Descrizione
Christian Marazzi
Il comunismo del capitale
Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale
La crisi non è finita. Dopo la virulenta esplosione dell’ennesima bolla finanziaria, scatenata dai titoli suprime e seguita dagli interventi statali di salvataggio di banche, assicurazioni, istituti finanziari e interi settori industriali, si è passati alla cosiddetta crisi del “debito sovrano”, che segna la definitiva entrata dei mercati finanziari nella gestione del debito pubblico. Lo scenario che scorre davanti ai nostri occhi rimanda a una sorta di “comunismo del capitale”, in cui lo Stato, assecondando i bisogni dei “soviet finanziari”, impone la dittatura del mercato sulla società. Non ci troviamo però di fronte a una svolta improvvisa quanto agli esiti di un ciclo storico in cui le trasformazioni dei processi produttivi, iniziate con la crisi del modello fordista, hanno mutato alla radice le basi della creazione del valore e della ricchezza.
La finanziarizzazione e le sue crisi cicliche vanno dunque interpretate alla luce delle biopolitiche del lavoro, delle strategie produttive postfordiste in cui, accanto ai saperi e alle competenze cognitive incarnate nei corpi vivi, è la vita stessa che viene messa al lavoro: linguaggio, affetti, emozioni, capacità relazionali e comunicative, concorrono tutti alla creazione del valore.
I testi raccolti in questo volume analizzano in tempo reale le trasformazioni economiche degli ultimi dieci anni a partire dall’ipotesi che la finanziarizzazione non sia una deviazione parassitaria del capitalismo ma la forma adeguata e perversa del suo nuovo regime di accumulazione. Contro ogni lettura semplicistica o moralista della crisi, gli sconvolgimenti del presente sono letti alla luce dell’inaggirabile nesso, spesso rimosso, che lega l’accumulazione capitalistica alla finanziarizzazione, ossia alla crescente centralità dei mercati borsistici nel capitalismo contemporaneo che, a partire dal crack bancario del 2008, sembra entrato in una fase di lunga stagnazione, di instabilità geopolitica e monetaria, i cui esiti appaiono imprevedibili.
Christian Marazzi, economista, è professore e responsabile della ricerca sociale alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. È autore di numerosi saggi sulle trasformazioni del modo di produzione postfordista e sui processi di finanziarizzazione, tra i quali: Il posto dei calzini (Casagrande-Bollati Boringhieri 1999), E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998), Capitale e linguaggio. Ciclo e crisi della new economy (DeriveApprodi, 2002) e Finanza bruciata (Casagrande, 2009).
RASSEGNA STAMPA
il manifesto – 5 novembre 2010
Il potere alienato dalla folla
di Toni Negri
La raccolta di saggi “Il comunismo del capitale” di Christian Marazzi* ripercorre le trasformazione del capitalismo contemporaneo dove la finanza è diventata strumento di governo dello sviluppo economico. La dismissione del welfare state e la precarietà dei rapporti di lavoro risultano, così, due momenti della appropriazione privata del “comune”. Il libro dell’economista di origine svizzera non si limita, però, a una rassegna dei cambiamenti avvenuti, ma si pone l’obiettivo di fornire strumenti per la trasformazione.
Sono stati scritti in un decennio, questi saggi di Christian Marazzi raccolti nel volume Il comunismo del capitale (Ombre corte, pp. 160, euro 23). Hanno il buon sapore che si sentiva nel bel volume che ha reso questo economista di origine svizzere abbastanza noto in Europa e negli Usa: Il posto dei calzini (pubblicato dalla casa editrice Casagrande nella Svizzera italiana e ripreso poi da Bollati Boringhieri). Lì, per la prima volta, il postindustriale era coniugato con la sovversione femminista ed il postmoderno trovava non una voce debole o molle per dichiararsi (come ci avevano abituato i suoi fondatori) ma mostrava i muscoli della rivoluzione sociale. Leggo qui con voi le prime due parti di questo libro: la prima, “Biocapitalismo e finanziarizzazione” e la seconda, “Il lavoro nel linguaggio”. Parto da una questione posta da Marazzi che sembra, a prima vista, bizzarra e mi chiedo con lui: perché i manager sono spesso dislessici? Perché – risponde Christian -se la difficoltà di focalizzare e decodificare i fonemi sviluppa nei dislessici, in generale, la capacità di vedere o percepire molto rapidamente il quadro d’assieme, il contesto nel quale si trovano ad operare i manager trasforma la condizione di dislettica nella facoltà di alterare e creare percezioni, organizza un’estrema consapevolezza dell’ambiente nel quale sono immersi. Pensiero ed intuito si applicano insieme su scene multi-dimensionali e qui esprimono potenza e creatività.
Quando Marazzi ci racconta queste avventure che capita ai manager di vivere, non lo fa proprio per riconoscere loro qualche dono sublime, per definirli come geni romantici – lo fa piuttosto per scavare, attraverso quella specifica competenza imprenditoriale, le caratteristiche della produzione postindustriale e la dinamica linguistica della nuova economia. Economia digitale e sociale, economia immateriale e cooperativa. La tesi è precisa: la nuova economia non conosce più quella delega tecnologica che costituiva il perno della divisione del lavoro nell’economia industriale (attraverso le macchine gli operai erano massicciamente delegati alla produzione); neppure conosce una struttura lineare, liscia e continua. Al contrario: in un ambiente arredato da tecnologie multimediali, dove è mobilitata l’attività vitale di tutti gli organi del corpo umano, ivi predomina una divisione cognitiva del lavoro e tecnologie discrete tendono a sostituire le vecchie tecnologie accumulative dell’industria fordista.
La potenza del dislessico
Il dislessico non può che trovarsi bene in questo ambiente. Non solo manager ma anche semplice operatore linguistico. La discontinuità dislessica diviene inventiva. Il processo industriale non procede più attraverso innovazione (quantitativa, dialettica, schumpeteriana) ma attraverso convenzioni sociali nutrite da connessioni di conoscenze e di affetti, da invenzioni vere e proprie, che interiorizzano l’intero insieme delle condizioni sociali al processo produttivo. “Ciò dipende più dall’immaginazione che dalla logica, più dalla poesia e dall’umore che dalla matematica”. (Non sarà dislessico anche Marazzi? Ed anche noi non vorremmo esserlo? È chiaro che sì.). Tuttavia quel capitalismo che imprigiona il linguaggio e fa di questo la sua materia prima, trova in questo anche il suo limite. “Nel capitalismo dislessico la potenza creativa dell’agire umano si affranca dalle condizioni poste dalla logica lineare dell’economia di mercato. La crisi rivela questo suo interno divenire, l’alternarsi “delirante” tra creatività multi-sensoriale e ordine economico disciplinare”. È così che avanziamo nella conoscenza del capitalismo contemporaneo. Capitalismo di crisi -è evidente: perché esso regola una materia vivente, perché pretende di eccitare all’invenzione produttiva dispositivi di soggettività che deve, al tempo stesso, controllare. Conseguentemente “l’impresa irresponsabile è la forma del comando capitalistico su una cooperazione sociale che, per manifestarsi come attività tesa all’innovazione e allo sviluppo economico, tanto dev’essere libera, ma altrettanto dev’essere piegata nel rapporto sociale di produzione”.
Ma il capitale non è solo mascalzone (e neppure lo sono semplicemente gli imprenditori). È chiaro che nel postindustriale e nei regimi economici dove la valorizzazione è estorta alla forza lavoro intellettuale, sociale e cooperante, la legge del valore non funziona più nella stessa maniera di prima -poiché la misura della produttività sociale (cioè la funzione di controllo dello sviluppo ed eventualmente della crisi) deve esser comunque determinata. La finanziarizzazione dei processi economici risponde a questo scopo. Non deve dunque esser vista come una perversione speculativa e neppure come una semplice prolungazione delle forme classiche del capitale finanziario (alla Hilferding) -questa finanziarizzazione non sta fuori ma dentro la produzione sociale.
La fusione tra salario e reddito
In conseguenza di questa interiorità, il capitale finanziario rappresenta la fusione dell’insieme delle funzioni della moneta: la tradizionale distinzione tra salario diretto e salario socializzato, fra salario e reddito è in via di estinzione. Smettiamola di piagnucolare sulla distanza dell’economia finanziaria da quella reale! Se la comunicazione, il linguaggio e la cooperazione intersoggettiva stanno al centro dei processi di valorizzazione del capitale, questa interiorità è divenuta la forza del capitale. Ma è divenuta anche la sorgente di ogni sua crisi – è lì, nella contradizione fra linguaggio come bene comune e la sua appropriazione privata. “La new economy rivela la crisi di commensurabilità che è stata la chiave del suo stesso successo. (…) I mercati finanziari hanno assunto un ruolo che in passato aspettava allo Stato keynesiano, quello della creazione della domanda effettiva indispensabile per assicurare la continuità della crescita. Lo spostamento del risparmio dal debito pubblico ai mercati borsistici (…) ha dato origine alla prima quotazione del general intellect”.
Quando il dominio capitalistico investe la vita e quando la finanziarizzazione si rivela come un vero e proprio campo di esercizio del biopotere, quando il capitale si appropria non più solamente dei mezzi di produzione ma di una forza lavoro disgregata e delle sue forme di vita, che cosa avviene allora? Quale sarà, in queste condizioni, il nuovo comune dei lavoratori? Una riappropriazione comune di tutto ciò che è privato? Una democrazia come forma di vita -sociale ed economica, linguistica e politica?
Un vademecum per colpire i rentier del comune
di Carlo Vercellone
Il comunismo del capitale è uno dei migliori saggi usciti sulla crisi globale del capitalismo contemporaneo. Al tempo stesso in modo preciso e pedagogico, Marazzi* spiega il lessico e la grammatica della finanziarizzazione e, saggio dopo saggio, guida il lettore nella ricostruzione dei meccanismi che hanno condotto dallo scoppio della bolla della new-economy a quella dei subprime. Ne risulta un’analisi acuta del carattere strutturale della crisi e delle tendenze deflazionistiche che condannano i paesi dell’Ocse a una lunga fase di stagnazione e d’instabilità sociale, geo-politica e monetaria. Nel quadro di questa recensione, vorrei insistere su due aspetti particolarmente stimolanti della lettura della crisi proposta da Marazzi: il suo senso e la sua posta in gioco. Il primo aspetto parte dal rovesciamento del presupposto comune alla grande maggioranza delle interpretazioni della crisi secondo cui la sua origine si troverebbe nella crescita abnorme del potere autonomo della finanza. La finanza, insomma, come una forza esogena, avrebbe preso in ostaggio il “buon capitale produttivo” dell’epoca fordista e soffocato l’economia reale imponendo le sue norme di rendimento e una drastica compressione dei salari. Marazzi rifiuta tale visione fondata sull’ipotesi di una dicotomia tra economia finanziaria e reale cosiccome di un conflitto tra le differenti frazioni del capitale. Per Marazzi è nella metamorfosi che la crisi del fordismo e lo sviluppo di una economia fondata sulla conoscenza ha indotto nei meccanismi d’estrazione e di realizzazione del plusvalore che bisogna cercare le origini del processo di finanziarizzazione e le sue caratteristiche completamente inedite: in particolare la sua natura né ciclica, né circoscritta ma strutturale, pervasiva e consustanziale a una nuova logica dell’accumulazione che ingloba l’insieme delle componenti del capitale. Due punti della dimostrazione di Marazzi sono a questo proposito essenziali. La finanza é ormai plasmata sull’insieme del processo di produzione e di consumo, penetrando, come per l’utilizzo della carta di credito, in ogni singolo atto della nostra vita quotidiana. Il capitale cosiddetto produttivo, lungi dal subirlo, é stato uno degli attori del processo di finanziarizzazione in quanto modalità adeguata del controllo e dello sfruttamento di un’economia fondata sul ruolo motore del sapere e la sua diffusione. L’espropriazione del comune. Nel nuovo capitalismo, la finanza non è infatti che la manifestazione principale di una moltiplicazione delle forme rentières d’accumulazione, e più precisamente, di quanto si può chiamare “il divenire rendita del profitto”. In altri termini, il capitale tende sempre più a catturare il valore a partire dall’esterno del processo di produzione, senza più giocare alcun ruolo positivo nell’organizzazione del lavoro e nello sviluppo delle forze produttive. Questa evoluzione si manifesta attraverso due modalità principali che Marazzi illustra con molteplici esempi. Da un lato, è sempre più al di fuori delle frontiere delle imprese che il capitale ricerca le conoscenze e le competenze necessarie alla propria valorizzazzione, come attesta anche il ricorso massivo alle strategie manageriali di “crowdsourcing, ossia di messa a valore della folla (crowd) e delle sue forme di vita”. Ne consegue un formidabile innalzamento del tempo di lavoro non retribuito che contribuisce a spiegare il mistero della “crescita dei profitti senza accumulazione di capitale” che ha preceduto e in parte determinato la crisi. Dall’altro, che si tratti della finanza, dei diritti di proprietà intellettuale o ancora della privatizzazione del Welfare, l’estensione della proprietà privata e della logica della merce comporta ormai la creazione di una scarsità artificiale di risorse e si traduce in un freno al processo di circolazione e di produzione di conoscenza. In questo senso, la crisi, al di là dei meccanismi congiunturali e strettamente finanziari che l’hanno innescata, ha un carattere sistemico. Essa esprime la contraddizione strutturale che oppone il nuovo capitalismo, cognitivo e finanziarizzato, e le condizioni sociali e istituzionali della produzione del comune proprie a un’economia fondata sulla conoscenza. La rendita è insomma il modo di espropriazione del comune. Con questo concetto si deve intendere non solo la moltiplicazione dei beni informazionali e conoscenza, non rivali, non esclusivi e quindi teoricamente disponibili in quantità illimitata. Si deve intendere anche e soprattutto l’egemonia tendenziale del lavoro immateriale e cognitivo che va di pari passo con una “crescente perdita di importanza strategica del capitale fisso e il trasferimento di una serie di funzioni produttive-strumentali nel corpo vivo della forza-lavoro”. Abbiamo qui, come mostra Marazzi, le fondamenta di un nuovo modo di produzione che punta al di là del capitale. Esso trova la sua figura emblematica nel “modello antropogenetico” dove la produzione di merci a mezzo di merci cede il passo a quella della produzione dell’uomo mediante l’uomo secondo una logica dominante nei servizi del Welfare (salute, educazione, ecc.) e che in gran parte sfugge alla razionalità economica del capitale. Su queste basi, un secondo aspetto centrale dell’analisi di Marazzi è di invitarci a riflettere sulle condizioni di un processo di uscita dalla crisi capace di superare i termini della tradizionale alternativa tra Stato e mercato, ossia della scelta tra l’assoggettamento alla dittatura delle finanza e la nostalgia socialista di uno stato-piano dirigista in cui il pubblico si pone come la negazione del comune. La questione che qui si pone può essere formulata nei termini seguenti : come pensare, – non abbiamo paura delle parole – una pianificazione decentralizzata del comune che salvaguardi al tempo stesso le caratteristiche della democrazia radicale propria a quest’ultimo? Per abbozzare una risposta a questa domanda, l’analisi di Marazzi ci offre alcuni spunti fondamentali: l’incontro tra intellettualità di massa e tecnologie digitali apre possibilità inedite di coordinazione della produzione e dei bisogni su una scala non solo locale ma globale; la risocializzazione della moneta e la sua messa al servizio di un piano di rilancio fondato sulle produzioni dell’uomo mediante l’uomo e la riappropriazione democratica delle istituzioni del Welfare; l’instaurazione di un reddito garantito. Potrei continuare. Ma mi fermo qui ricordando il monito con cui Marazzi conclude l’introduzione al suo libro: “il primo passo per costruire nuovi paradigmi alternativi, nuove forme di governo del comune, è tutto soggettivo. Qui non ci sono ricette predefinite, c’è solo la dura consapevolezza che qualsiasi futuro dipende da noi”.
UN ASSAGGIO
Indice
9 INTRODUZIONE
PARTE PRIMA – BIOCAPITALISMO E FINANZIARIZZAZIONE
29 La democrazia in America. Finanziarizzazione e comunismo del capitale
37 Il valore corrente di una democrazia a sovranità limitata 42 Individui sociali nella rete del comando
45 Il gran burattinaio del mercato
49 Socialismo del capitale
PARTE SECONDA – IL LAVORO DEL LINGUAGGIO
63 Le azioni del linguaggio 69 Ricerca & Finanza
87 La dislessia del manager
109 Le cattive azioni dell’irresponsabilità
PARTE TERZA – GENEALOGIA E ATTUALITÀ DELLA CRISI GLOBALE
115 L’economia politica della menzogna
121 L’universo della formazione: diario di un economista 136 Inchieste, resistenze: diario di un economista
141 La prossima volta, il mercato
149 La violenza del capitalismo finanziario
182 La chimera del governo globale
PARTE QUARTA – LA RIAPPROPRIAZIONE DELLA RENDITA SOCIALE
189 Nell’era della sicurezza sociale globale 201 L’ammortamento del corpo macchina
224 Bioreddito e risocializzazione della moneta
APPENDICE
231 La moneta nella crisi mondiale.
La nuova base del potere capitalistico
Introduzione
I testi raccolti in questo volume sono stati scritti nel corso degli ultimi dieci anni, grosso modo tra la crisi della new economy e quella dei mutui subprime. Il filo rosso che lega l’insieme degli interventi è il rapporto tra cambiamenti dei modi di produzione, welfa- re state e finanza, vale a dire il nesso che lega l’accumulazione ca- pitalistica alla finanziarizzazione, quel processo di crescente cen- tralità dei mercati borsistici nel capitalismo contemporaneo che, a partire dalla crisi bancaria del 2008, sembra entrato in una lunga fase di stagnazione, di instabilità geopolitica e monetaria e, soprattutto, di disoccupazione e povertà. In appendice si trova un articolo del 1977 sul denaro nella crisi mondiale che rende conto di un percorso di analisi critica delle trasformazioni del capitalismo iniziato con la crisi fiscale di New York del 1975-76, del ruolo svolto dai fondi pensione nei processi di finanziarizzazione e di governance dell’economia e della ridefinizione del sistema monetario internazionale dopo il crollo degli accordi di Bretton Woods.
Dal fallimento della Lehman Brothers, nell’autunno del 2008, al vertice del G20 a Toronto nel giugno del 2010, la crisi del capitalismo finanziario si è approfondita e notevolmente complicata. In due anni si è passati dagli interventi statali di salvataggio di banche, assicurazioni, istituti finanziari e interi settori industriali, alla co- siddetta crisi del debito sovrano. Quest’ultima è il risultato della presa a carico da parte degli Stati del salvataggio delle banche, della defiscalizzazione massiccia del capitale e degli alti redditi degli ultimi quindici anni, della riduzione delle entrate fiscali tipica dei periodi recessivi, dell’aumento delle spese legate agli ammortizzatori sociali e all’aumento degli interessi sul debito versati ai detentori di buoni del tesoro.
Nello stesso periodo si è assistito a un processo di concentra- zione e rafforzamento economico-politico delle banche salvate da- gli Stati, che hanno sfruttato la politica dei bassi tassi di interesse per aumentare i loro profitti investendo direttamente e pressoché esclusivamente sui mercati borsistici e sui titoli di stato. Ciò ha permesso alle banche di restituire gli aiuti ricevuti nel pieno della crisi, liberandole così da ogni ingerenza politica e mettendole di nuovo nella posizione di dettare le condizioni della ripresa. A tre anni dallo scoppio della bolla subprime, il potere politico delle istituzioni bancarie è cresciuto a tal punto da mitigare e rallentare l’applicazione delle più necessarie proposte di riforma legislativa del settore, in particolare la separazione tra banche commerciali e banche di investimento sulla scia del Glass-Steagall Act del 1933, prevista nella legge “Dodd-Frank U.S. financial regulation”, con il risulta- to che il sistema bancario-finanziario continuerà ad essere per molto tempo ancora “troppo interconnesso per essere lasciato fallire”.
Fortemente esposte ai debiti, pubblici e privati, di paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e l’Italia, e ancora detentrici di titoli tossici ereditati dall’ondata speculativa sui mutui subprime, le banche sono all’origine degli aiuti finanziari della Ue e del Fondo monetario internazionale ai paesi periferici dell’Europa e delle durissime misure di austerità imposte ai loro governi. Gli interventi a sostegno dei paesi maggiormente indebitati sono in realtà misure di salvataggio delle maggiori banche europee, di quelle tedesche e francesi in particolare, una “ricapitalizzazione” mascherata in una fase in cui, come durante la crisi americana dei subprime, le banche non si fidano più l’una dell’altra a causa dell’opacità dei loro bilanci, il mercato interbancario è praticamente bloccato e la minaccia di svendita dei titoli pubblici, incalzata dalle svalutazioni dell’euro, provoca il crollo dei corsi degli stessi titoli facendone aumentare i tassi di interesse, ciò che appesantisce ulteriormente il costo del debito e dei deficit dei paesi maggiormente indebitati. I risultati degli stress test, resi pubblici il 23 luglio, se- condo cui solo sette banche europee sulle novantuno testate non sarebbero in grado di far fronte a eventuali schock finanziari, non hanno modificato sostanzialmente il quadro complessivo, lasciando ora le banche esposte agli stress test dei mercati. […]