Descrizione
Ubaldo Fadini
Disattivare
Un’idea di filosofia
Filosofia, sociologia, teatro, letteratura: sono questi alcuni degli ambiti d’indagine e di sperimentazione che questo libro attraversa con l’intento di ritrovare in essi la presenza significativa del motivo della disattivazione, dell’interruzione/sospensione di ciò che viene comunemente considerato stabile nelle sue configurazioni e meccaniche di funzionamento. Tale motivo ha una lunga storia, in primo luogo in area antropologico-filosofica (con Paul Alsberg e Günther Anders), laddove l’attenzione si rivolge al rapporto complesso tra le pratiche del disattivare, a livello corporeo e tecnico, e la ricerca di un adattamento più soddisfacente alla realtà, da considerarsi comunque sempre provvisorio, temporaneo. Fadini segue la vicenda intricata del disattivare in spazi teorici che possono risultare anche sorprendenti: ad esempio, quelli propri della ricerca del giovane Deleuze, con la sua riflessione sul tema dell’istituzione e dell’istinto, e che trovano altri sviluppi significativi nelle pagine dedicate dal filosofo francese a Carmelo Bene e a Samuel Beckett.
Se la disattivazione è in ogni caso qualcosa che specifica in molteplici modalità il divenire umano, allora si tratta di riuscire a sospenderla a sua volta, sia pure momentaneamente e nei limiti del possibile, al fine di richiamare la stessa provvisorietà/revocabilità delle sue realizzazioni e per riaffermare così il carattere sempre limitato e parziale di qualsiasi – pretesa di – messa in ordine della sensibilità e dell’intelligenza umane.
Ubaldo Fadini insegna Filosofia morale presso l’Università di Firenze. Fa parte dei comitati di redazione e dei comitati scientifici di numerose riviste, tra cui “Aisthesis”, “Iride”, “Millepiani”, “Officine filosofiche”. Tra i suoi lavori segnaliamo Dialoghi con l’amico insonne. La perdita del peggio (Clinamen, 2023) e, per i nostri tipi, Il tempo delle istituzioni (2016), Velocità e attesa (2020), Attraverso Deleuze (2021), Eterotopie dell’umano (2022).
UN ASSAGGIO
Indice
7 Disattivare
Supplementi
115 Sul reattivo: tra Gehlen e Luhmann
136 Mostro e stupidità
Chi insegna non è il migliore. È utile. Insegna agli altri. Non che siano come lui, ma che siano diversi da se stessi – questo è loro utile.
Bertolt Brecht
1. C’è una poesia di Nietzsche – Il solitario – che ricordo spesso:
Mi è odioso tener dietro e anche condurre
Obbedire? Io no! Né – governare!
Chi a sé non fa spavento non spaventa:
conduce gli altri solo chi spaventa.
E condurre me stesso a me è già odioso!
Io amo sperdermi per lunghi tratti
come in mare e nei boschi gli animali,
rannicchiarmi in beate fantasie,
poi attirarmi a casa da lontano,
e sedurre me stesso – a ritrovarmi.
Sperdersi, rannicchiarsi (la fantasia lo consente… e così facendo libera, apre, sempre parzialmente) e poi l’attirarsi a casa (“sempre da lontano”: in un qualche modo) e il sedurre/ritrovarsi senza condurre/condursi. E ancora: la scrittura, con quel suo passo decisamente errante, tipico del vagabondare. Forse con l’illusione di lasciarsi effettivamente qualcosa alle spalle quando diventa sempre più evidente che l’unico lascito è quello del camminare, del “passatore” e delle sue ombre.
Modo, tra altri, del divenire “inumano” – o di un “umanare” differente (Tim Ingold) – sollecitato per quanto mi riguarda dalle ambiguità delle case e delle città, dal collocarsi provvisorio di quelle forze “non-umane” che fanno turbinare come il vento, per riprendere prima di tutti Renato Fucini.
A me interessa l’essenziale, sobrio, pragmatismo del “passatore” soprattutto nel momento in cui l’infinito, per dire così, si fa “ora”, riprendendo Gilles Deleuze e Félix Guattari, rendendo la “camminata senza fine”. Forse non esistono più le “zone di mezzo” nelle quali la solitudine del viandante dà prova di sé nel confronto con le imposizioni abituali, correnti, di limiti e doveri, così come scriveva Pasolini nei suoi Versi del testamento quando sviluppava la sua fenomenologia del camminare nei termini seguenti: “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”. Le zone di mezzo care allo scrittore bolognese (e “friulano”…) si delineano, con tutte le difficoltà della contingenza che si sta vivendo, anche e soprattutto all’interno del territorio urbano (non c’è altro ormai, al di là di tutte gli effetti di spaccio… e proprio a causa di quest’ultimo) e allora vale il tentativo di cogliere ciò che vi transita e che può turbare gli ordini del momento e i loro indefessi porta-voce.
Ho iniziato ad affrontare più distesamente questo tema in un mio libro di qualche anno fa, Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, nel quale portavo a espressione il motivo esistenziale (e non il “vissuto”) del mio ciondolare, del mio andare oscillando di portone in portone senza cercare però di “condurre me stesso a me”. Erano già presenti alcuni degli autori per me imprescindibili, da Walter Benjamin ad André Gorz, con sullo sfondo la figura essenziale di Ferruccio Masini. Altri ne dovrei nominare, che stanno al centro del mio tentativo di muovermi con il e nel “vento che cammina”, ma qui vorrei soprattutto insistere su alcune delle osservazioni di Che cos’è la filosofia? nelle quali Deleuze e Guattari rilevano come sia proprio delle città un decisivo effetto di “svincolamento”. È a tale effetto che mi riferisco, consapevole del fatto che non può che “sfigurare”, mostrificare, la soggettività che se ne lascia attrarre. È un rischio o un pericolo da correre, dipende dalle capacità di una sua assunzione concreta oppure dal suo impatto ai limiti dell’ingestibile. […]