Descrizione
Frantz Fanon
Decolonizzare la follia
Scritti sulla psichiatria coloniale
Saggio introduttivo e cura di Roberto Beneduce
Nell’opera di Frantz Fanon, racchiusa in un periodo di pochi anni (1951-1961), prendono voce temi decisivi che non smettono d’interrogare il dibattito sulla condizione postcoloniale: le contraddizioni delle borghesie nazionali negli anni dell’indipendenza, lo spettro del razzismo e la sua oscura riproduzione nello Stato moderno, la costruzione della soggettività africana. Con l’ostinazione di chi aveva scritto “Ci sono troppi imbecilli su questa terra, e poiché lo dico, si tratta di provarlo”, nei lavori qui raccolti, per buona parte mai tradotti in italiano, Fanon ripercorre con altrettanta sistematicità le teorie psichiatriche e psicanalitiche dell’epoca. La sua è un’archeologia sovversiva che, di quelle teorie, rivela limiti e paradossi: un’etnologia critica dell’Occidente. Con toni a tratti profetici, i suoi scritti disegnano una fenomenologia politica del corpo coloniale nella quale affiorano molti dei problemi con i quali si misurano oggi l’etnopsichiatria e l’antropologia medica critica: la violenza quotidiana e invisibile che secerne la sofferenza dei dominati, il difficile incontro fra il clinico occidentale e il corpo inquieto dell’immigrato, l’economia morale delle sue menzogne. La psichiatria, chiamata da Fanon a riconoscere che è “impossibile guarire” in un contesto di oppressione e di arbitrio, è invitata in queste pagine a interrogare conflitti e omissioni, e a confrontarsi con l’enigma politico della differenza, della malattia e della cura.
Frantz Fanon, psichiatra e scrittore noto per il suo impegno anticoloniale, nasce a Fort de France (Martinica) nel 1925 e muore negli Stati Unuti nel 1961. Oltre alle sue due opere maggiori, Pelle nera, maschere bianche (1952) e I dannati della terra (1961), in italiano sono disponibili anche gli Scritti politici (DeriveApprodi, 2006-2007, 2 volumi) e La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa (ombre corte, 2017).
Roberto Beneduce, antropologo e psichiatra, insegna presso l’Università di Torino. Ha fondato e dirige il Centro Frantz Fanon. Fra i suoi recenti lavori, Archeologie del trauma (Laterza, 2010), Corpi e saperi indocili (Bollati Boringhieri, 2010) e con Nigel C. Gibson, Frantz Fanon. Psychiatry and Politics (Rowman & Littlefield, 2017).
UN ASSAGGIO
La tormenta onirica
Fanon e le radici di un’etnopsichiatria critica
di Roberto Beneduce
In quanto uomo, m’impegno ad affrontare il rischio dell’annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo la loro luce essenziale.
Frantz Fanon, Peau noire, masques blanc
La mia memoria balbetta, ma la mia anima è un testimone.
James Baldwin, The Evidence of Things not Seen
Il corpo razziale
1951-1961: poco più di dieci anni. Questo il periodo di tempo nel quale Frantz Fanon prepara la sua tesi di laurea, i suoi interventi ai convegni di psichiatria, gli articoli per “Esprit”, “Consciences maghribines” o “El Moudjahid” (l’organo del Fronte di Liberazione Nazionale), i suoi libri. Un tempo estremamente breve, che gli eventi ai quali Fanon corre incontro sembrano accelerare ancora di più, imponendo alla sua scrittura un ritmo unico, perentorio: quasi il riflesso di una consapevolezza oscura, quella di una morte che arriverà a soli trentasei anni.
Le parole devono dire l’essenziale, e colpire, anche quando sono poco più che frammenti dentro cui le idee sembrano esservi state impresse con uno scatto più che incastonate con lenti argomenti. Dei problemi non si può fare allusione. Devono essere formulati senza esitazioni, come esige un tempo d’inganni e di violenze, detti nella loro verità brutale, la stessa che la storia rivela ai vinti, agli offesi: “Perché scrivere quest’opera? Nessuno me ne ha pregato, soprattutto coloro ai quali si rivolge. Allora? Allora rispondo, con calma, che ci sono troppi imbecilli su questa terra. E poiché lo dico, si tratta di provarlo”.
I suoi testi, spesso articoli brevissimi, hanno l’obiettivo di sferzare le coscienze. Il pensiero degli avversari deve essere svelato nelle sue ipocrisie, le teorie scomposte nelle loro antinomie e nelle loro menzogne, la maschera della scienza strappata via dal volto del razzismo: “Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui”. Sta qui, in una sola frase, il compendio di un’archeologia sovversiva che scava nelle contraddizioni dei saperi e nell’arroganza con cui gli interessi imperiali hanno preteso ripartire e classificare l’umanità servendosi della scienza. La sua analisi, a partire dalla messa in discussione politica della vacca sacra dell’oggettività, mette in luce come il sapere non è mai in un rapporto di esteriorità con il politico: è il presagio di una nozione, quella di “epistemicidio”, che ci ricorda come i saperi locali hanno spesso finito con il soccombere o l’alterarsi di fronte all’imperialismo cognitivo delle potenze coloniali. D’altronde, il rapporto che Fanon stringe con le parole lo esprime bene questa lettera, scritta al fratello Joby:
Le parole hanno i denti e devono far male. Le parole dolci e morbide devono sparire da questo inferno. L’uomo parla troppo. Occorre insegnargli a riflettere. E per questo occorre fargli paura. Molta paura. Per questo io ho parole-archi, parole-proiettili, parole-coltello, parole che trasportano ioni. Delle parole che siano parole. E prima di pronunciare una parola, voglio vedere una maschera di sofferenza, la maschera di un uomo che cerca, di una persona delusa. Perché le parole devono essere agili, cattive. Devono levarsi, dileguarsi, strizzare l’occhio, dissolversi.
Con il linguaggio Fanon intrattiene un vero duello, combattuto sul campo di questioni urenti, e di un progetto ambizioso che lo spinge a discendere dove pochi hanno avuto il coraggio di immergersi, per chiedersi:
Cosa vuole l’uomo?
Cosa vuole l’uomo nero?
Dovessi incorrere nel risentimento dei miei fratelli di colore, dirò che il Nero non è un uomo… Il Nero è un uomo nero; ciò vuol dire che a causa di tutta una serie di aberrazioni affettive egli si si è collocato all’interno di un universo da cui bisognerà dunque tirarlo fuori. Il problema ha una certa importanza. La mia aspirazione è questa: liberare l’uomo di colore da se stesso. Andremo molto lentamente, poiché ci sono due campi: il bianco e il nero. Interrogheremo tenacemente le due metafisiche e vedremo che sono in via di dissoluzione. […]