Descrizione
Paolo Do
L’uso dei saperi
Lavoro, valore e critica dell’accademia
Prefazione di Stefano Harney
Postfazione di Jon Solomon
La conoscenza è diventata risorsa centrale nell’attuale processo produttivo e, allo stesso tempo, una merce che può essere usata, ma non consumata. Infrange il principio di scarsità su cui si regge l’economia politica. In questo scenario, più si cerca di capire il funzionamento dell’università, più ci si addentra in un campo paradossale, spesso oggetto di sbadata esaltazione o di frettoloso discredito. Nel brusio della metamorfosi del lavoro, alla progressiva intellettualizzazione della “fanteria leggera del capitale”, non corrisponde un generale aumento del benessere economico e sociale, ma la sua diminuzione.
L’uso dei saperi riformula le condizioni tanto sociali che epistemologiche dell’educazione e del fare ricerca con la certezza che oggi sia tutto da dire altrimenti, da orchestrare per altri strumenti, da riscrivere. Un libro per battersi contro le immunità intellettuali. Per imparare a essere artigiani del sapere.
“L’università globale che Paolo Do indaga brillantemente in questo libro potrebbe essere definita come l’ultimo e rinnovato impegno dell’università stessa a non mantenere la sua promessa. Ma essa esprime anche, come spiega bene Paolo, una nuova strategia qualitativa, non più basata sull’individuazione o la specializzazione (né sulla forza), ma sulla spazializzazione e la differenziazione su scala espansa” (dalla prefazione di Stefano Harney).
Paolo Do ha un dottorato in Critical Business and Political Economy all’università Queen Mary di Londra. È stato tra i fondatori della Libera Università Metropolitana a Esc atelier autogestito di Roma, del collettivo transnazionale Edu-factory, di Studio Roma e di Studio 14. Tra i suoi lavori: Il tallone del drago, lavoro cognitivo capitale globale e conflitti in Cina (DeriveApprodi, 2010), Università globale. Il nuovo mercato del sapere (manifestolibri, 2008), 7759. Bodies, logistics and labor (Nero, 2016), Cattedrale (Nero, 2017).
RASSEGNA STAMPA
DInamoPress – 29 settembre 2019
Il lavoro dell’università
di Stefano Harney
Da pochi in giorni in libreria, “L’uso dei saperi. Lavoro, valore e critica dell’accademia” di Paolo Do (Ombre Corte edizioni) parla delle trasformazioni dell’università sulla base del principio di individualizzazione e dell’imperativo alla specializzazione. Qui ri-pubblichiamo un estratto della prefazione scritta da Stefano Harney… continua a leggere…
UN ASSAGGIO
Università senz’aura
Imparare, imparare, imparare: queste sono le tre cose che Lenin in un suo celebre articolo pubblicato nel 1923 sulla Prava esortava a fare per definire formule organizzative utili non tanto a trasmettere decisioni già prese, quanto consentire di prenderne sempre di nuove scombinando norme consuete: “Dobbiamo a ogni costo porci il compito, in primo luogo, di imparare; in secondo luogo, di imparare; in terzo luogo, di imparare, e poi di controllare ciò che si è imparato affinché la scienza non rimanga lettera morta o frase alla moda (come da noi, e non v’è nessuna ragione di nasconderlo, accade molto spesso), affinché la scienza diventi realmente carne della nostra carne, sangue del nostro sangue, affinché essa diventi in modo completo e reale parte integrante della nostra vita” (Lenin 2002, p. 446).
Riprendendo tale incoraggiamento, questo lavoro si addentra in quel luogo che è l’università, e che nell’opinione pubblica è considerato privilegiato per la produzione e la trasmissione dei saperi. Questo sebbene oggi sembri quasi impossibile che tra le quattro mura delle sue aule si impari qualcosa. Una crisi che riguarda ogni tentativo formalizzato di insegnare qualcosa a qualcuno, in cui sembrano vivere i processi di istruzione e della formazione tradizionali. Tale fatto ci parla di uno scenario differente della diffusione, trasmissione, accumulazione di saperi sempre più taciti, per vie che diventano sempre più informali. Ciò avviene nel pieno dei processi di mercificazione dell’educazione, dei saperi e della ricerca che rendono irreversibile il mutamento delle nostre istituzioni sociali, politiche e culturali.
Questo è quello che il libro che avete per le mani propone, affrontando il tema di grande complessità dell’educazione all’epoca del neo-liberalismo. Quest’ultima una parola che rappresenta una specifica modalità di intervento politico, una specifica modalità di azione governativa capace di integrare la società nel processo di accumulazione del capitale e mettere a profitto le passioni, i desideri, i talenti e le inclinazioni dei suoi componenti (Dardot e Laval 2013).
Le pagine che seguono cercano da un lato di spiegare le forme della conoscenza a partire dalla relazione conflittuale tra le forze produttive e quelle sociali della produzione, invece che dall’idea di capitale umano. Dall’altro, di chiarire la mercificazione dell’educazione non tanto attraverso la crudeltà del mercato predatorio, ma con il cambiamento nelle forme dello sfruttamento, nelle mutate condizioni dello statuto del lavoro da quando chi ha a che fare con i saperi è sempre più coinvolto nel processo produttivo apportando la propria cultura, le proprie relazioni affettive e sociali, le esperienze al servizio di un lavoro sempre meno formalizzato nei suoi tempi e luoghi.
Questi temi sono affrontati attraverso il metodo della critica dell’economia politica, che permette di scongiurare quelle spiegazioni che indeboliscono il pensiero solo per accasarsi comodamente in tempi nuovi. La critica scioglie la tensione tra il contestare il proprio tempo senza prendervi parte, o il parteciparvi senza contestarlo: è il reagente che accelera la trasformazione dei modi di produzione di una data società, che svela il contrasto tra differenti aspettative degli attori sociali implicati nei rapporti di forza di un’epoca storica. La critica, sempre tra il rischio di essere ignorata e dunque inutile, o recuperata, tra l’essere parzialmente accolta o aggirata e contrastata, è uno dei motori più importanti ed efficaci del cambiamento nel capitalismo contemporaneo che lo obbliga a giustificarsi, a trovare fondamenti di legittimità sociale, a rafforzare i propri dispositivi di giustizia incorporando in sé una parte dei valori in nome dei quali è stato criticato (Boltanski e Chiapello 2014). In questa ambivalenza specifica, la critica dell’economia politica dei saperi è l’esercizio di pensare a una formazione in grado di eccedere la sua valorizzazione economica, lì dove le forme di pensiero riconfigurano profondamente le categorie abituali che determinano il limite tra il pensabile e l’impensabile. Si tratta, anzitutto, di un metodo per promuovere l’esercizio di una formazione dove le aspirazioni e i desideri delle nuove figure produttive appaiano funzioni non dipendenti della crescita e dello sviluppo economico.
Se Karl Marx, nella sua Einleitung, aveva individuato come primo elemento della critica l’astrazione determinata, ovvero la formazione del concetto come attività autonoma, scientifica, indipendente, oggi questo metodo trova nell’inchiesta, nell’etnografia e nella ricerca sul campo gli elementi per misurarsi con il sussulto continuo, fatto di cause e di contraccolpi, di eventi e di emergenze inaspettate che caratterizzano il presente (Negri 2003). La critica ha bisogno anzitutto di un luogo, così come serve un luogo per dire di no: è nei campus delle università di Hong Kong, Londra, Parigi, Pechino, Roma, Shanghai e Singapore che questa inchiesta ha preso avvio con gli studenti, le studentesse, i ricercatori e le ricercatrici dalle cui conversazioni sono seguiti gli appunti in cui il lettore è condotto come a zig zag, dove al commento seguono accelerazioni, solchi che danno conto della connessione che intercorre tra il tempo dell’esperienza vissuta e la sua scrittura.