Immagini che vivono

 10.00

Viviana Vacca

pp. 118
Anno 2022 (aprile)
ISBN 9788869482175

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Descrizione

Viviana Vacca
Immagini che vivono
Politica e fotografia in Tano D’Amico

Che cosa pretendono, da noi, le immagini? Il capovolgimento rappresentato da questa domanda ci pone di fronte ad alcune questioni nevralgiche riguardanti i rapporti tra il mondo contemporaneo e le immagini artistiche: la presa di posizione politica delle immagini, la specificità dell’immagine fotografica, le immagini come operatrici di dignità, il fotografo che, alla pari di antichi indovini, è in grado di scoprire e rivelare colpe e colpevoli.
In dialogo con numerosi riferimenti teorici importanti – da Benjamin a Barthes, da Deleuze a Georges Didi Huberman – la portata innovativa della straordinaria esperienza artistica di Tano D’Amico acquista il risalto che merita in direzione di una presa di posizione teorica di maggior respiro rispetto alla storia delle immagini del contemporaneo. Le singolarità emergenti grazie allo sguardo del fotografo – i volti, i gesti delle donne, dei bambini, dei lavoratori e dei poveri in quanto corpi nelle lotte sociali – permettono alle immagini di vivere, e non soltanto di sopravvivere. Le belle immagini, quelle che vivono, sono, per Tano D’Amico, immagini astratte e liberate dalla funzione ancillare nei confronti delle parole, affermando gioiosamente la propria autonomia: immagini fatte della stessa materia di cui sono fatte le rivolte che non hanno bisogno di nessuna didascalia.

Viviana Vacca si occupa, in particolare, dei rapporti tra immagini, filosofia e pensiero francese contemporaneo. Tra le sue ultime pubblicazioni: Sulle labbra del tempo. Area tra musica, gesti, immagini (con Diego Protani, LFA, 2019) e la cura (con Alfonso Amendola e Francesco Demitry) di L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud (ombre corte, 2018).

RASSEGNA STAMPA

“il manifesto” – 3 dicembre 2022

Tano D’Amico, un fotografo ribelle alla miseria delle cose
SCAFFALE. «Immagini che vivono», di Viviana Vacca edito da ombre corte
di Giovanna Ferrara

«La verità non è mai nei verbali della polizia, nelle sentenze dei tribunali. La verità bisogna farla. Non è qualcosa che esiste e che le macchine fedelmente riportano. La verità è una creazione dell’uomo, la più bella forse, ma in natura non esiste. È l’uomo che la farà vedere mettendo insieme le cose, mostrando il contesto. Una macchina questo non lo potrà mai fare, la verità è un insieme di ricerche, una ricerca che non finisce mai che l’umanità può fare».
Sembrano la fine di una cena, queste parole di Tano d’Amico, poste a conclusione del libro Immagini che vivono. Politica e fotografia in Tano d’Amico della filosofa Viviana Vacca (per la sezione Cartografie, ombre corte, pp. 118, euro 10). Una cena con commensali vari, l’estetica, l’immagine come categoria e quella come poetica, Benjamin e Barthes, Deleuze e Didi Huberman, la politica e la libertà, un film di Anghelopulos, il dolore e la speranza.
SCRITTURA DENSA e partecipata quella di Viviana Vacca che interroga lo stupore provato davanti alle foto commosse che hanno raccontato «non i movimenti, ma il movimento». Nello specifico quello ineffabile del desiderio, nel quale svolgere il possibile della nostra potenza di uomini, immortalato nella sua inidonea fissità dagli scatti iconici di D’Amico.
È come se Tano D’Amico fosse il fotografo del quid che avvia la macchina insorgente. L’ineffabile, mistico, guizzo che prende l’oggetto ritratto e lo fa ribellare alla predefinita condizione di passività e, per dispetto, lo fa tramutare in soggetto della storia. Come se l’argomento fosse sempre quel rifiuto del potere all’ombra del quale fruttificano gli alberi della disobbedienza e quelli della lotta. La ribellione alla miseria delle cose è, dunque, il mestiere di D’Amico, che, non a caso, Vacca accosta, nel flusso della sua poderosa e puntuale ricerca, a quella definizione che diede Volontè della sua attività, non attore ma «operatore di dignità».
IL LIBRO TRATTEGGIA così una ritrattistica del politico fotografico dalla quale emerge la riflessione polifonica sul tempo e la morte, materia alchemica della dagherrotipia, tra le provocanti definizioni di Susan Sontag (la fotografia come omicidio senza spargimento di sangue) e le balenanti folgorazioni di Maurice Blanchot, chiamato, con le sue parole, a riabitare l’istante del fotografico («era forse d’improvviso invincibile. Invincibile perché totalmente vinto, esposto, perduto. Morto immortale»). E interroga quell’intreccio tra l’aria e l’aura, lo scarto indicibile tra luce chiara e ombre profonde, quel rifiuto della narrazione finita e dell’apertura all’atlante delle sensazioni, quello che non si vede, quello che si evoca, quello che manca. Il disordine del mondo, il tumulto, quella cosa che, ci ricorda Gianfranco Manfredi, «ma chi l’ha detto che non c’è». Quello che ci mette in moto, come comunità vitale, verso un posto sentimentale che, se è stato fotografato, vuol dire, che non può essere stato solo sognato.

UN ASSAGGIO

Indice

7 Introduzione

11 Capitolo primo. Movimenti, volti, affetti: Tano D’Amico e le politiche dell’immagine

1. Autonomia delle immagini; 2. Poveri fiori crudeli: destino e verità delle immagini

25 Capitolo secondo. Politiche dell’immagine e politiche dei corpi

1. Un po’ di compassione: immagine e misericordia; 2. Il tradimento di Charcot: immagine, corpi, potere; 3. Il momento in cui le immagini prendono posizione

49 Capitolo terzo. Atlanti, tempi, immagini

1. Immagine, verità, memoria; 2. Strutture che connettono; 3. Atlanti contemporanei: la salvezza delle immagini

67 Capitolo quarto. Immagine, corpo, memoria: un album di famiglia

1. Il Giardino d’Inverno: immagine e unicità; 2. Aria e Aura: immagine fotografica e riproducibilità tecnica

77 Capitolo quinto. Il viaggio ad Atene

1. Immagini che devono vivere; 2. Quello che non si vede non esiste:passato e visione; 3. Viaggio nel tempo della testimonianza: immagine e storia; 4. Ritardo, dimora, testimonianza; 5. Credere al mondo: rappresentazione, immagini, potere

111 Della bellezza e del vero
Una conversazione con Tano D’Amico


 

Introduzione

Nella fuga incessante e disperata di quel settembre del 1940, in una borsa nera di cuoio in cui l’ultimo manoscritto ruba lo spazio alla morfina, Portbou è la soglia, il passaggio ultimo alla frontiera franco spagnola del profugo Walter Benjamin. Privato ormai della nazionalità tedesca dal 1939, perduta per sempre l’abitazione parigina, Benjamin accetta, con i suoi compagni di fuga, di raggiungere la frontiera. Ma quel giorno la Spagna chiude il suo confine e il piccolo gruppo di profughi deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, scrive un’ultima lettera indirizzata ad Adorno: “In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita”. Poco dopo ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano. La storia di Walter Benjamin è una delle apparizioni, delle immagini, dei fantasmi che abitano questo testo: questi spettri, questi revenant come condizioni di possibilità della memoria – e del futuro – secondo la fascinosa quanto fondamentale citazione dal Derrida di Spettri di Marx. La riflessione sulle immagini ha un posto privilegiato nei vari comparti disciplinari, spesso caratterizzati dalla divisione e dalla separazione. È a partire dalla seconda metà del xx secolo che numerosi studiosi e, soprattutto, numerosi creatori di immagini – cineasti, fotografi, pittori, musicisti – ne hanno sottolineato l’autonomia come baluardo necessario per resistere al potere invischiante delle parole. Un potere quello della lingua – scritta, parlata – che si è esteso a livello culturale, sociale, istituzionale: la parola è la didascalia di ogni immagine che altrimenti, da sola, non potrebbe parlare. Le parole, il sistema della lingua sono necessari perché forniscono informazioni che gli occhi non sanno vedere, denotano e connotano, ci permettono di comprendere e di capire. Le parole insieme alle immagini – da intendere non in senso addizionale – non concorrerebbero a un’alleanza solidale: queste ultime, spesso, hanno ruolo ancillare perché è costitutiva la loro natura carente, difettosa, parziale. Una critica delle politiche dell’immagine, nel contemporaneo, non può prescindere quindi dalla legittimazione di una completa autonomia in quanto caratterizzate da una particolare e specifica forma di conoscenza. Le immagini sono autonome, sono vive, hanno vita propria. Tale aspetto emerge con forza nella pratica artistica e nella riflessione teorica di Tano D’Amico. La sua centralità come innovatore e teorico della fotografia non è mai abbastanza sottolineata ma piuttosto appiattita e dimenticata nelle definizioni chiuse e fuorvianti dell’ambito della fotografia sociale. Tano D’Amico ha forzato i limiti di un preciso campo mediale rinnovandone, dall’interno, le tecniche e le funzioni nello sforzo di un desiderio di dignità rappresentato dalle immagini in quanto precisi atti creativi e atti di resistenza politica. Riconoscere al fotografo siciliano le varie etichette di fotografo di strada, fotografo dei movimenti e delle piazze acquistano un nuovo significato se ricondotte anch’esse nella tensione partecipativa al nuovo modo in cui i corpi, nel corso delle lotte sociali si sono assembrati e incontrati, per la costruzione comune. Non si può parlare di una fotografia politica come genere specifico, in altri termini. Le definizioni, a riguardo, fanno parte di ciò che è scontato, che già conosciamo e che non smettiamo di ricordare. Va ribadita l’impossibilità di dimenticar ogni singola immagine di Tano D’Amico, ogni fotografia come presa di posizione politica che coincide con l’accadere, l’evento di ogni immagine. Una presa diretta nella realtà e insieme una costruzione comune. In tal senso, è un creatore di immagini viventi, nate a partire dall’insoddisfazione dei vinti, dei senza voce, dei miseri per la sopravvivenza e, dunque, autonomamente in grado di dialogare con le altre immagini del contemporaneo. Per tale motivo, una riflessione intorno alle politiche dell’immagine intende promuovere il dialogo, l’incontro tra le immagini e le riflessioni su queste ultime, così come con le critiche e le cliniche – secondo quanto diceva Deleuze – atte a seguirne i movimenti, individuarne le punte di emergente non ordinarietà, le rotture, le collisioni. La novità rappresentata dalla ricerca di Tano D’Amico è da ricondurre non soltanto ad una politica delle immagini intesa come militanza iconica – nella difesa di queste ultime, nelle lotte delle immagini – ma anche alla costruzione estetica di un’ottica precisa, nell’uso del bianco e nero come nella rivendicazione dell’utilizzo della macchina fotografica a telemetro. Le fotografie di Tano D’Amico – non da ultimo, quella della ragazza con, alle spalle, un cartello con la scritta “Prima i poveri”, quasi un omaggio alla pedagogia godardiana della visione – sono immagini politiche che mettono costantemente in discussione l’abitudinarietà dei nostri sguardi. Immagini che non si possono controllare perché tali sono le immagini belle: sfuggono, non sono mai rinchiuse in una mostra o in un catalogo per l’ultima volta, stanno già vivendo altrove. Di vita propria.