Descrizione
Pierfranco Pellizzetti
Il conflitto populista
Potere e contropotere alla fine del secolo americano
Se l’irradiamento economico, politico, culturale e mediatico da parte del mondo anglosassone, epicentro dell’ordine novecentesco tuttora vigente, presenta indiscutibili segni di esaurimento con effetti imbarbarenti, cresce la messa in campo di strumenti difensivi da parte della plutocrazia minacciata dalle insorgenze indignate; sotto forma di marchingegni comunicativi, che bollano come “populismo” il semplice rifiuto della finanziarizzazione del mondo, e la trasformazione del sistema democratico in Post-democrazia, avviata a diventare “Democratura” (il guscio vuoto di pratiche formali al servizio del nuovo autoritarismo). Siamo alla fine di una fase storica dell’economia-Mondo o piuttosto dell’ordine capitalistico complessivamente inteso? In questo scenario di decadenza, le strategie di contrasto emergono nelle aree alla periferia dei Quartieri Generali e nelle città ribelli alla centralizzazione del Potere. I luoghi dove il conflitto per la democrazia riprende vigore riflettendo sul nuovo soggetto antagonista, che può nascere dall’aggregazione di interessi convergenti (lavorativi, ambientalisti, di genere, ecc.) nel comune interesse alla riappropriazione di futuro. L’invenzione del popolo.
Pierfranco Pellizzetti, già docente di Sociologia dei Fenomeni Politici e Politiche globali all’Università di Genova, attualmente insegna “Comunicazione” alla Scuola Politecnica. Collabora a “MicroMega” dal 1996 e a “Critica Liberale” dal 1976. Tra le sue numerose pubblicazioni: Italia invertebrata (Mimesis, 2017), Società o barbarie (il Saggiatore, 2015), Conflitto (Codice, 2013) e Fenomenologia di Berlusconi (manifestolibri, 2009).
UN ASSAGGIO
1. Lettere da un mondo alla fine
Roma, ti dico addio/,Unica che abbia mai chiamato madre. /…./ I Penati prima della partenza bacio e/ Lacrime verso, allontanandomi dalla casa./ Immenso il dolore di tornare in Gallia, che/ O, tu sai, Rutilio, non sarà mai Roma.
Claudio Rutilio Namaziano
Scrutando decadenza e caduta di una civiltà
In tarda età welfariana nessuno si indignò quando una donnetta di nome Margaret Thatcher – insignificante, seppure protervamente posseduta da barbariche pulsioni iconoclaste – ripeteva pappagallescamente il mantra “la società non esiste”; rigurgito enfatico delle pappette cucinate dal consulente aziendale allora di moda Peter Drucker (“non più salvezza da parte della società”). Mancata reazione quale segno palese che l’ordine più generoso mai esperito fino ad oggi dal consorzio civile nella sua storia millenaria, aveva ormai imboccato inesorabilmente la via del declino.
Iniziò così una devastazione del paesaggio umano di cui ora possiamo registrare compiutamente i tragici effetti, avendo ancora ben vivo il ricordo di quanto è andato perduto: un assetto tendenzialmente benevolo perché inclusivo che, nonostante carenze e non poche ipocrisie, inefficienze e criteri gerarchici ingiusti mantenuti astutamente sottotraccia, il limite imbarazzante di essere circoscritto a una parte sostanzialmente esigua della società mondiale (e a ragioni di scambio inique, riassunte nei due dollari di costo del barile di petrolio saudita per tutto il periodo che va dal 1950 al 1973), ciò nonostante assicurava effettiva credibilità alla promessa di orizzonti futuri vocati a costante miglioramento.
Il punto d’avvio di un viaggio a ritroso nella nuova barbarie.
A distanza di quasi due millenni ci si ritrova, così, a compiere qualcosa di analogo al cammino biografico/letterario, dichiaratamente nostalgico (come quello di Ausonio un secolo prima, in navigazione sulla Mosella verso la patria Burdigalia – Bordeaux), intrapreso da Claudio Rutilio Namaziano; forse l’ultimo vero poeta latino: altro gallo-romano del v secolo autore di un resoconto poetico sulla via del ritorno verso casa, che lasciando Roma ne contempla l’avanzante degrado; mentre la corrosione condanna al crollo le colonne portanti della sua civiltà: il De Reditu suo (Il Ritorno), componimento in distici elegiaci sull’itinerario dell’autore, uomo politico romano originario della Gallia Narbonense e prefetto dell’Urbe in fine carriera, che abbandona la città devastata dai Goti per fare ritorno ai suoi possedimenti nella natia Tolosa. Un componimento che ci è giunto incompleto: l’opera si interrompe al sessantottesimo verso del Secondo Libro, con l’arrivo del protagonista a Luni; anche se, recentemente, è stato ritrovato un breve frammento aggiuntivo, che descrive la continuazione del viaggio fino ad Albenga.
Ritorno il cui avvio risale all’agosto del 410, quando i guerrieri di Alarico saccheggiarono Roma dopo averla espugnata. Evento di epocale risonanza, che diffuse tra i contemporanei atterriti lo stato d’animo sintetizzato nell’accorato commento di San Girolamo “che cosa mai si potrà salvare, se perisce Roma?”.
Lo stessa condizione spirituale di Namaziano – tra l’amara nostalgia di quello che è stato e lo smarrimento per la perdita avvenuta (e in corso) – con cui ora si inizia su queste pagine il nuovo viaggio nell’imbarbarimento; compiuto con la speranza che la storia questa volta ci riservi esiti diversi. I secoli bui non siano ancora una volta lo sbocco inevitabile.
Ma “sbocco inevitabile” di che cosa?
In effetti, proseguendo nella simmetria tra passato e presente, l’espressione “imbarbarimento” ha significato sempre una catastrofe determinata da irruzioni esterne. Il concetto di “invasione”, utilizzato soprattutto dalla storiografia italiana e francese, “migrazione di popoli” secondo gli storici tedeschi dell’Ottocento. Letture diverse, ma con in comune l’assunto che fossero stati i barbari invasori/migratori ad aver provocato la rovina di Roma. Tuttavia – come ci hanno spiegato anche i recenti studi di un giovane antichista – nemmeno la succitata conclusione può considerarsi un punto fermo definitivo nel dibattito storico-scientifico, dal momento che varie ricerche giungono a imputare la fine dell’impero d’Occidente non a fattori esterni, ma alle tensioni interne di carattere politico, culturale e socio-economico
Allo stesso modo, mentre sindromi cospirative e deliberate “politiche della paura”, messe in campo da establishment allo sbando, alimentano l’attuale psicosi da minaccia che viene da fuori, diffondono la rappresentazione ansiogena di un sistema-mondo occidentale che cede sotto l’incalzare aggressivo di fattori esogeni, si tende a non voler vedere il lavorio di contraddizioni endogene impegnate indefessamente nel prosciugamento delle ragioni vitali di un mondo che nel suo passato innalzò lo stendardo della ragione illuministica; declinata come giustizia e libertà.
Sicché, per darsi un senso, il nuovo viaggio nelle plaghe imbarbarite deve tenere conto tanto delle sfide di competitori potenti (le periferie che, a vario titolo, contestano i vigenti criteri distributivi del potere) come di un gravissimo smarrimento dei principi fondativi e dei valori che vivificavano gli assetti ora claudicanti per l’esaurirsi della spinta interiore, ideale come materiale. Nell’addensarsi di un clima plumbeo che sconta come ineluttabile l’avvento dell’oscurantismo prossimo futuro