Descrizione
Aimé Césaire
Discorso sul colonialismo
seguito da Discorso sulla negritudine
Introduzione e cura di Miguel Mellino
Postfazione di Baubacar Boris Diop
Discorso sul colonialismo è sicuramente uno dei testi politici più significativi del Novecento. Apparso per la prima volta nel 1950, ma ristampato a Parigi nella sua versione più nota nel 1955, il discorso di Aimé Césaire ha profondamente influenzato diverse generazioni di attivisti in tutto il mondo. La sua denuncia del sistema di dominio economico e culturale alla base del colonialismo costituì infatti un punto di riferimento fondamentale non solo per le lotte anticoloniali in Africa, in Asia e nei Caraibi, ma anche per i movimenti politici più radicali degli anni Sessanta e Settanta nel continente latinoamericano così come per i gruppi maggiormente impegnati negli Stati Uniti nella conquista dei diritti civili e nello sviluppo del Black Power. Ma non solo. Portando alla luce la “concezione ristretta e limitante, parziale ed esclusiva e, tutto sommato, odiosamente razzista” dell’uomo alla base di molti dei testi più importanti della cultura umanistica europea del suo tempo, Discorso sul colonialismo finiva per gettare le basi di quello che qualche anno dopo sarebbe diventato un nuovo tipo di pratica critica e di analisi testuale: la “teoria del discorso coloniale”.
Principale ispiratore della poetica della negritudine, autore di importanti studi storici sulla schiavitù e sul colonialismo e di originali opere teatrali, Aimé Césaire è sicuramente uno dei protagonisti principali del pensiero anticoloniale del Novecento e un anticipatore di molti dei temi oggi al centro della critica postcoloniale.
Aimé Césaire (Martinica 1913-2008), poeta, drammaturgo e leader politico martinicano di lingua francese. Personalità tra le più importati dell’anticolonialismo e autore di riferimento degli attuali studi postcoloniali. Tra le sue opere più celebri, tradotte anche nel nostro paese: Diario del ritorno al paese natale (2004) e Negro sono e negro resterò (2006).
RASSEGNA STAMPA
“il manifesto” – 3.6.2020
Una gigantesca macchina per la disumanizzazione
di Sandro Mezzadra
Non erano passati che cinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale quando Aimé Césaire dava alle stampe il suo Discorso sul colonialismo, che la casa editrice ombre corte ripropone oggi nella bella edizione a cura di Miguel Mellino e con una postfazione di Boubacar Boris Diop (pp. 130, euro 12). E la sua analisi prendeva con sicurezza le mosse da «Hitler» e dall’«hitlerismo», per proporne uno studio «clinico».
SI TRATTAVA per il grande intellettuale e politico martinicano di rivelare al «borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo» che «Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone». E in particolare che quel che l’Europa borghese non perdona a Hitler non è «il crimine in sé, il crimine contro l’uomo, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato all’Europa quei procedimenti colonialisti che fino allora erano riservati in esclusiva agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai negri dell’Africa».
ERA QUELLO che Césaire chiamava «effetto boomerang della colonizzazione», che era stato anticipato nel 1946 da W.E.B. Du Bois (The World and Africa) e che si ritrova nelle Origini del totalitarismo di Hannah Arendt, la cui prima edizione uscì nel 1951. Nel testo di Césaire, il riferimento a Hitler e all’hitlerismo rinvia a una specifica interpretazione del colonialismo e al tempo stesso – secondo modalità che sarebbero risuonate in Frantz Fanon – getta luce sulle poste in palio nelle lotte per la decolonizzazione.
«L’EUROPA È INDIFENDIBILE», scrive Césaire dal primo punto di vista. I due grandi problemi che essa nella sua storia moderna ha generato – la questione del proletariato e quella coloniale – si rivelano impossibili da risolvere nella congiuntura segnata dalla Seconda guerra mondiale. Le lotte anticoloniali, dal secondo punto di vista, sono chiamate a innovare profondamente sul terreno che Césaire definisce, riprendendo criticamente le retoriche di legittimazione del colonialismo, della «civiltà».
La colonizzazione, nella prospettiva di Césaire, è una gigantesca macchina di disumanizzazione. Anche da questo punto di vista, le risonanze del Discorso nell’opera di Fanon sono cospicue.
Si pensi all’insistenza di quest’ultimo, nei Dannati della terra (1961), sull’«animalizzazione» del colonizzato, sull’uso di un «linguaggio zoologico» e sul costante riferimento al «bestiario» da parte del colono. Nella prospettiva di Césaire, una sorta di dialettica della bestialità finisce per coinvolgere proprio quest’ultimo, che abituandosi a «vedere nell’altro la bestia», allenandosi per «trattarlo da bestia», «tende obiettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia». L’umanesimo europeo si specchia qui nel suo fondo più oscuro e ne risulta radicalmente messo sotto accusa. Un «umanesimo vero», il che significa un «umanesimo a misura del mondo» resta semmai un progetto per il futuro, consegnato all’azione convergente delle lotte anticoloniali e delle lotte proletarie in Europa. Ancora legato al Partito comunista francese (la rottura avverrà nel 1956, con una celebre lettera a Maurice Thorez), Césaire vede infatti nel Discorso nei movimenti e nelle lotte rivoluzionarie del proletariato l’unica chiave per la «salvezza dell’Europa».
IL DISCORSO SUL COLONIALISMO di Césaire è un’opera di fondamentale importanza nella storia delle lotte anticoloniali all’indomani della Seconda guerra mondiale. Come mostra Miguel Mellino nella sua ampia introduzione, è anche un testo stratificato e complesso, nella cui composizione si possono distinguere i diversi momenti della formazione politica e della pratica letteraria di Césaire – dal panafricanismo al modernismo e al surrealismo.
Leggere oggi il Discorso consente di ritornare su quel processo di decolonizzazione che rappresenta per molti versi una delle origini del nostro presente. Ma il testo di Césaire offre anche strumenti analitici che consentono di cogliere criticamente la riproduzione di logiche e dispositivi coloniali dopo la decolonizzazione – nel governo delle migrazioni, ad esempio, e nelle tendenze a una gerarchizzazione dell’umano che lo innervano, nel Mediterraneo così come nei tanti ghetti dove vivono i migranti impiegati in agricoltura in Italia e altrove in Europa.
UN ASSAGGIO
Introduzione
La furia di Caliban: nell’occhio della grande tempesta
di Miguel Mellino
Ma quale strano orgoglio m’illumina improvvisamente? (Aimé Césaire, Cahier d’un retour au pays natal, p. 95)
Non appartengo a nessuna nazionalità prevista dalle cancellerie (ivi, p. 85)
La forza del Discorso
“Il vero problema del Novecento – scrive Alain Badiou nel suo Il secolo – è l’accoppiamento tra le ‘democrazie’ e ciò che, a cose fatte, esse definiscono come Altro da sé, la barbarie di cui sono innocenti. È questa procedura discorsiva di assoluzione l’obiettivo da smantellare. Solo così sarà possibile costruire una qualche verità in proposito” (Badiou 2005, p. 14). Come suggerisce lo stesso Badiou, e al di là delle ambivalenze del suo discorso sui rapporti tra politica e violenza nel Novecento, ricordare oggi che le democrazie alleate contro Hitler sono altrettanto imputabili di ricorso allo sterminio e al massacro indiscriminato non sta a significare semplicemente “una delle verità fondamentali del Novecento” (ivi, p. 13), ovvero un enunciato potente, certo, ma ormai del tutto neutralizzato, rimasto felicemente sepolto sotto le macerie del “secolo breve”. Si tratta invece di un benjaminiano “ricordo” che continua a impadronirsi di noi nei momenti improvvisi di pericolo, e che nell’ultimo decennio è tornato a balenare quasi ininterrottamente nei nostri corpi e coscienze con tutta la sua terribile forza e in tutta la sua spettrale attualità: a Belgrado sotto le bombe della Nato, a Genova durante le manifestazioni contro il G8, a Falluya tra i corpi degli iracheni arsi dal fosforo bianco di Bush, ma più di frequente anche nelle acque del Mediterraneo, ogni volta che una nave si schianta contro le frontiere postcoloniali di una “cittadinanza europea militarizzata” e il suo carico di migranti affonda impietosamente. Inoltre, come è apparso evidente fin dai primi tentativi nazionali e internazionali di “governare la crisi”, un capitalismo neoliberale oramai in stato di “stagnazione cronica” non farà che stimolare ulteriormente le pulsioni “barbare”, “autoritarie” e “razziste” delle moderne democrazie.
È proprio perché questo ritorno del rimosso occidentale interpella sempre più insistentemente le nostre soggettività, le nostre pratiche teoriche e politiche, che Discours sur le colonialisme di Aimé Césaire torna ad assumere una rilevanza particolare. In effetti, pubblicato in una prima edizione a Parigi nel 1950, ma ristampato nella sua versione definitiva dalla nota rivista e casa editrice “Présence Africaine” nel 1955, questo scritto di Césaire costituisce un passaggio chiave nell’attacco a quella “procedura discorsiva di (auto)assoluzione” denunciata da Badiou. Ma non solo. Apparso sulla scia della sconfitta del nazifascismo nella Seconda guerra mondiale e a ridosso della conferenza internazionale di Bandung del 1955, ovvero del vertice dei futuri paesi non-allineati che sancì la nascita del Terzo Mondo come soggetto politico-culturale, Discorso sul colonialismo può essere considerato sicuramente uno dei testi politici più significativi del Novecento. In primo luogo, perché nessun altro scritto prodotto in quegli anni, all’interno del mondo anglofono e di quello francofono, riesce a rappresentare in modo così globale, trasversale ed emblematico il movimento di soggettivazione (la sua spinta propulsiva, certo, ma anche le sue contraddizioni) di quella grande tempesta nera che avvolse il mondo occidentale sin dall’immediato dopoguerra, ovvero di quella lunga insurrezione anticoloniale transnazionale che, iniziata con l’indipendenza dell’India nel 1947, e passando attraverso le lotte del Black Power negli Usa e nei Caraibi, si sarebbe chiusa soltanto a metà degli anni Settanta con la conquista dell’autonomia politica da parte delle ultime colonie portoghesi. In secondo luogo, perché il testo di Césaire, rinvenendo nel mondo coloniale – o meglio nella missione civilizzatrice europea – uno degli affluenti essenziali della concezione gerarchica e razziale dell’uomo promossa dal nazifascismo, ha assestato un notevole colpo a quell’autorappresentazione umanistica ed eurocentrica della storia della civiltà occidentale dominante nel pensiero europeo fino agli anni Sessanta. Da questo punto di vista, Discorso sul colonialismo si colloca in modo altrettanto originale e incisivo sulla traccia aperta quasi simultaneamente da un altro grande autore della tradizione del radicalismo nero, ovvero di W.E.B. Du Bois:
Si può dire che non vi sia nessuna atrocità nazista – campi di concentramento, mutilazioni ed eccidi di massa, profanazione di donne e orrendi oltraggi all’infanzia – che la civiltà cristiana dell’Europa non abbia praticato contro i popoli di colore in ogni parte del mondo nel nome di una Razza superiore nata per dominare il mondo (Du Bois 1946, p. 23).