoanalisi è interno a paradigmi terapeutici variamente compromessi con il controllo, l’esclusione, la medicalizzazione e l’adattamento; dall’altra, i movimenti di liberazione sono impegnati a collocare le proprie pratiche nella tensione tra istituzioni esistenti e la necessità di una possibile collettività che si realizza come emancipatoria, fuori – e per questo naturalmente oltre – l’istituzione attuale. È poi importante notare che sia il discorso di questo testo che quello di noi che lo commentiamo vanno intesi principalmente a partire dalle condizioni di possibilità in cui si situano e per gli effetti che producono. Per questo, non cercheremo di fa emergere un’ermeneutica specifica, elencando le varie autorialità che popolano la continuità del discorso, ma proveremo piuttosto a essere attraversati da questo, per saggiare i possibili esiti che esso può produrre se usato come arma. (Si raccomanda di consultare le “Letture di base” in coda al testo e la post-fazione di Pietro Bianchi, per collocare l’opera all’interno di un più ampio dibattito).
Da una parte, il manifesto compie uno sforzo pratico per ricollocare sul terreno del reale la psicoanalisi reinterpretando in modo socialmente situato la sua origine e i quattro concetti chiave di inconscio, ripetizione, pulsione e transfert. Contemporaneamente sfonda lo spazio della clinica per far risuonare le stesse questioni nell’azione politica, richiamando le strutture di militanza a considerare vari aspetti di una possibile tendenza a reiterare la sconfitta, riproducendo al proprio interno e nella propria pratica le strutture di oppressione che si dichiara di voler combattere.
Per fare un esempio della complessità dei temi trattati dal libro, partiamo dal concetto di salute mentale. Esso è l’orizzonte in cui, ambiguamente, si pongono oggi alcuni promettenti sforzi dei movimenti e, altrettanto ambiguamente, si collocano le pratiche psicoanalitiche, confuse con l’universo delle discipline psicologiche, psichiatriche e psicoterapeutiche. L’ordine del discorso della salute mentale appare subito criticabile secondo due tagli: da una parte la salute mentale è oggi un preciso prodotto istituzionale, che opera indicando chi è adattə o adattabile ai processi dello sfruttamento capitalista, nella misura in cui quest’ultimo assume un metodo “inclusivo” nella produzione e nel consumo. Dall’altra, l’idea del “mentale” riproduce il modello dell’individuo isolato su cui si fonda l’ideologia dominante, quella cioè che spoliticizza ogni questione riducendola al compito infinito della performance privata. Inoltre, collocare nella “mente” la funzione dell’individualità oscura il posizionamento reciproco dei soggetti e la dimensione relazionale della soggettività: l’essere in un sistema di affezioni e affetti relativi al posizionamento rispetto ai confini e alle soglie di oppressione che abitano il mondo. Questo oscuramento fa parte, per gli autori, della distorsione conservatrice della psicoanalisi. Allo stesso modo ad essere reiterata in questa distorsione conservatrice è l’idea di un “profondo”, che sia “dentro” l’individuo, cui si deve applicare il concetto di inconscio: ciò che invece gli autori riconoscono in questo concetto sono la storia, la geografia, le tribù, il deserto, i popoli, le razze, il clima: la memoria oscurata degli sforzi cooperativi di emancipazione, i tentativi e le sconfitte, il reiterarsi, in esse, dei sistemi di oppressione e alienazione.
Il manifesto di Parker e Pavón-Cuéllar mette così in dialogo le varie forme di attivismo e una psicoanalisi spogliata dalla sua declinazione conservatrice, riproposta come pratica emancipatoria, opportunità di liberazione per la sua radicalità critica. Nell’ultimo capitolo si legge:
«viviamo in un mondo in cui la psicoanalisi è necessaria ma impossibile. Di solito viene realizzata in modo da impoverirla e sfigurarla fino a rovesciarla. Alla fine è molto meno e perfino il contrario di quello che avrebbe potuto essere. Invece di essere una teoria e una pratica rivoluzionaria, si riduce a essere una tecnica di adattamento. Inoltre, è confinata all’individuo e degenera in una pratica privata segnata dal suo conservatorismo, un punto di collegamento per idee reazionarie su sesso e genere e molto altro».
Questo oggetto polemico, la deriva dello psicanalismo, tendenza che si è esacerbata in ogni psicologia del profondo e in ogni psichiatria istituzionale, viene qui attaccato ma anche riconosciuto nella sua determinazione storicamente situata e insieme come tendenza sempre possibile: ogni movimento, ogni struttura militante, ogni gruppo impegnato in lotte di emancipazione è sempre sulla soglia di questa possibilità, di questa coazione a ripetere.
Nella militanza, per esempio, questa prende le forme dell’impedimento all’insorgere dell’imprevisto, della riproduzione di sé stessi per il godimento della propria identità, della rinuncia a modificare il sistema, poiché anche nel ruolo di militanti si può ripetere l’istituzione, rinviando a una specificità identitaria che si radica sul piacere del riconoscimento. Si soffre, ma si riproducono anche gli stessi errori perché, in qualche modo, non ci si saprebbe rapportare con la radicale alterità delle cose davvero cambiate. A non riuscire è la disindividualizzazione, ci si innamora del potere. Mentre, in questo testo, gli autori sembrano dirci che il modo in cui si svolge la lotta non solo “allude a” ma implica già in sé, micropoliticamente, gli esiti della lotta stessa.
E il rischio è lo stesso per chi la psicoanalisi la pratica: riproducendo la sua forma conservatrice, avallando la pratica di potere dello scavo, dell’interpretazione, del rivolgersi verso un “interno” depoliticizzato e individualizzato, le cui chiavi sono a disposizione del proprio sapere o tecnica, a identificare i professionisti “psy” e riprodurre il discorso psicologizzante come dispositivo dello status quo capitalista, sessista e patriarcale. Mentre invece, la mossa di Freud, che qui potrebbe apparire come un dark Freud, era stata, per quanto limitata dalle condizioni di imbricamento ideologico nelle quali è sorta, un tentativo di liberazione invece che la creazione di una tecnica. Così potremmo immaginare anche un dark Lacan, che da queste pagine ci parli di una possibilità della pratica non risolta e non colta, di una emancipazione possibile anche e soprattutto da sé stessi.
La psicoanalisi dark che da queste pagine emerge è sempre storicamente situata: in comunità ebree marginalizzate, in fuga dal nazismo o nei movimenti sudamericani di liberazione, riproduttrice o critica della ideologia patriarcale, borghese e razzista in cui è immersa. Nelle contraddizioni ogni volta riemergenti ritroviamo rischi e tentazioni che possiamo leggere anche nelle nostre biografie: la volontà di inscrivere le intuizioni liberatorie in un ordine totalizzante e gerarchizzante, la tendenza a creare con la propria pratica un nuovo ordine di discorso che sgomberi l’es dai territori illegittimamente occupati e vi inscriva il possesso di sé dell’io, il perdere di vista gli intrecci tra potere, sapere e godimento che banalizza l’analisi, oscurando le dimensioni produttive che sempre si accompagnano a quelle repressive. Si intravede così la possibilità di superare lo psicanalismo come dispositivo individualizzante e spoliticizzante, di suscitare la differenza dalla ripetizione, di essere contro il simbolico come luogo della mistificazione.
Bello che Enrico Valtellina abbia tradotto questo testo in italiano: un contributo alle possibili pratiche di liberazione dal capitalismo, dal colonialismo e dal sessismo, necessario nel nostro ambiente culturale, in cui le questioni confusamente connesse con il desiderio sono ancora molto lontane dall’essere oggetto di pratiche politiche emancipatorie. Si pensi solo a quanto la riflessione contro la famiglia monogamica non sia ancora sufficientemente sviluppata nei movimenti, a quanto il dibattito proponga spesso in termini ideologici la questione delle “identità come recinto” invece di coglierne la sfida insurrezionale posta alla norma, a quanto ancor sia scarsissimo l’interesse per i disability studies e per il movimento delle neurodivergenze cui tocca ancora scontrarsi, tra compagnə, con visioni intrise di paternalismo gramsciano che vorrebbero insegnare a tuttə come si fa davvero politica, ma che finiscono solo per invalidare i processi emancipatori che ciascunə mette in atto rivendicando la propria identità (a quest’ultimo tema corrisponde la possibilità di dialogo tra movimenti della neurodiversità e psicoanalisi, opportunamente evocata da Alessandro Siciliano nella sua recensione su DinamoPress).
Sul piano clinico, speriamo che questo libro funzionerà come un promemoria: contro le distorsioni, prima di tutto politiche, del “transfert”; per ricordare che il rapporto tra immaginario e reale va guardato attraverso la lente del concetto di ideologia; per evitare di trasformare la psicoanalisi in una visione totalizzante e fascista del mondo, sistemandosi nel mercato delle professioni psy rivolte all’integrazione. Speriamo che ne esca definitivamente affossata l’immagine dello psicanalista che in ogni contesto parla “al posto di”, sospinto dalla pulsione di sapere e soprattutto di vedere riconosciuto quel sapere con un corrispondente ruolo sociale di rilievo.
Un’ultima questione, su cui riteniamo utile che da subito si inizi a riflettere nei movimenti e nei gruppi che in questo periodo si stanno apprestando ad affrontare la questione del disagio psicologico ed esistenziale, elaborando strategie in cui a vari livelli si mescolano pratiche di supporto specialistico, con una platea ampliata o a più bassa soglia rispetto all’esistente, forme di mutualismo, percorsi collaborativi, rivendicativi o vertenziali per modificare le istituzioni esistenti, sia che queste siano identificate come la causa di un disagio che potrebbe essere evitato, sia che esse siano demandate a farsene carico. Bisogna rivendicare la carica eversiva della condizione esistenziale a cui ci si accosta. Che la leggiamo come disagio, malessere, persino come malattia: non siamo chiamati a fare una esegesi tecnica del sintomo ma a dislocarci nella relazione, a fianco della possibilità di discorso che essa fa emergere. In questo senso gli autori di Psicoanalisi e rivoluzione riprendono il titolo di una pubblicazione del collettivo socialista dei pazienti psichiatrici tedeschi del 1973: «la malattia è da usare come un’arma». È un tema che ugualmente ritroviamo nel dialogo con chi invece rifiuta il modello medico di definizione di una condizione esistenziale – ci riferiamo ai movimenti per la neurodiversità. In questo caso siamo propensi a credere che la “neurodivergenza”, più che avere a che fare con una descrizione oggettiva – a rilevanza eziologica – di come una certa tipologia di cervelli siano strutturati, abbia a che fare con una pratica, situata ed eventualmente sistemica: il “neurodivergere” come concreto rifiuto dei sistemi di aspettative che rendono oppressive le relazioni, suffragando la norma con una qualche definizione ideologica di scienza e riproducendo l’ordine produttivista, colonialista ed eteropatriarcale.
Ian Parker e David Pavón-Cuéllar richiamano a questo proposito la lezione dell’insurrezione delle isteriche, le prime militanti dell’antipsichiatria. È sul gesto delle isteriche, di produzione di un corteo di sintomi disambientato rispetto ad ogni nosografia, all’incrocio tra paranoie di verità assicurativa (paranoie relative alla simulazione e all’assenteismo dei lavoratori) e nuove pulsioni di sapere possibilmente emancipatorie in quanto svincolate dalla psichiatria manicomiale ottocentesca, che possiamo tornare a riflettere per dialogare con gli attuali atti di fuga rispetto a classificazioni e ruoli normalizzanti. Questo pone direttamente in questione i nostri spazi e le nostre modalità di organizzazione.
La psicoanalisi è per adesso restata al di qua del principio di analogia. Nella prestazione freudiana, l’ambigua collocazione della pulsione buca e approfondisce la superfice su cui è territorializzato il confine tra natura e cultura, biologico e storico. Il piano, invece di essere risucchiato dal buco e riemergerne striato, increspato e irriconoscibile, si riterritorializza creando sia la regione psy, la quale si presenta oggi come un ambito abilista di performance dei corpi, sia la coscienza sua abitante, un tribunale che obbliga sempre a una confessione, e davanti ai giudici si giura sempre di dire la verità, tutta la verità, anche dei sintomi. In questo manifesto rivoluzionario, invece, l’analisi anti-istituzionale della clinica, e del potere dello psicanalista che ne struttura lo spazio definendo i confini di quella peculiare presa di parola, ci spinge a provare qualche passo avanti con una nuova analogia: “clinica” può essere anche quello spazio safe che sempre cerchiamo di costruire nei nostri contesti e che vorremmo veder diventare le nostre città? In questo senso, quello della clinica, non diventa immediatamente un compito politico? In che senso questo apre ad una pratica trasformativa nei gruppi di militanti, nelle organizzazioni comunitarie, nel municipalismo diffuso? In che modo, attraverso quale disindividualizzazione, dei saperi tecnici possono entrare nella costruzione di queste realtà?
DinamoPress – 24 Ottobre 2021
Dialoghi contro la consunzione generalizzata
di Alessandro Siciliano
La rivoluzione, come pratica dell’inconscio viene qui intesa come controcanto del padrone e sovversione delle forze della rimozione, ma anche come sfida per pensare nuove forme di ecologia politica
Gli autori del manifesto Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione si pongono lo scopo, notevole poiché complesso, di far parlare la psicoanalisi, e di farla parlare a favore dei movimenti di liberazione e contro ogni forma di oppressione e colonizzazione. Scopo complesso perché, come ben nota Pietro Bianchi nella sua postfazione al testo, la psicoanalisi, in quanto discorso, cioè in quanto pratica, è caratterizzata da un certo uso del silenzio. La psicoanalisi non parla, non ha nulla da dire su come va o come dovrebbe andare il mondo, non è una Weltanschauung, come faceva notare già Freud. Nel discorso psicoanalitico, per come è stato formalizzato da Lacan, chi parla è il soggetto dell’inconscio dell’analizzante, non lo psicoanalista, che invece è nella posizione non di soggetto parlante ma di oggetto che causa il dire, sembiante dell’oggetto che muove il desiderio dell’analizzante.
La psicoanalisi non è un sapere. È una postura, una pratica che consiste nel mettersi in ascolto di un sapere, un tipo particolare di sapere, che abita un soggetto e che quello stesso soggetto non sa di sapere. Questo sapere che non si sa di sapere, l’inconscio, lui, sì, parla, e c’è psicoanalisi laddove c’è qualcuno che si metta in ascolto di questo parlare e di questo dire, fatto di inciampi, lapsus, parole deformi, conversioni somatiche, insomma di sintomi. Presa dunque nella sua purezza, l’esperienza psicanalitica ci pone di fronte al limite di una singolarità assoluta, difficilmente articolabile come un sapere generalizzabile e trasmissibile a una comunità.
Gli autori si assumono dunque un rischio, quello di far virare la psicoanalisi verso il senso, sganciandola dal proprio specifico, cioè quella posizione di ascolto radicale che dicevamo, al di qua di ogni valore, al di qua di ogni morale, e domandandole di prendere una certa piega di senso: contro qualcosa, a favore di qualcos’altro. La psicoanalisi esce così da quella postura di ascolto radicale, per prendere invece una forma discorsiva diversa.
Credo che non solo sia possibile assumersi e correre questo rischio, ma che sia anche necessario farlo, e farlo nel senso indicato dagli autori. La soggettività di quest’epoca, con le urgenze che essa patisce, impone di riflettere sulle implicazioni politiche della pratica analitica e di frequentare un dialogo che possa arricchire chiunque guardi alla psicoanalisi in cerca di strumenti da utilizzare contro l’ordine del discorso corrente.
Secondo alcuni, ci troveremmo collocati storicamente nella fase terminale di un certo tipo di legame sociale che Lacan, in accordo con la gran parte degli studiosi, definiva “discorso del capitalista”. Tale discorso mostra oggi la corda, si fanno evidenti gli effetti di un certo logoramento. Il discorso del capitalista, dice Lacan, è «il discorso più astuto che si sia mai tenuto», perché lungi dall’avere nella crisi o nell’intoppo un momento di difficoltà o minaccia, vive e prolifica proprio innescando continuamente crisi e facendo della crisi il luogo della propria evoluzione, del proprio avanzamento, del proprio sviluppo. Il capitalismo deve distruggere e rivoluzionare continuamente i propri confini per poter costruire e continuare a sussistere. Per questo motivo, Lacan nel ‘72 diceva che è un discorso «destinato a scoppiare, perché insostenibile». Un discorso che fa della crisi il proprio punto d’origine «procede come su delle rotelle, non potrebbe correre meglio, ma appunto va così veloce da consumarsi, si consuma fino a consunzione».[1]
In quel destino esplosivo e in quella consumazione fino a consunzione si ritrovano le urgenze dell’oggi. Dal 1972 a oggi, gli effetti di questa consumazione fino a consunzione si fanno sempre più evidenti, o peggio, patenti. Riscaldamento globale e antropocene sono, ad esempio, due grandi nomi per dire questa consumazione fino a consunzione.
L’attività umana, orientata da quel particolare e astuto discorso del capitalista, è stata insistentemente stimolata sul versante di ciò a cui il desiderio mira, l’oggetto di consumo, il gadget, il godimento padroneggiabile. Il desiderio, che di per sé è indistruttibile, cioè mai pienamente soddisfatto, sempre votato ad altro, nel discorso del capitalista è stato venerato come fonte di riproduzione potenzialmente infinita del circuito delle merci. Il problema inizia quando sulla scena dove si consumano i rapporti tra il desiderio e le sue mire emergono gli scarti di questo processo. Thimoty Morton[2]prende l’esempio del water, dove gli scarti umani vengono fatti sparire, attraverso un tubo a sifone che con la sua forma sembra suggerire l’accesso a un’altra dimensione, un fuori assoluto rispetto alla superficie pulita in cui viviamo. Oggi sappiamo che questo fuori non esiste, che gli scarti dell’attività umana ritornano, o meglio restano in superficie, sulla superficie del mare, della terra, dell’aria, e che noi conviviamo con essi. Ennesimo contrappunto alle psicologie del profondo, l’inconscio è in superficie.
Altro effetto terminale della consunzione del discorso del capitalista sarebbe la segregazione. Prima che tardivo, la segregazione è stata anche un effetto precoce del discorso del capitalista nei suoi momenti più salutari. Se il soggetto è spinto a giocarsi il rapporto al proprio desiderio sul piano della alienazione al consumo, «lasciando da parte le cose dell’amore», il godimento dell’oggetto-gadget si darà come rapporto alienato e chiuso rispetto a quell’Altro evanescente che il desiderio stesso suppone come luogo della propria realizzazione. Il discorso del capitalista fa dell’oggetto di consumo un partner, e questo ha effetti di segregazione. Non serve affidarsi ai tormenti e alle ricerche labirintiche delle cose dell’amore, se come partner ho l’oggetto già in tasca. Strana forma di “legame sociale”.
La forma ultima che prende oggi questa tendenza del discorso del capitalista alla segregazione si osserva in fenomeni sociali che Jacques-Alain Miller suggerisce di pensare come due assiomi: assioma di supremazia e assioma di separazione.[3] Supremazia e suprematismo del proprio modo di godimento (rapporto all’oggetto del desiderio/godimento), propinato come ideale – separazione del proprio modo di godimento da quello dell’Altro, ma anche salvaguardia del “proprio” rispetto alla consumazione per consunzione. Sono sempre più frequenti emersioni di forme di legame sociale che puntano a separare un “noi” da un Altro, ispirate all’antico discorso del Padrone, in cui si invoca l’intervento di Uno che argini gli effetti di devastazione del capitalismo, imputando peraltro questi effetti a un qualche Altro immaginario contro cui si sostiene la propria identità. Vecchi e nuovi fondamentalismi e fascismi pullulano come risposta, sul piano del potere, all’impotenza della politica di fronte alle logiche spietate dell’economia finanziaria.[4]
Rispetto a tutto ciò, il manifesto di Parker e Pavón-Cuéllar ci invita a sviluppare i punti di connessione tra la psicoanalisi e i movimenti di emancipazione. Cosa dirsi dunque?
Sulla rivoluzione, innanzitutto. Alla rivoluzione Lacan ha dedicato una critica di enorme utilità nel seminario sul rovescio della psicoanalisi, di cui ogni movimento di liberazione potrebbe servirsi. La rivoluzione per Lacan è il controcanto del discorso del padrone, il controcanto cioè di quel tipo di legame sociale che impone la parola d’ordine di un Uno rispetto a tutti. Secondo Lacan, tale controcanto non farebbe altro che aspirare a diventare canto. È invece il concetto di sovversione che in psicoanalisi dice meglio ciò a cui è votato il soggetto che desideri emanciparsi dalle imposizioni del discorso del padrone. Il discorso dell’analista, che si effettua in un’esperienza analitica, si configura come la sovversione del discorso del padrone, in cui in primo piano non c’è più l’enunciato di un io che padroneggia il proprio dire, ma l’enunciazione del soggetto dell’inconscio che sconvolge e sovverte quell’io. La psicoanalisi, in quanto luogo di produzione dell’inconscio, è sovversiva rispetto alle forze della rimozione.
L’attenzione all’intesa inconscia tra rivoluzionario e padrone è quanto ritroviamo anche in un testo del collettivo di scrittori e attivisti anonimi Comitato invisibile. «Per un’insurrezione, la questione è di rendersi irreversibile. L’irreversibilità si raggiunge sconfiggendo non solo le autorità ma anche il bisogno di autorità, non solo la proprietà ma anche il gusto dell’appropriazione, non solo ogni egemonia ma anche il desiderio d’egemonia. È per questo che il processo insurrezionale contiene in sé la forma della sua stessa vittoria o quella del suo stesso fallimento. In fatto di irreversibilità, la distruzione da sola non è mai stata sufficiente. Tutto sta nei modi. Ci sono modi di distruggere che provocano immancabilmente il ritorno di quanto era stato annientato. Accanirsi sul cadavere di un ordine significa suscitare la vocazione a vendicarlo».[5]
Un certo tipo di rivendicazione, un certo gusto per la lamentazione nei confronti di un Altro causa di ogni disagio, non fa che partecipare all’alimentazione di quello stesso Altro. Quando si vuol dire o fare qualcosa contro «il discorso più astuto che si sia mai tenuto», è necessaria un’astuzia maggiore.
Altro luogo in cui la psicoanalisi ha avuto grande parte, in senso sia clinico sia politico, è l’approccio al soggetto psicotico. Ci troviamo qui nel pieno del conflitto tra oppressione e liberazione. Il soggetto psicotico è colui che si ritrova invaso da un Altro persecutore, notoriamente in forma di voci allucinate, ma non solo. Per tentare di far qualcosa contro questa invasione, per liberarsene, il soggetto mette in atto comportamenti ritenuti bizzarri dalla società, immediatamente rubricati in quel grande e ancora attuale scarico ideologico che è la follia, con le conseguenze che sappiamo. Qui la psicoanalisi ha potuto dialogare con la psichiatria, per mettere in luce il valore autoterapeutico di un delirio, la logica che soggiace ad alcuni passaggi all’atto, e soprattutto la decostruzione di ogni normalità che l’ascolto attento delle testimonianze dei soggetti psicotici induce a praticare. Rispetto a un approccio clinico grossolanamente patologizzante nei confronti dell’esperienza psicotica, che con il ricorso automatico e incondizionato al farmaco spesso reprime in blocco sia l’Altro che parla, invade e disturba il soggetto, sia il soggetto stesso, la psicoanalisi ha avuto modo di dire qualcosa in direzione di una clinica più attenta al dettaglio e soprattutto alla salvaguardia del soggetto. Su questo punto, gli interessi della psicoanalisi incrociano quelli dei movimenti per le neurodiversità, l’interesse per il sapere che emana dall’esperienza soggettiva, dal vissuto soggettivo. Non c’è teoria psicoanalitica delle psicosi senza riferimento diretto all’esperienza di Schreber, Wolfson, Artaud, Joyce.
Un altro punto in cui possono darsi incontri fecondi è il trattamento riservato allo scarto, che accomuna la psicoanalisi e il grande movimento della ecologia politica. In psicoanalisi si pratica una frequentazione dello scarto che fa eco col titolo di un testo di Donna Haraway importante nell’ambito dell’ecologia politica: Staying with the trouble.[6] Della frequentazione dello scarto l’esperienza analitica fa il suo maggior motore, ma al di là dell’analogia, psicoanalisi ed ecologia politica hanno molto da dirsi su cosa significhi davvero convivere con il problema, con il disturbo, in un tempo in cui si rende così evidente che la liquidazione del problema o del disturbo semplicemente non funziona.
Psicoanalisi e movimenti hanno insomma parecchie cose da dirsi. Non si tratta di un dialogo facile, esistono importanti differenze strutturali, tuttavia è un dialogo che si rende necessario. Esplosione e consumazione per consunzione sono il nostro orizzonte.
[1] J. Lacan, Del discorso psicoanalitico (1972), in Lacan in Italia. 1953-1978, a cura di G. B. Contri, La Salamandra, 1976.
[2] T. Morton, Iperoggetti, Nero, Roma 2018, p. 48.
[3] J.-A. Miller, Docile al trans, http://uqbarwapol.com/wp-content/uploads/2021/04/JAM-DOCILE-AU-TRANS-IT.pdf.
[4] Tutto il lavoro degli ultimi anni di Franco Berardi ‘Bifo’ sviluppa bene questo punto. Si veda ad esempio F. Berardi ‘Bifo’, Futurabilità, Nero, Roma 2018.
[5] Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene, in Comitato Invisibile, Nero, Roma 2019, p. 96.
[6] In italiano D. Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.
UN ASSAGGIO
Indice
7 Prefazione
Psicanalisi; Rivoluzione
15 1. Introduzione. Miseria, dialettica e liberazione
Sintomi della miseria come fenomeni storici; La psicoanalisi è dialettica, non è psicologia né psichiatria; La liberazione nella clinica e nella cultura
42 2. Inconscio. Alienazione, razionalità e alterità
Alienazione e senso comune; La razionalità nella trappola dell’Io; Alterità, della psicoanalisi
68 3. Ripetizione. Storia, coazione e libertà
Storie di fallimento; Coazione e sintomo; Libertà di ripetere e fallire meglio
92 4. Pulsioni. Corpo, cultura e desiderio
Corpi, di vita e morte; Cultura, del sesso e altro; Desiderio, di altri
115 5. Transfert. Potere, resistenza e analisi
Il potere, nella e della clinica; Resistenza, nella e della clinica; Analisi, del potere e della resistenza
140 6. Trasformazione soggettiva. Tempo per comprendere e momenti per l’azione
Storia e tempo rivoluzionario; Falsi futuri promessi dalle professioni psy terapeutiche; Transizioni, nel mondo e nella psicoanalisi
161 Letture di base
Psicoanalisi; Psicologia critica; Politica
169 Postfazione
Il silezio dell’antagonismo psicoanalitico
di Pietro Bianchi
Prefazione
Questo manifesto è rivolto ai movimenti di liberazione per un mondo migliore. È scritto per, e indirizzato a, individui e gruppi che lottano contro la realtà oppressiva, sfruttatrice e alienante del nostro tempo. Riguarda l’interrelazione tra questa miserabile realtà esterna della vita attuale e le nostre vite “interne”, ciò che possiamo chiamare la “nostra psicologia”, ciò che sentiamo nel profondo “dentro di noi”, che sembra rassegnarsi troppo spesso alla realtà o, speriamo, ribellarsi a essa. Abbiamo bisogno di ribellarci, per il bene degli altri e per noi stessi.
A volte abbiamo la sensazione che la nostra ribellione non possa uscire da dentro di noi, liberarsi e trasformarsi in azione. È come se fosse qualcosa che ci divora dentro e che può compromettere seriamente la nostra vita. Allora ci può venir detto che abbiamo un disturbo psicologico.
Molti dei nostri problemi vengono ridotti a livello della psicologia individuale dalla società, dalla cultura di massa, dai media e da professionisti addestrati a fare proprio questo: psicologi, psichiatri e altri professionisti “psy”. I problemi sembrano essere “psicologici”, ma non lo sono. Come possiamo ripoliticizzarli? Come possiamo combattere “fuori” contro le radici di ciò che sentiamo “dentro”?
La relazione tra il mondo personale “interno” e quello sociale “esterno” è cruciale per i movimenti di liberazione. Ecco perché questi movimenti possono trarre beneficio dalla psicoanalisi, che ha passato più di un secolo a cogliere l’intima interconnessione tra la realtà e ciò che si sente nel più profondo e insondabile di ognuno di noi. Dobbiamo comprendere la natura di questa interconnessione, con l’aiuto di diversi approcci, compresi quelli della psicoanalisi, per lottare contro ciò che ci opprime, ci sfrutta e ci aliena, ma anche per costruire un’alternativa pratica al capitalismo, al sessismo, al razzismo e alle nuove forme di colonialismo.