Esperienze di cura in migrazione

 17.00

Rita Finco (a cira di)

pp. 159
Anno 2022 (novembre)
ISBN 9788869482380

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Collana: . Tag: , , , . Product ID: 3543

Descrizione

Esperienze di cura in migrazione
Forme dell’invisibile e narrazioni possibili: l’orizzonte etnoclinico
A cura di Rita Finco, Postfazione Jean Pierre Dozon

Quali ascolti si possono offrire all’invisibile che abita la vita di ciascuno e si fa sentire attraverso il malessere? Quali forme di accompagnamento si agiscono nella cura?
Il libro attraversa le inquietudini, le sofferenze, gli smarrimenti e le incertezze individuali e collettive che caratterizzano la vita umana. Le esperienze di cura che vengono narrate sorgono dai molteplici posizionamenti che donne e uomini hanno sperimentato nel lavoro d’incontro con l’altro, con sé e con le alterità di cui ognuno è portatore. Le autrici e gli autori raccontano come la costruzione dei saperi e delle forme di cura giungono attraverso processi di disorientamento a volte provocati da spaesamenti, urti, vertigini, sorprese, rifiuti.
L’orizzonte etnoclinico, espresso a partire dalle esperienze, predispone a forme di cura in movimento e l’invisibile portato dalle traiettorie di sofferenza viene accolto come spazio che rinnova i confini dei saperi e le relazioni tra dimensioni umane e non umane.
L’invisibile è il debito nascosto di ognuno con il dono della vita. In questo doppio invisibile si intrecciano poesia e arte in narrazioni che invitano a essere responsabili delle parole e degli sguardi che costruiamo nella relazione con gli altri e con il mondo.
Il libro si rivolge ai professionisti che operano nei servizi sanitari, sociali ed educativi e agli studenti che si preparano al lavoro di cura.

Contributi di Maria Livia Alga, Rosanna Cima, Rita Finco, Marion Jacoub, Fulgenzio Rossi, Gabriel Maria Sala, Hamid Salmi, Gloria Selini

Rita Finco dirige il Centro di formazione, ricerca e mediazione della Cooperativa Ruah (Bergamo-Italia). È professore a contratto di Etnoclinica presso l’Università di Bergamo, ricercatrice associata presso l’unità di ricerca “Méthodes et cultures”, INSERM di Parigi-Sorbona e membro del Laboratorio di ricerca partecipata saperi situati dell’Università di Verona. È autrice di Maîtres et disciples: analyse transculturelle du parcours migratoire de l’école coranique à L’Europe (La Pensée Sauvage, 2020).

RASSEGNA STAMPA

il manifesto – 31 gennaio 2023

Lo spaesaemento salutare dell’orizzonte etnoclinico
di Gennaro Avallone

SCAFFALE. «Esperienze di cura in migrazione», a cura di Rita Finco. Al centro del volume di ombre corte, le forme per spostare lo sguardo verso l’altro

Chi è l’altro? Se guardiamo il mondo con gli occhi di chi, da uno studio televisivo, ben vestito e rilassato, commenta gli arrivi via mare in Italia dalle sponde meridionali del Mediterraneo, l’altro è un povero, una minaccia, un indesiderato, al massimo un oggetto di compassione. Se cambiamo prospettiva e, dunque, punto di vista, tutto cambia. Questo mutamento radicale può avvenire in diversi modi: ad esempio, nell’esperienza di una lotta fatta insieme, nel divenire amici, nei percorsi di cura.

È in questo ultimo ambito di vita che il libro Esperienze di cura in migrazione, forme dell’invisibile e narrazioni possibili: l’orizzonte etnoclinico (ombre corte, pp. 200, euro 17), curato da Rita Finco, responsabile del centro di formazione, ricerca e mediazione (Fo.R.Me.) della Cooperativa Ruah di Bergamo, si concentra. E lo fa presentando i contenuti e le pratiche dell’etnoclinica, il cui obiettivo, come chiarisce la curatrice nel primo capitolo, è quello di «avvicinarsi ai differenti saperi disciplinari per creare sentieri in grado di (dis)orientare quelle pratiche oppressive, autoritarie e violente ancora presenti nei contesti istituzionali».

L’ETNOCLINICA va oltre l’etnopsichiatria, da cui deriva, cercando di attraversare le logiche istituzionali e culturali di chi si rivolge ai servizi di cura e di chi vi lavora, affermando la simmetria tra queste due figure, sapendo che viviamo un’epoca storica di violenza diffusa, in cui l’equilibrio psichico è sempre più difficile da costruire e, pertanto, sono necessari strumenti capaci di confrontarsi con un mondo in movimento. Per questo, l’etnoclinica invita a spostare completamente lo sguardo verso l’altro, accettando che questo impegno richieda passione per lo scambio e la scoperta e la disponibilità verso la meraviglia, l’apertura e la curiosità: uno sguardo non predeterminato.

È NELL’INCONTRO con l’altro radicale, nel mondo degli Stati-nazione e dei nazionalismi rappresentato dagli emigranti-immigrati, che l’assunzione di tale sguardo si rende più difficile e, al tempo stesso, maggiormente urgente. L’etnoclinica si incarica di questa sfida, che interroga l’ordine costituito, l’ordine del pensiero di Stato che relega le persone migranti nel campo dell’inimicizia o dell’assistenza. Accettare questa sfida apre a molteplici nuovi problemi, ovviamente. Ad esempio, essa implica il confronto con la voglia di aiutare chi è arrivato da un viaggio pericoloso: una volontà comprensibile, ma piena di insidie, che, in ultima istanza, allontana l’altro, lo tiene a distanza e lo limita ai bisogni a esso concessi, oltre a ridurlo, in caso di percorsi clinici, ai suoi sintomi.

L’etnoclinica, al contrario, si posiziona proprio nell’indeterminazione, nel fatto che niente è predefinito, tanto meno i mondi visibili e invisibili delle persone che si incontrano. Di conseguenza, «in etnoclinica, il disagio non viene mai racchiuso in una classificazione, e nemmeno viene identificata la sofferenza all’interno di un quadro psicopatologico», perché questo approccio vuole lavorare con le matrici culturali del malessere. Seguendo questo orientamento, che dà centralità alle esperienze culturali – dunque. storiche e di potere – dei percorsi di vita, gli operatori dell’etnoclinica hanno compreso che questa metodologia può applicarsi in qualunque relazione di accompagnamento e non limitarsi ai rapporti di cura con le persone immigrate.

CHIARAMENTE, l’innovazione e la necessaria sperimentazione richieste dall’etnoclinica non sono possibili, o lo sono con grande difficoltà, in un contesto di servizi pubblici sempre più impoverito, specialmente per quanto riguarda la cura e il benessere psichico. Il testo non si concentra su questo aspetto strutturale – non è il suo obiettivo – anche se a tratti lo richiama. Questi limiti istituzionali, che sono finanziari ma anche di visione politica, sono ancora più problematici per un approccio, come quello etnoclinico, che richiede un lavoro collettivo, non limitato al rapporto utente-terapeuta, in quanto «nessuna ferita piò rimarginarsi senza l’azione curativa del gruppo». La rimozione di questi limiti è uno dei punti da cui partire per ricostruire servizi di cura fondati su rapporti democratici.

UN ASSAGGIO

Indice

7 Introduzione. Narrazioni possibili
di Rosanna Cima e Rita Finco

Parte prima. Abitare l’invisibile nelle differenti forme terapeutiche

13 Etnopsichiatria, mediazione etnoclinica, etnoclinica: le genealogie del Centro Fo.R.Me
di Rita Finco

41 Sognare con l’etnopsichiatria e le sue declinazioni
di Rita Finco e Marion Jacoub

60 Affiliazioni sospese: il disturbo di personalità in chiave etnoclinica
di Rita Finco, Fulgenzio Rossi, Gloria Selini

79 Sogni, visioni e incubi: luoghi dell’invisibile
di Gabriel Maria Sala

Parte seconda. L’invisibile debito nascosto nel dono della vita

115 Il marabutismo in Cabilia
di Hamid Salmi

130 Freedom of one is freedom for all. Raccontando l’invisibile si fa presente
di Maria Livia Alga

167 “Perché siamo qui?”. Sguardi e storie per un approccio decoloniale
di Rosanna Cima

187 Postfazione. Dall’Africa: verità, complotti e modernità stregonesca
di Jean-Pierre Dozon

196 Autori e autrici


 

Introduzione
Narrazioni possibili
di Rosanna Cima e Rita Finco

Un filo rosso segna i confini tra i saggi che compongono il libro e, al contempo, tiene insieme il fare cura delineando forme differenti del pensare questo lavoro. Esse attraversano le vicende umane, rendono visibili delle mappe e traiettorie possibili nella relazione di prossimità. Alcuni degli autori si sono frequentati da molti anni, sono amici, altri colleghi, altri sono stati Maestri di pensiero, altre sono Maestre di vita. Un invisibile filo che ha permesso di accordare un incontro e fisicamente di esserci, in tre giorni di festa, a Bergamo, nel maggio del 2019, in occasione del convegno internazionale “Forme dell’invisibile: Esperienza in migrazione”. L’incontro che, per alcuni è avvenuto dopo molti anni di lontananza, non si è costruito per giustapposizione ma come presenza. Semplice presenza.
Da questa esperienza si è costruita la volontà di scrivere un libro polifonico a partire da una particolare parola evocatrice: l’invisibile.
Il tema che accompagna dunque il testo è legato agli invisibili nella cura. Considerato come una dimensione della vita l’invisibile è spesso inteso come la parte spirituale di una cultura, come un attiviatore di cure possibili, sotto differenti forme. Quando però è riferito alla cultura dell’altro risulta non codificabile. Gli invisibili, di cui tutti siamo portatori, restano innominabili, possiamo, a volte, teatralizzarli, presentificarli, come insegna la pratica clinica, ma la cura avviene anche attraverso il saper narrare e fare poesia, o pensando l’arte come spazio espressivo e libero, pertanto movimento che cura.
L’intento di coloro che scrivono è di esporre le esperienze dello stare con e nella cura, a partire dai dubbi e dalle incertezze, oscillando su questo filo rosso che tiene insieme e al contempo sta nel movimento. Un muoversi che reca anche squilibrio e gli autori ne danno voce, la condizione comune a quasi tutti è quella di oscillare, avere vertigini, cadere, stare per terra, fare figure con l’argilla per poter curare le storie intime e collettive.
La prima parte del libro consente di vedere cosa c’è in gioco quando si interpreta l’altro, di imparare a posizionarsi e a sapersi oggettivizzare, strada maestra per identificare le sovrainterpretazioni.
La pratica etnoclinico, come scrive Rita Finco, si colloca proprio tra il far migrare i modelli terapeutici classici dei servizi verso dispositivi di cura antropoietici e l’alterare i pregiudizi e gli stereotipi per dar vita a diverse forme di “fare umanità”. In una prospettiva che permette ai sistemi di cura di non limitarsi ad adottare modelli di plasmazione, ma di sviluppare presso i suoi membri un sapere approfondito e articolato.
Motivo per cui nel saggio successivo, Sognare l’etnopsichiatria e le sue declinazioni, scritto a quattro mani, Rita Finco e Marion Jacoub, cercano di mettere in evidenza come l’etnoclinica non sia una pratica “riservata” ai migranti, ma un invito agli operatori a ripensare il modo di lavorare nella cura con tutte le persone che chiedono aiuto. Come ad esempio Arthur, che piange un morto, il giovane uomo è portatore di “una extra-territorialità radicale” che ispira e trasporta anche le due autrici. “Per evitare un riduzionismo strutturale della persona al suo sintomo” si soffermano su cosa significhi lavorare tra mondi diversi e che cosa tale posizione ha insegnato loro. Non si tratta di una acquisizione data una volta per sempre, essere toccati da un insegnamento è portare i segni nel corpo, spesso arriva attraverso il dolore, si traduce nell’aprire fessure negli apparati del potere della cura e dei relativi saperi.
Vedere il disturbo di personalità in chiave etnoclinica è una scommessa, o meglio, una sfida tra poteri differenti. Nel saggio di Rita Finco, Fulgenzio Rossi, Gloria Selini (Affiliazioni sospese), l’atto di cura si trasforma in un esercizio di funamboli che, uno alla volta, ma tutti con lo stesso timore, cercano di attraversare un tema “classico” delle psicopatologie, riflettendo sul lessico che determina l’altra, portando la storia di Duygo, sentita in modo destabilizzante quando le “certezze ereditate dalla formazione” possono essere scosse. È Duygo che apre la strada su cui i clinici possono transitare, è sulla sua storia che si chiedono: “quali tessiture, impedimenti, aperture chi legge potrà vedere?”
Sono luoghi dell’invisibile per eccellenza i sogni, gli incubi. Sono spazi “d’incontro e d’interazione con l’invisibile e con le conseguenze che ne possono sorgere nel lavoro etnoclinico, con quei pazienti che, istituzionalmente, definiamo richiedenti asilo e rifugiati politici”. Guardare nei sogni, scrive Gabriel Maria Sala (nel libro), è vedere ciò che di giorno non vediamo, come un espandersi in cui i confini si perdono e le frontiere non sono distinte, i territori allora spariscono, le mappe e le traiettorie auspicate prima si perdono. Spazio dedicato all’interpretazione, trovare il senso del sogno non è affatto scoprire verità, “ma è come arrivare a prendere delle decisioni che ci possano soddisfare, è in connessione con i modelli culturali che hanno il sognatore e il suo gruppo d’appartenenza. Il sogno e la sua interpretazione ci immettono sempre in una realtà collettiva”. Nell’ambiguità e talvolta estraneità che il sogno porta, ritroviamo l’arte artigianale, come sottolinea sempre Sala, dell’interpretare, dell’essere mediatori tra mondi visibili e non: “qualunque tipo di interpretazione avverrà su un’elaborazione secondaria, avverrà su un racconto del sogno”. Da questo luogo tra si può accedere a visioni che trasformano le vite di individui e di collettività.
Apre la seconda parte il saggio di Hamid Salmi, psicologo originario della Cabilia (regione dell’Algeria) donando il punto di vista “dall’interno” sul tema del marabutismo cabilo, la cui origine è segnata dalla venerazione dei santi e dal messianismo e dalle correnti religiose del sufismo e sciismo orientale. Elementi essenziali per comprendere il marabutismo attuale e fondamentali per entrare nelle rappresentazioni dell’invisibile. Per l’autore i jinn, le divinità, i profeti, gli antenati e i morti che ci sono vicini rappresentano l’alterità estrema rispetto agli esseri umani.
Raccontando l’invisibile esso si fa presente per quella parte che è concessa e quella in cui si crede e si ha fede. Maria Livia Alga (nel libro) si domanda quale relazione può esserci tra la libertà e l’invisibile? L’invisibile libera? Oppure lega? La riflessione, che apre la seconda parte dell’opera, si concentra sulle “forme dell’invisibile in relazione alle lotte che sin dagli anni Novanta le donne Edo di nazionalità nigeriana hanno agito contro lo sfruttamento dei loro corpi, per l’affermazione della loro libertà. […] Le cronache italiane continuano a riportare episodi di violenza contro le donne Edo legate al circuito di tratta mentre le statistiche denunciano un continuum degli arrivi di ragazze, anche minorenni, dai campi di concentramento libici”. Fa da eco la narrazione di Chinua Achebe che mostra come l’invisibile sia una questione di antenati, di oralità e storie di fondazioni raccontate e trasmesse, in una fede che trapassa le generazioni e si fonda sulle relazioni. È un invisibile che non si fa mai visibile ma si fa udibile e memorizzabile attraverso l’ascolto e il racconto. Si fa presente attraverso la voce, mediazione vivente di qualcuno che parla, racconta, in prosa o in versi. Ed è Sandra Faith Erhabor la narratrice da cui prende inizio il saggio Freedom of one is freedom for all. Raccontando l’invisibile si fa presente. I racconti di Erhabor Diventare invisibili; La verità non è invisibile: la rivoluzione di Torino; Legarsi all’invisibile; Freedom is now: visioni sono un esempio di come i passaggi interiori maturati nella ricerca con altre donne e nel lavoro di mediatrice, trovano voce e forma nell’arte della poesia e della prosa. Arte messa a disposizione delle operatrici della cura per la loro formazione.
Perché siamo qui? Cosa vogliamo vedere? Da dove e con chi? Come accogliere più punti di vista? Il saggio di Rosanna Cima prende spunto da questi interrogativi per dialogare con il pensiero decoloniale. Esso offre una coscientizzazione operativa, sia nella fase di denuncia di una pervasiva colonialità ancora presente, sia per gli orizzonti interepistemici che l’approccio apre nella ricerca e nella cura. Rendere presente il corpo collettivo e individuale dello sguardo conduce a un etnocentrismo eccentrico, posizionamento che si incarna quando si aprono le circolarità delle narrazioni con altre e altri, tra il visibile e l’invisibile dei mondi di cui ciascuno è portatore.
La postfazione di Jean-Pierre Dozon esplora l’estrema plasticità della stregoneria, la sua adattabilità al mutare dei tempi e come essa attraversi i confini geografici diffondendosi anche nel neoliberalismo. Pone in evidenza come la stregoneria non tratti di credenze “fuori dal tempo, oppure rinvianti a pratiche ancestrali, proprie di comunità umane ai margini della Storia. Al contrario, essa rappresenta una delle espressioni della modernità, uno dei volti assunti, nei paesi di area subsahariana, da un capitalismo inteso nei termini di mero accaparramento materiale, di dominio, di competizione per il successo personale, che fa del proprio simile un concorrente temibile dal quale difendersi e da combattere come un nemico potenziale”. Se oggi ha senso parlare di invisibile è proprio per combattere le forme di colonialità che sono presenti in noi e nelle pratiche di cura.

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