Descrizione
Michael Löwy
Ecosocialismo
L’alternativa radicale alla catastrofe capitalista
Traduzione dal francese di Gianfranco Morosato
L’ecosocialismo è una corrente di pensiero e di azione ecologica che fa proprie le conquiste fondamentali del marxismo mentre le libera dalle sue scorie produttiviste. La logica capitalista del mercato e del profitto, così come quella dell’autoritarismo burocratico del defunto “socialismo reale”, è incompatibile con le esigenze di salvaguardia dell’ambiente. Gli ecosocialisti criticano gli attuali vicoli ciechi dell’ecologia politica, che non mette in discussione il potere del capitale.
L’ecosocialismo è quindi una proposta radicale che mira non solo a una trasformazione dei rapporti di produzione, dell’apparato produttivo e dei modelli di consumo dominanti, ma anche a creare un nuovo paradigma di civiltà, rompendo con i fondamenti della civiltà capitalista/industriale.
Michael Löwy presenta le idee di chi vuole che “il valore di scambio sia sostituito dal valore d’uso”, e “la produzione sia organizzata in funzione dei bisogni sociali e delle esigenze di tutela ambientale”.
“Questo libro non è un’esposizione sistematica delle idee o delle pratiche ecosocialiste, ma più modestamente il tentativo di esplorarne alcuni aspetti, terreni ed esperienze. Rappresenta, ovviamente, solo l’opinione del suo autore, che non coincide necessariamente con quella di altri pensatori o reti che si rifanno a questa corrente. Non mira a codificare una nuova dottrina né a fissare una qualche ortodossia. Una delle virtù dell’ecosocialismo è proprio la sua diversità, la sua pluralità, la molteplicità di prospettive e approcci, spesso convergenti o complementari – come dimostrano i documenti pubblicati in appendice, che provengono da diverse reti ecosocialiste – ma anche, a volte, divergenti o addirittura contraddittori”.
Michael Löwy, direttore di ricerca emerito del Cnrs, è autore di un lavoro ricco e abbondante, dal suo primo saggio su La Pensée di Che Guevara (Maspero, 1970) al suoi lavori su Weber, Kafka o Benjamin, l’ebraismo libertario nell’Europa centrale o la teologia della liberazione in America Latina. Tra i suoi testi tradotti in italiano: Redenzione e utopia (Bollati Boroghieri, 1992), Segnalatore d’incendio (Bollati Boringhieri, 2004), Kafka sognatore ribelle (elèuthera, 2014) e per i nostri tipi La rivoluzione è il freno di emergenza (2020).
RASSEGNA STAMPA
PerUnAltracittà – 1 settembre 2021
Ecosocialismo
di Gilberto Pierazzuoli
Il modo di produzione della ricchezza ha sempre profondamente segnato la vita degli umani nel mondo. Ma questa connessione non sempre è così evidente per tutti gli aspetti sui quali esercita la sua influenza. Marx ha per esempio mostrato i meccanismi attraverso i quali il capitale riusciva a estrarre plus valore dallo sfruttamento della forza lavoro. Su questi si è costruita storicamente una critica del modello e l’aggregazione politica della classe sociale che forniva la mano d’opera: gli operai salariati. Il capitalismo come epoca storica è però segnato anche da altri conflitti oltre a quello capitale-lavoro. Quello patriarcale, uomo-donna (maschio-femmina) e quello ambientale naturale-artificiale (produzione-salute).
Per quanto riguarda il rapporto tra produzione e ambiente, spesso però non se ne sono evidenziate le connessioni seppur presenti nell’analisi marxiana, come ben illustra Michael Löwy. Si è così assistito, per esempio, a situazioni nelle quali si è fatto passare in secondo piano il danno ambientale nei confronti della difesa dei posti di lavoro. Sino al secolo scorso la politica oppositiva al modo di produzione capitalistico si è infatti concentrata sulla proprietà dei mezzi di produzione sostituendo soltanto la proprietà collettiva degli stessi a quella privata, mantenendo però intatti molti altri aspetti della vita sociale connessi a questo modo di produzione.
In questo contesto e nello stesso tempo, si è fatta sempre più palese la coscienza che qualcosa non andava nell’atteggiamento umano nei confronti dell’ambiente e si è preso atto che bisognava fare qualcosa per fare terminare lo scempio nei confronti della natura. Questi due piani di resistenza e di opposizione non si sono però uniti in una politica comune, anche perché la connessione tra modo di produzione e abuso ambientale non era stata ben evidenziata. Una possibile risposta la cerca di dare allora l’ipotesi dell’ “ecosocialismo” che Michael Löwy propone in questo suo libro appena uscito per “ombre corte” nella traduzione di Gianfranco Morosato. Qui una sola considerazione negativa: purtroppo il lavoro dell’autore, applicato allo svelamento della profonda commistione tra capitalismo e danni ambientali, non riesce ad allargarsi e a mettere in connessione anche capitalismo e conflitti di genere.
Comunque, anche quella che è la questione centrale del lavoro di Löwy, non è così palese. Si tratterebbe di una miopia reciproca tra i movimenti ambientalisti e quelli inerenti la politica sociale e del lavoro, dove le correnti più radicali di entrambi hanno esasperato in maniera paradossale la cura del proprio orto. Löwy cita per assurdo la tutela della zanzara anofele che in un delirio anti antropocentrico avrebbe gli stessi diritti alla vita di un bambino affetto dalla malaria. Differenza che peraltro esiste, ma sulla quale non si dovrebbe costruire un’istituzione sociale e nemmeno semantica.
In realtà, la ricerca di un punto di unione delle due pratiche di lotta si è provata a teorizzarla già in precedenza, Löwy cita per esempio il lavoro di James O’Connor per il quale il trait d’union consiste nel subordinare il valore di scambio al valore d’uso. Valore, quest’ultimo” che deve tenere conto anche delle esigenze di tutela ambientale. Löwy articola poi questa proposta con alcune ricette classiche del pensiero marxista, quali la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, la pianificazione democratica e una nuova struttura tecnologica delle forze produttive.
Quello che è in discussione è la limitata razionalità del mercato capitalista che antepone degli obiettivi immediati (il mero calcolo dei profitti) mancando di una visione prospettica ma anche di una politica che esprima una certa solidarietà se non di specie, almeno di classe. Il modello produttivo e i modi di vita che ne derivano non sono infatti applicabili a tutto il pianeta, se non amplificandone gli effetti nefasti peraltro già presenti nel modello stesso. Il capitalismo non esprime nessuna forma di solidarietà di classe, vedendo negli altri capitalisti soltanto degli spietati concorrenti. Il capitalismo è allora una forma egoistica di rapportarsi al mondo che sulla spinta di quella concorrenza e mosso da meccanismi interni, è condannato a una crescita perenne della produzione e quindi dei consumi, dove le crisi – e le vittime prodotte dalle stesse – sono consustanziali al sistema. Ma la soluzione non sarebbe la semplice limitazione generale dei consumi, ma forme alternative di consumo non legate solo e soltanto alla loro crescita infinita sganciata da qualunque espressione dei bisogni e dei desideri non condizionati dalla macchina sistemica. Serve allora, prosegue l’autore, una riorganizzazione del modo di produzione, una economia di transizione al socialismo, che si misuri sui bisogni reali della popolazione e la tutela dell’ambiente.
E su questo si innesta la mia seconda critica verso un testo peraltro fondamentale per fare uscire sia la critica economica che quella ambientale dalle secche provocate dalla loro incapacità di comunicare. La critica è che si parla di bisogni “veri” (della popolazione e dell’ambiente) non sempre mettendo in campo quale riflessione e quale meccanismo possa avere agito per determinarne la veridicità. Per il resto si ha coscienza che occorra dare voce a interessi generali e a più lungo respiro, che scalzino la nuda redditività capitalistica degli stessi.
Il lavoro di Löwy si apre a questo punto a proposte concrete, a pratiche non astratte, individuando – almeno in parte – anche analisi utili a smascherare i meccanismi che inducono bisogni non autentici: «Il criterio per distinguere un bisogno autentico da un bisogno artificiale è la sua persistenza dopo la soppressione della pubblicità» (p. 32). E, dopo di questa, mette in discussione la “mano invisibile” del mercato alla quale, citando Richard Smith, ci sarebbe da contrapporre l’azione diretta di una mano, questa volta esplicita, della pianificazione diretta. Il senso è semplice: se certi meccanismi, quelli che giustificano il capitalismo, si reggono soltanto sulla miopia totale nei confronti di certi ambiti, per esempio quello della salvaguardia dell’ambiente, la proposta socialista se ne deve invece fare carico, superando in questo la complicità involontaria delle «principali tendenze di sinistra durante il XX secolo» (p. 39) per le quali le forze produttive avessero allora una certa forma di neutralità. Si parla così, più e più volte, di tenere in conto la salvaguardia degli equilibri ecologici, ma lo si dà come compito aggiunto senza spiegare il fatto del perché esso sia stato fino a qui trascurato. È un compito del quale prendersi carico, più perché si è superata la capacità dell’ambiente di rigenerarsi, con la conseguenza di un’urgenza riparatoria che sinistra e capitale ormai devono riconoscere, che non attraverso un’analisi dei meccanismi produttivi di questo sistema economico sociale. L’interesse di Marx era concentrato nel fare emergere la forma di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, tanto che, altri aspetti – seppur intravisti – non meritarono quell’attenzione che oggi è diventata palese.
Se Marx, pur dentro a questa “trascuratezza”, era comunque in sincronia con la società a lui coeva, Löwy aggiorna l’apparato concettuale della sinistra mantenendo comunque uno scarto. Lo fa, secondo me, quando dice: «La condizione necessaria per raggiungere questi obiettivi è una piena ed equa occupazione» (p. 40), scarto temporale che poi cerca di colmare quando, poco dopo, parla della riduzione del tempo di lavoro”, aggiungendo: l’aumento del tempo libero è infatti una condizione per la partecipazione dei lavoratori alla discussione democratica e alla gestione dell’economia e della società» (p. 41). Adesso, quando invece della piena occupazione, si parla di piena automazione, mettendo in risalto un obiettivo che non si può più posporre come quello di andare sempre di più in direzione della soppressione del lavoro salariato, si ha con il lavoro un rapporto ambiguo come se la fine del lavoro salariato fosse una utopia astratta.
Mentre il capitale si è organizzato per l’utilizzo ai propri fini delle tecnologie digitali attraverso le quali è riuscito a riorganizzare ampi settori della produzione e della logistica, sganciando il lavoro dal salario attraverso il lavoro gamificato, gli stage e consimili, sganciando poi il salario dalle ore di lavoro, reintroducendo il cottimo e inventandosi la figura dell’imprenditore di se stesso per la quale i rider non sono dei lavoratori sottopagati, ma degli imprenditori, ecco, che la buona vecchia sinistra si trova in difficoltà a sbarazzarsi una volta per tutte di quella imposizione distruttiva che è il lavoro salariato. Si può obiettare che il lavoro, anche in senso fordista, sia a tutt’oggi uno dei modi dello sfruttamento capitalista degli uomini, della natura e doppiamente delle donne, ma che la tendenza vada in un’altra direzione è ormai elemento fuori da ogni tipo di dubbio. Si può e si deve invece aggiungere che la sinistra sia completamente impreparata ai giochi di prestigio messi in campo dal capitale per continuare a dominare il campo, un campo che è, a ben guardare, il mondo. E che anche in quei settori più tradizionali della produzione e del lavoro salariato, le innovazioni digitali quali quelle messe in atto nel comparto della distribuzione e della logistica, remino verso un futuro di sottomissione totale alla macchina del consumo in-consapevole e distruttivo del capitalismo del XXI secolo.
Löwy affronta allora le accuse che questo capitalismo aggiornato gli leva tramite i suoi alleati ideologici, con la difesa e il recupero di alcuni strumenti storici della sinistra, quello per esempio della pianificazione democratica e quello del recupero della centralità del valore d’uso: operazione preziosa, ma lo fa pensandoli come strumenti del secolo scorso. Strumenti che, per di più, il socialismo “reale” avrebbe male applicato. In realtà, se riusciamo a pensare in termini digitali e a non lasciare, in questo settore, il campo libero al capitale, possiamo intravedere nello strumento del feedback continuo prodotto dagli utenti delle piattaforme digitali e nelle possibilità offerte dalla pianificazione algoritmica delle reti degli ibridi umani e di quelli non umani – feedback che anche l’ambiente produce – una possibilità mai così tecnologicamente alla portata di una sinistra realmente rivoluzionaria. Contro il genere, la razza e la specie, una sinistra anti colonialista, che non colonizza né gli uomini, né la natura, ma non lo fa attraverso la buona volontà, non lo fa per motivi morali se non moralistici. Lo fa perché è frutto non soltanto di un’umanità rispettosa, ma di quel potere che la coalizione delle cose riacquistano nelle reti cibernetiche che offrono loro un’agenzialità sino a oggi concessa soltanto agli umani, a quegli unici soggetti spesso impersonati nella figura del maschio bianco del nord del mondo. La pianificazione funziona non soltanto perché è democratica, ma perché è frutto del “parere” di tutte le cose. Ecco il valore d’uso che lasciato a sé stesso sarebbe soltanto un astrazione, un valore intrinseco alla cosa, che sarebbe allora inconoscibile.
Do qui un esempio del modo di pensare di Löwy.
Sorge una domanda: che garanzia abbiamo che le persone faranno delle buone scelte, quelle che proteggono l’ambiente, anche se il prezzo da pagare è cambiare parte delle proprie abitudini di consumo? Tale “garanzia” non esiste, tuttavia appare ragionevole la prospettiva del trionfo della razionalità delle decisioni democratiche. (p. 45).
Con l’apparato metodologico che mette in atto non si può che affidare alla razionalità delle scelte per soggetti non più condizionati, mantenendo il monopolio delle soggettività all’antropos dell’antropocene, che non è la specie tutta, ma, come ben ci ha insegnato Jason Moore, è il capitalista del Capitalocene, quel maschio bianco e razionale del fallogocentrismo deriddiano. Anche il lessico di Löwy è segnato da questa cultura: si parla di valore d’uso, ma, nello stesso tempo, di “consumo consapevole” e non di “uso”. Si parla di protezione dell’ambiente perché non si riesce a pensare a un ambiente che non ha bisogno di essere protetto da nessuno.
Il resto viene di conseguenza. Löwy cita Michael Albert a riguardo di quella democrazia partecipativa che dovrebbe incarnare il nuovo soggetto della pianificazione con una frase che, presa a se stante, potrebbe andare nella direzione che avevo prospettato qui sopra: «Nella misura in cui nessun attore ha maggiore influenza di un altro nel processo di pianificazione, dove ciascuno valuta i costi e i benefici sociali con un peso che corrisponde al suo grado di coinvolgimento nella produzione e consumo, questo processo genera contemporaneamente equità, efficienza e autogestione». (p. 46). Peccato che gli attori di cui si parla siano di nuovo solo e soltanto attori umani.
Il mondo di Löwy è un mondo meglio di questo dove ancora hanno effetto dispositivi antichi. Löwy ci parla dello «attuale odioso sistema del debito» e dello sfruttamento imperialista del sud del mondo, ma anche qui la soluzione è moralistica e solidaristica perché tutto questo «lascerebbe il posto a un’ondata di sostegno tecnico ed economico dal Nord verso il Sud». Cosicché la giusta critica all’infelice slogan della “decrescita felice”, è di nuovo in mano a un dispositivo logico razionale che distinguerà i “reali” bisogni umani, aprendo il campo all’esclusioni dei desideri umani quando non reputati reali. Si parla così di “utilità marginale” (p.51), di “obblighi ecologici” (ibidem), della necessaria infrastrutturazione dei paesi poveri (quale? L’alta velocità?).
Löwy d’altronde è cosciente che molte delle sue analisi e delle sue proposte possono avere uno sbocco transitorio. In più, nella seconda parte, il suo lavoro ha un altro respiro. Si tratta della giusta critica alla fiducia che anche Marx aveva inizialmente per il progresso. Fiducia che si affievolisce con il tempo in relazione alle sue letture (di Marx) e alla presa di coscienza di alcune problematiche negative da imputare al modo di produzione capitalista, oltre a quella centrale dello sfruttamento della mano d’opera tramite lo strumento del lavoro salariato. Si tratta per esempio dell’impoverimento del suolo e della rottura metabolica tra le società umane e la natura. È questa seconda parte probabilmente la più utile, non perché smentisca la prima, ma perché fa un altro lavoro, quello di trovare tra le pieghe delle analisi di Marx e di Engels materiale utile a capire anche le problematiche contemporanee. Si tratta di un’operazione non di recupero acritico dell’intero corpo delle loro opere, ma di una indagine sul metodo, metodo questo applicabile anche all’attualità e all’emergenza ambientale che la contraddistingue.
La terza parte prosegue nell’opera – se non di smentire il detto della prima – per trovare una continuità etica tra il corpus degli scritti di Marx e quello che dovrebbe essere il portato di tutta la sinistra. Qui la morale è esplicita e esplicitata: “Per un’etica ecosocialista”, il titolo. Ma non moralistica né volontaristica. Qui il lavoro della cura e il ruolo delle donne trova il giusto spazio, non in un recupero razionalista del loro ruolo, ma in quello spazio di sensibilità che la sinistra ha come lascito e programma. Cosa che permette all’autore di giustificare l’umanesimo e una forma di antropocentrismo come punto di vista proprietario e non coloniale.
Chiudono il libro degli importanti esempi ricchi di materiale dal Brasile e dagli Stati Uniti. Si tirano le fila nelle conclusioni seguite da alcune appendici con documenti di riferimento. L’ultima parola a Michael Löwy che, riferendosi al lavoro di Joel Kovel, così ci descrive il capitalismo:
Un sistema fondato sulla predominanza del valore di scambio sul valore d’uso, del quantitativo sul qualitativo, e che può esistere solo nella forma di un processo di accumulazione del capitale espansivo, incessante e autoriproduttivo. Un sistema dove tutto, compreso se stessi diventa merce, un sistema che impone a tutti un insieme potente e uniforme di vincoli: la redditività a breve termine, la competitività, la crescita a tutti i costi, l’espansione e il consumo. (p. 112).
il manifesto – 21.7.2021
Le ragioni della sfida che muove dall’incontro tra «verdi» e «rossi»
di Massimo Filippi
Isabelle Stengers non ha dubbi: «La mancata articolazione tra i ‘rossi’ e i ‘verdi’ è stata «uno dei fallimenti politici più tristi degli ultimi decenni». Intorno a questo fallimento e verso la ricerca di una nuova alleanza ruota il saggio di Michael Löwy, Ecosocialismo. Una alternativa radicale alla catastrofe capitalista (traduzione di Gianfranco Morosato, ombre corte, pp. 156, euro 14). Saggio preciso e affilato non solo nel momento in cui descrive i segni della crisi ecologica in atto, ma anche, e soprattutto, quando ne mette in evidenza le cause e, di conseguenza, si impegna nella ricerca politica di una via d’uscita.
I segni della crisi sono noti così come il rischio tutt’altro che fantascientifico che possano instaurarsi devastanti meccanismi di feedback positivo (dovuti, per esempio, al fenomeno albedo o allo scioglimento del permafrost) in grado di accelerare l’incedere della catastrofe.
MENO CONDIVISA è invece la presa d’atto che il responsabile del disastro ambientale non sia un qualche fantomatico Anthropos quanto piuttosto il capitalismo – in tutta la sua violenta materialità -, la cui impresa, fondata su accumulazione, crescita e consumo illimitati, sta compromettendo «le precondizioni della vita stessa sul pianeta», reificando tutto in poltiglia nera.
È a partire da qui che Löwy disegna il suo progetto ecosocialista che non esita a definire «la grande sfida per un rinnovamento del pensiero marxista alle soglie del XXI secolo».
UN PROGETTO che intende far dialogare i «verdi», che non sembrano comprendere appieno l’importanza della «critica marxiana dell’economia politica», e i «rossi» che non paiono aver colto fino in fondo che il capitalismo non si nutre solo della sua prima contraddizione – quella individuata da Marx tra forze produttive e rapporti di produzione – ma anche di quella che O’Connor ha chiamato, e che Löwy fa propria, la sua seconda contraddizione, ossia quella «tra le forze produttive e le condizioni di produzione», tanto da aver trasformato le forze produttive in forze distruttive. Pertanto, la convergenza tra «rossi» e «verdi» «è possibile solo a condizione che i marxisti sottopongano a un’analisi critica la loro concezione tradizionale delle ‘forze produttive’ e che gli ecologisti rompano con l’illusione di una ‘economia di mercato’ pulita».
LA SINTESI tra la consapevolezza dei pericoli che minacciano il pianeta e la critica sistemica dell’estrattivismo capitalista è, per Löwy, un «comunismo solare» capace di smarcarsi al contempo dall’«oligarchia fossile», dalle «misure cosmetiche» dei summit internazionali, dal miraggio di poter «‘ecologizzare’ il capitalismo» e dal vagheggiamento di improbabili soluzioni tecnologiche. In questo senso, l’ecosocialismo è rivoluzionario, in quanto «mira non solo a una nuova società. A un nuovo modo di produzione, ma anche a un nuovo paradigma di civiltà»: peccato che Löwy non trovi posto in questo nuovo paradigma per una presa di congedo dall’antropocentrismo e per una rinnovata alleanza con i non umani.
LÖWY NON SI FERMA agli enunciati di principio e fissa i punti necessari per la realizzazione del suo progetto: subordinazione del «valore di scambio al valore d’uso», «proprietà collettiva dei mezzi di produzione» e «pianificazione democratica» basata sui bisogni sociali autentici e sulla sostenibilità ecologica. Giungendo in tal modo a tratteggiare un’ecopolitica del conflitto che, data l’urgenza, deve iniziare qui e ora e che non deve disdegnare «le vittorie parziali», in quanto «utili di per sé» e in quanto «contribuiscono a una presa di coscienza» collettiva.
DI FRONTE ALL’AUT AUT socialismo o barbarie, Löwy prende posizione intrecciando Benjamin, perché la rivoluzione è un freno di emergenza, Jonas e Bloch, perché «senza il ‘principio responsabilità’, l’utopia non può che essere distruttiva, e senza il ‘principio speranza’, la responsabilità non è che un’illusione conformista» e Brecht, perché «chi lotta può perdere», ma «chi non lotta ha già perso».
UN ASSAGGIO
Indice
7 Prefazione. Prima del diluvio: l’ecosocialismo, sfida politica attuale
Parte prima. Socialismo ecologico
17 Capitolo primo. Cos’è l’ecosocialismo?
31 Capitolo secondo. Ecosocialismo e pianificazione democratica
Parte seconda. Marxismo ed ecosocialismo
51 Capitolo terzo. Progresso distruttivo, Marx, Engels e l’ecologia
66 Capitolo quarto. La rivoluzione è il freno di emergenza: attualità politico-ecologica di Walter Benjamin
Parte terza. Aspetti della lotta ecosocialista
73 Capitolo quinto. Per un’etica ecosocialista
82 Capitolo sesto. “La pubblicità nuoce gravemente alla salute”… dell’ambiente
89 Capitolo settimo. Crisi ecologica e altermondialismo
Parte quarta. Studio di casi: Brasile e Stati Uniti
97 Capitolo ottavo. In Brasile: la lotta di Chico Mendes
104 Capitolo nono. Una ecologia di sinistra negli Stati Uniti
Parte quinta. Conclusione
117 Capitolo decimo. Tredici tesi sulla catastrofe (ecologica) imminente e i mezzi (rivoluzionari) per scongiurarla
Appendici
Manifesto ecosocialista internazionale
Rete ecosocialista brasiliana
Dichiarazione ecologista di Belém
Copenhagen, 12 aprile 2049
Prefazione
Prima del diluvio: l’ecosocialismo, sfida politica attuale
Il diluvio del XXI secolo
James Hansen, ex direttore del Goddard Institute della nasa negli Stati Uniti, uno dei massimi esperti mondiali sulla questione del cambiamento climatico – l’amministrazione Bush aveva cercato, invano, di impedirgli di rendere pubbliche le sue diagnosi – scrive nel primo paragrafo del suo libro pubblicato nel 2009:
Il pianeta Terra, la creazione, il mondo in cui si è sviluppata la civiltà, il mondo con le norme climatiche che conosciamo e con spiagge oceaniche stabili, è in pericolo imminente. L’urgenza della situazione si è cristallizzata solo negli ultimi anni. Ora abbiamo una chiara evidenza della crisi […]. La conclusione sorprendente è che il continuo sfruttamento di tutti i combustibili fossili della Terra minaccia non solo i milioni di specie sul pianeta, ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa – e i tempi sono più brevi di quanto pensassimo.
Dalla prima edizione della nostra piccola raccolta (2011), la crisi ecologica si è considerevolmente aggravata. Scienziati di tutto il mondo, negli ultimi rapporti ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, lanciano l’allarme: la CO2 continua ad accumularsi nell’atmosfera, i ghiacciai dei poli stanno collassando, il livello del mare si sta alzando, gli incendi e gli uragani si moltiplicano. Se non cambiamo radicalmente direzione nel prossimo decennio, difficilmente riusciremo a prevenire l’innalzamento della temperatura del pianeta oltre 1,5 °C (rispetto al periodo preindustriale). Ora, una volta superato questo limite, è probabile che si attivi un processo di reazione a catena, che porta a un aumento di 2, 3 o più gradi, in una spirale catastrofica. A differenza dei “collassologi”, che proclamano con rassegnato fatalismo che i giochi sono fatti, che il disastro è inevitabile e che tutto quello che possiamo fare è “adattarci”, noi crediamo che si debba combattere per evitare il “collasso”. Come diceva Bertolt Brecht: “Chi lotta rischia di perdere, chi non lotta ha già perso”.
Questa lotta ha un avversario preciso: il sistema capitalista, responsabile della crisi ecologica. Questa osservazione è ampiamente condivisa. Nel suo libro incisivo e ben informato Comme le riches détruisen la planéte, Hervé Kempf presenta, senza eufemismi o finzioni, gli scenari del disastro che si sta preparando: oltre una certa soglia, che rischiamo di raggiungere molto più velocemente del previsto, il sistema climatico potrebbe scaldarsi in modo irreversibile; non si può più escludere un cambiamento improvviso e brusco, che farebbe oscillare la temperatura di parecchi gradi, raggiungendo livelli insopportabili. Di fronte a questa constatazione, confermata dagli scienziati, e condivisa da milioni di cittadini del tutto il mondo consapevoli della tragedia, cosa fanno i potenti, l’oligarchia di miliardari che domina l’economia mondiale? “Il sistema sociale che attualmente governa la società umana, il capitalismo, resiste ciecamente contro i cambiamenti che è indispensabile sperare se vogliamo preservare all’esistenza umana la sua dignità e la sua promessa”. Una classe dirigente predatrice e avida ostacola qualunque desiderio di trasformazione effettiva; quasi tutte le sfere di potere e di influenza sono soggette al suo pseudo-realismo che sostiene che ogni alternativa è impossibile e che l’unica strada immaginabile è quella della “crescita”. Questa oligarchia, ossessionata dalla competizione eccessiva – come ha già mostrato Thorstein Veblen – è indifferente al degrado delle condizioni di vita della maggior parte degli esseri umani e cieca di fronte alla gravità dell’avvelenamento della biosfera.
Come aveva previsto Marx in L’ideologia tedesca, le forze produttive stanno diventando forze distruttive, creando il rischio di distruzione fisica per decine di milioni di esseri umani – uno scenario peggiore degli “olocausti tropicali” del xix secolo, studiati da Mike Davis. Alcuni ambientalisti affermano che il principale fattore responsabile della crisi ecologica è la crescita esponenziale della popolazione mondiale. Rappresentante emblematico di questo neomalthusianesimo, l’autore americano Paul Ehrlich si dichiara, nel suo libro The Population Bomb (1968), a favore di un regime autoritario in grado di imporre un limite drastico alla natalità negli Stati Uniti, così come alle sanzioni economiche contro i paesi che non accetterebbero di adottare a loro volta restrizioni demografiche… Ci sono diverse varianti di questo discorso: alcune assumono la forma di una sorta di ecofascismo, altre, pur respingendo questo tipo di conclusioni politiche, insistono nondimeno sulla demografia come fonte principale dei problemi ecologici.
La risposta a questi argomenti è semplice: i principali responsabili delle emissioni di gas serra e della distruzione ambientale sono i paesi industrializzati del Nord (Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Giappone ecc.) e la Cina; i paesi africani a forte crescita demografica sono invece gli ultimi nella lista degli ecocidi. Studi scientifici dimostrano che i paesi più ricchi (dove la demografia è stagnante) hanno prodotto l’80% di emissioni di CO2 dal 1751, mentre gli ottocento milioni di abitanti dei paesi più poveri sono responsabili solo dell’1%. Ovviamente il pianeta ha dei limiti e non può reggere una crescita illimitata. Ma uno degli effetti del processo di transizione ecologica sarebbe la stabilizzazione demografica, grazie all’eliminazione della povertà, all’educazione sessuale per i giovani e alla generalizzazione del diritto delle donne a disporre del proprio corpo (contraccezione, aborto libero e gratuito ecc.). […]