Rassegna stampa
“Il ponte”, luglio-agosto 2010
Le basi emotive dei mercati finanziari
di Mitja Stefancic
Come è stato dimostrato dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007, che ha però origini ben più lontane, la conoscenza dei mercati finanziari rimane per certi versi lacunosa. Tra i numerosi saggi che sono stati pubblicati in risposta alla crisi, ce ne sono alcuni particolarmente interessanti. Uno tra tutti è il libro di André Orléan, dal titolo “Dall’euforia al panico: pensare la crisi finanziaria e altri saggi” (2010, Verona: Ombre corte, pp. 158). Il saggio comprende una raccolta di testi inconsueti sullo sviluppo e sulle ragioni della stessa, che originariamente sono stati firmati in lingua francese.
La ricerca proposta dell’economista francese – che è direttore di ricerca al CNRS e di studi all’École des Haute Études en Sciences Sociales – non ha lo scopo di proporre un nuovo racconto della crisi finanziaria, bensì chiarire i processi da cui essa è scaturita, gettando luce sulle dimensioni ideologiche ed emotive dei mercati finanziari, su cui la scienza economica non si è soffermata a dovere. Secondo Orlèan, che spesso condivide le posizioni della scuola di regolazione francese (ovvero il filone che pone l’accento sul ruolo degli stati nazionali nella prevenzione delle crisi finanziarie e nel sostegno dell’occupazione), la principale ragione della crisi è da ricercarsi nell’impostazione dei mercati finanziari, basata sui principi di concorrenza, e soprattutto nella sua incapacità di saper cogliere i ragionamenti alternativi, che negli anni passati avrebbero consentito di tracciare in tempo i rischi a cui il sistema finanziario stava andando incontro.
Come sottolineano Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli nella prefazione, Orléan invita il lettore a considerare l’eterogeneità dei soggetti che agiscono in un sistema economico, che si manifesta nei diversi criteri decisionali che i soggetti assumono in un mondo incerto. In base a tale prospettiva, risulta più che mai opportuno tracciare una linea tra i mercati finanziari e i mercati degli altri beni: diversamente dalla concorrenza sui mercati dei beni ordinari, la concorrenza finanziaria può dare luogo a delle evoluzioni che nel tempo risultano eccessive, e che spesso si concretizzano nei rialzi e nelle cadute smisurate dei prezzi. Vi sono, cioè, dei momenti di euforia e di panico, come quello che è stato registrato nell’agosto del 2007, con una rottura nella convenzione di valutazione in grado di influenzare le relazioni strategiche tra gli operatori finanziari.
In gran parte, le crisi finanziarie sono precedute da una fase di esuberanza nel mercato finanziario, durante la quale è probabile che si verifichino delle bolle di credito. Come è stato dimostrato dagli episodi dei mutui subprime, alla base vi è un intreccio tanto evidente quanto mimetico delle bolle di credito e degli immobili. Scrive Orlèan: “nella fase di euforia, quando il prezzo degli immobili continua ad aumentare, viene prodotta una grande ricchezza che favorisce fortemente la situazione degli acquirenti e dei prestatori” (p.42). Ma quali sono esattamente i meccanismi che portano all’euforia? Per comprenderli, l’autore ci invita ad un momentaneo distacco dalla scienza economia di impronta classica, incoraggiandoci ad attingere da altre fonti, ad esempio dagli scritti sull’antropologia di René Girard, oppure dalla finanza comportamentale.
L’autore sostiene infatti che una chiave di lettura prettamente economica può portare a delle conclusioni inesatte. Secondo Orlèan, bisognerebbe cercare delle spiegazioni parallele, soprattutto su un piano ideologico, in modo da spiegare la diffusa incapacità tra gli operatori e gli esperti in materia di mercati finanziari a riconoscere un reale incremento dei rischi finanziari. In passato, ciò è accaduto mentre la fiducia accordata ai modelli predittivi e di valutazione degli assetti finanziari era altissima. Si tratterebbe di dimostrare che, nel loro attuale assetto, “i mercati finanziari non favoriscono affatto né la giusta stima, né lo spirito critico” (p. 43). I fatti hanno infatti smentito l’idea che i rischi finanziari possono essere quantificati e debitamente compresi attraverso i modelli statistici della volatilità e dell’asset pricing.
L’instabilità dei mercati finanziari sarebbe la conseguenza dell’impossibilità dei mercati di mantenere nei limiti ragionevoli le evoluzioni dei prezzi, sia al rialzo sia al ribasso. Stando a questa interpretazione, la diversificazione dei rischi finanziari non avrebbe fatto altro che accentuare la crisi anziché attenuarla, limitandone le conseguenze. Come già osservato da John Kenneth Galbraith, (Breve storia dell’euforia finanziaria, Rizzoli, 1998), durante le bolle speculative che precedono la crisi, vi è una forte pressione al conformismo. Vista l’attitudine del mercato a creare la ricchezza, esso ne sostiene la legittimità contro ogni critica, anche quando questa potrebbe essere recepita in modo propositivo, contribuendo a migliorare la funzionalità dello stesso.
La diagnosi della crisi finanziaria proposta da Orlèan ha delle implicazioni teoriche importanti, soprattutto per quel che riguarda l’efficienza dei mercati: per esempio, la crisi non sarebbe conseguita dall’aggiramento delle regole finanziarie, come sostengono molti economisti, ma piuttosto dal fatto che esse siano state seguite in modo acritico. Il sistema finanziario è stato salvato dall’intervento delle autorità pubbliche, intervento reso possibile dal fatto che le stesse autorità “hanno dei fini propri che non sono, appunto, di ordine finanziario” (p. 94). Dal punto di vista della regolamentazione, Orléan auspica un ritorno alla suddivisione tra circuiti bancari e finanziari, rimettendo in discussione il primato accordato alla liquidità finanziaria.
Pur rimanendo minoritaria, la riflessione proposta da Orléan offre degli spunti molto illuminanti, capaci di chiarire le cause endogene (strutturali) dell’instabilità. Al fine di garantire un migliore funzionamento dei mercati finanziari e prevenirne l’instabilità, sarà un bene se le considerazioni sulle scelte ideologiche e emotive alla base dei mercati finanziari saranno esaminate con la dovuta attenzione sia dagli accademici che dagli operatori finanziari, in modo da essere finalmente comprese appieno.
“il manifesto” – 20 febbraio 2010
Una crisi dettata dalle leggi del mercato. Le bolle finanziarie secondo André Orléan
di Christian Marazzi
La casa editrice Ombre Corte ha appena pubblicato questo libro dell’economista francese André Orléan, un piccolo gioiello di intelligenza analitica e rigore scientifico di un autore ancora poco conosciuto in Italia, benché i suoi lavori siano da tempo riconosciuti, non solo in Francia, come fondamentali per la comprensione critica del funzionamento della finanza contemporanea. L’Introduzione di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli, che con Hervé Baron ne ha curato la traduzione, descrive in modo impeccabile il percorso teorico di Orléan, evidenziandone l’originalità in un contesto accademico ancora largamente dominato dalla teoria liberista dell’efficienza dei mercati finanziari, l’idea secondo cui il perseguimento del solo interesse privato è in grado di per sé di costruire delle mediazioni finanziarie efficaci. Le crisi, che da trent’anni punteggiano a ritmi crescenti l’espansione dei mercati finanziari su scala mondiale, ci raccontano una storia assai diversa, e cioè che sui mercati finanziari il principio della concorrenza perfetta postulata dalla teoria neoclassica non regge a causa della natura stessa dei beni che di volta in volta sono oggetto della domanda degli investitori, siano essi i beni immateriali delle tecnologie internettiane o i beni immobiliari della più recente ondata speculativa dei mutui subprime. Le crisi, sostiene Orléan, «non sono incidenti dovuti a comportamenti irrazionali, o a difetti istituzionali, queste esplosioni sistematiche devono essere comprese come il risultato del libero gioco delle forze concorrenziali ogni qual volta queste si applichino alle attività finanziarie».
Infatti, sui mercati delle attività finanziarie, l’aumento della domanda di un bene ne fa aumentare il prezzo ma, a differenza di quanto accade sui mercati delle merci ordinarie secondo la legge della domanda e dell’offerta, questo aumento fa crescere ulteriormente la domanda, invece di ridurla! Un bene come la casa, se pensiamo alla crisi dei mutui subprime, non è solo un valore d’uso, ma è un valore finanziario la cui domanda genera un accrescimento del suo rendimento sottoforma di plusvalenze, il che la rende ancora più attraente agli occhi degli investitori. Quando la comunità degli investitori concentra la sua brama su determinati titoli, i mercati diventano autoreferenziali, si muovono cioè secondo modalità che nulla hanno a che vedere con la cosiddetta economia reale. «Una volta avviato, questo processo produce forti disordini perché ogni incremento spinge a un ulteriore incremento, ne consegue un aumento vertiginoso del prezzo, che si chiama ‘bolla’». I mercati, per così dire, impazziscono, ma questo è del tutto coerente con il principio della concorrenza applicato alla finanza. Ne consegue che la crisi «non è dovuta al fatto che le regole del gioco finanziario sono state aggirate ma al fatto che sono state seguite». La crisi, in altre parole, è endogena, non è imputabile esclusivamente a fattori esterni, neppure alla famigerata cartolarizzazione dei mutui bancari che tanto ha contribuito a gonfiare il mercato immobiliare statunitense trasformando i crediti (non solo quelli ipotecari) in titoli liquidi negoziabili sui mercati finanziari.
Grazie alla deregolamentazione di tutti i mercati dei capitali e alla privatizzazione crescente dei beni pubblici, la finanziarizzazione ha trasformato sempre più valori d’uso in beni (titoli) finanziari soggetti a speculazione. In questo processo, la finanziarizzazione ha imposto la sua logica al mondo intero, facendo della crisi il fondamento del suo stesso modo di funzionare. E’ un processo, quello della finanziarizzazione, di inclusione e poi di esclusione, di estensione del modo capitalistico di produzione a mercati pre-capitalistici, e di successiva espulsione e pauperizzazione di coloro che in questo processo sono stati privati dell’accesso ai beni comuni. Una sorta di riedizione continua dell’accumulazione primitiva, di recinzione delle terre (beni) comuni e di proletarizzazione di masse crescenti di cittadini. L’originalità delle analisi di Orléan, che risale ai suoi primi lavori teorici sviluppati con Michel Aglietta, in particolare La violence de la monnaie del 1982, sta nel dimostrare come i mercati finanziari procedano da una bolla all’altra sulla base di «convenzioni collettive», vere e proprie elezioni di beni-titoli che di volta in volta innescano movimenti speculativi contagiosi, il cosiddetto mimetismo degli investitori alla ricerca del rappresentante della ricchezza universale. Il comportamento mimetico spinge gli uomini a volersi impadronire di ciò che l’altro riconosce come prezioso, così che, alla fine, l’imitazione generalizzata converge verso una credenza comune su cui può costituirsi la liquidità assoluta.
Il concetto di convenzione finanziaria è di Keynes, ed è particolarmente utile per capire le ondate speculative degli ultimi anni, dalla convenzione internettiana a quella dei mutui subprime, alla convenzione dei mercati emergenti. Ancora più utile è analizzare, come fanno Orléan e Aglietta, l’origine della convenzione, in primo luogo del denaro come convenzione assoluta, ricorrendo alla teoria antropologica di René Girard, nella quale la merce eletta a «merce universale», ossia la moneta, è il risultato della trasposizione della violenza sociale sul piano istituzionale. La moneta è, cioè, un mezzo per negare, o sublimare, la violenza essenziale, è principio di sovranità e nel medesimo tempo veicolo di una violenza potenziale, una violenza che può scatenarsi nelle più svariate forme, dall’iperinflazione, alla deflazione, alla crisi. La gestione istituzionale della crisi finanziaria scoppiata nel 2007-08, in particolare la creazione su scala mondiale di una bolla sovrana di proporzioni gigantesche che sta mettendo a repentaglio gli ultimi diritti sociali e l’accesso ai beni comuni, dimostra quanto sia vera la teoria di Orléan. Non solo essa ci permette di capire il modo di funzionare dei mercati finanziari, ma ci ricorda che la violenza è sempre costitutiva della sovranità.
Recensione in S”CIENZA E PACE” – http://sciemzaepace.unipi.it
di Marco Passarella
Quando la musica si fermerà, in termini di liquidità, le cose diverranno complicate. Ma finché la musica suona, bisogna alzarsi e ballare. Per il momento, continuiamo a ballare (C.O. Prince, ex presidente di Citigroup, 10 luglio 2007)
La raccolta di André Orléan, Dall’euforia al panico. Pensare la crisi ed altri saggi, preceduta da un’intrigante prefazione dei due curatori italiani, Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli, è un’opera pregevole per fattura e per l’importanza dell’argomento affrontato. Sul piano formale, si giova di un lavoro di traduzione assai accurato, merito anche del contributo prezioso di Hervé Baron, che rende scorrevole la lettura e sufficientemente chiaro il significato della trattazione anche al lettore colto ma non specialista. Il testo, suddiviso in quattro paragrafi che ripercorrono la genealogia della crisi dei subprime (L’euforia, L’accecamento, La cartolarizzazione, La crisi), è arricchito da alcune interessanti appendici teoriche (a beneficio soprattutto di studenti universitari e accademici) e da un dizionario lessicale che aiuta il lettore a districarsi nella selva di acronimi, anglicismi e neologismi che compongono la moderna koinè del mondo della finanza.
La scelta di campo dell’autore è netta. Nel volgere di alcuni mesi, osserva Orléan nell’introduzione, “sono crollate le strutture fondamentali del capitalismo finanziario” e, con esse, anche le concezioni che hanno presieduto alla loro edificazione. La crisi esplosa nel 2007 ha origine nel primato accordato al finanziamento delle imprese (statunitensi, in primo luogo) sui mercati finanziari, anziché sul mercato del credito bancario. Più precisamente, la causa della crisi va ricercata nell’instabilità connaturata ai mercati finanziari (e immobiliari), e cioè “nella loro incapacità di fare in modo che le evoluzioni dei prezzi siano mantenute [entro] limiti ragionevoli, al rialzo come al ribasso”. Le basi obiettive delle valutazioni finanziarie sono, infatti, “nella migliore delle ipotesi, estremamente deboli”. Disgraziatamente, ciò significa che, in un contesto di incertezza radicale sul futuro, l’opinione che finisce per prevalere in merito al valore delle attività (siano esse titoli, derivati o immobili) è sempre “quella che soddisfa meglio gli interessi dei protagonisti”. L’accecamento di fronte al disastro imminente – che consente di continuare a ballare, anche quando la musica sta per finire – trova qui il suo fondamento.
Le premesse della crisi vanno rinvenute, secondo Orléan, nelle modificazioni che si producono nella struttura finanziaria e nella percezione del rischio durante i periodi di crescita euforica. È proprio nel corso di tali periodi che si diffonde la convinzione che i richiami all’esperienza passata e ai fondamentali dell’economia siano oramai “antiquati perché il mondo è entrato in una nuova era, e ciò giustifica nuove regole di valutazione” (osservazione, quest’ultima, che dovrebbe indurre ad una riflessione attenta anche coloro i quali, in questi anni, avevano vagheggiato presunte proprietà prodigiose della Nuova Economia – sirena che non manca di sedurre nemmeno i curatori del volume). Del resto, mano a mano che la crescita procede, sui mercati finanziari la propensione ad andare nella direzione della maggioranza diviene vieppiù irresistibile. Perché, per guadagnare, ciò che conta non è tanto il valore reale delle attività, quanto la capacità di “prevedere il movimento del mercato”. L’origine della crisi non va, dunque, rinvenuta, come pure si sente spesso ripetere, nella cupidigia dei banchieri o nell’avidità degli investitori; né, tanto meno, nell’irrazionalità degli operatori finanziari. Anticipare il comportamento degli altri operatori, fare come gli altri e farlo prima degli altri (quello che Orléan chiama “comportamento mimetico”), questa è l’unica razionalità possibile in un mondo incerto. Insomma, la crisi “non è dovuta al fatto che le regole del gioco finanziario sono state aggirate, ma al fatto che sono state seguite”.
D’altra parte, nel corso della crisi ciò che viene messo in discussione “non è tanto la capacità individuale di valutazione del rischio quanto il fatto di non disporre di un riferimento comune, accettato dal mercato, ossia di una convenzione di valutazione”. A partire dal 2007 gli operatori di mercato si sono resi conto di non sapere: di non sapere (più) quanto vale un credito subprime, un prodotto derivato o un immobile. In questo contesto, la speculazione rialzista non è più possibile, perché – in assenza di un pavimento certo – diviene troppo rischiosa. Chi possiede risorse liquide inattive se le tiene strette (in attesa di occasioni future) e chi non le possiede vende (parte de) le proprie attività, facendo lievitare il peso dei debiti in termini reali. La stessa concorrenza finanziaria spinge ora i prezzi al ribasso, in una spirale che appare senza fine. È questo che Orléan definisce “autoreferenzialità” dei mercati: “gli investitori interagiscono, non in funzione dei veri valori, ma delle aspettative che si formano sull’evoluzione della futura opinione del mercato”.
Certo, prima o poi “si finisce per osservare un ritorno ai fondamentali”. Ma, come ammoniva un grande economista keynesiano, Hyman Minsky, la strada che conduce alla normalizzazione può passare per l’inferno.
“Il manifesto” – 6 giugno 2010
Una crisi da paura
Intervista di Andrea Fumagalli
I mercati finanziari sono per loro natura instabili. L’Europa dovrebbe dunque avviare politiche economiche e monetarie per regolamentarli. Gli interventi in soccorso della Grecia dimostrano però che a Bruxelles è prevalsa l’ortodossia che vede nel libero mercato finanziario la soluzione della crisi?Nelle scorse settimane, le borse hanno avuto un andamento molto altalenante, al punto che molti hanno parlato di mercati “folli”: definizione che non troverebbe d’accordo André Orlean. André Orlean è un economista poco conosciuto in Italia. Nel corso degli ultimi 20 anni, la sua ricerca si è focalizzata sull’analisi e il comportamento dei mercati finanziari. Partendo dalle tesi di John Maynard Keynes, Orléan sostiene che il comportamento degli operatori finanziari non si fonda sull’idea di una razionalità individuale tesa a ottenere il massimo guadagno, bensì sull’interpretazione di quella che può essere definita una razionalità collettiva, intesa come il senso comune espresso da coloro (Banche, operatori finanziari) che sono in grado di condizionare i mercati finanziari.
La metafora del concorso di bellezza di Keynes è al riguardo illuminante: così come un giudice in un concorso di bellezza non deve valutare l’avvenenza dei concorrenti in base al suo individuale senso estetico ma piuttosto in base a quelli che lui ritiene essere i canoni estetici dominanti, così un bravo “speculatore” crea le proprie aspettative sul valore futuro atteso delle attività finanziarie non in base alle proprie aspettative e convinzioni individuali, ma in base a ciò che lui stesso ritiene essere il senso comune presente nei mercati finanziari. Tale comportamento, lungi dall’essere irrazionale, come sostengono gli economisti ancorati alla visione neoliberista dell’homo oeconomicus, determina il fatto che nei mercati finanziari le regole della concorrenza, e del pilastro su cui regge, la legge della domanda e dell’offerta, non sono valide. Di conseguenza, i mercati finanziari sono strutturalmente instabili: un andamento ciclico e volatile, che, se non controllato e limitato, rischia di avere ripercussioni deflagranti per il capitalismo contemporaneo, se si considera che i mercati finanziari svolgono oggi il ruolo di governance economica mondiale.
Abbiamo incontrato André Orléan nel corso di una serie di seminari che ha tenuto in Italia, a Milano, Bergamo e Pavia, in occasione della prima edizione italiana di una delle sue opere: Dall’euforia al panico (Ombre Corte).
Quale ripercussione potrebbe avere l’attuale crisi economico-finanziaria sulla teoria dei mercati finanziari e sulle politiche economiche che si dovrebbero adottare per fronteggiarla
A partire dalla svolta monetarista della Federal Reserve del 1979, la teoria dominante dei mercati finanziari si fonda sull’idea di un mercato finanziario mondiale in grado di espandersi in modo integrato e flessibile, grazie alla crescita del debito pubblico e alle innovazioni finanziarie. È questa la cosiddetta teoria dell’efficienza finanziaria, in base alla quale la concorrenza finanziaria segue le stesse regole di quella dei beni tradizionali. I prezzi che si formano sui mercati finanziari dovrebbero cosi rappresentare la migliore espressione dei valori reali degli scambi economici sottostanti.
Nella realtà, invece, i mercati finanziari non sono né efficienti, né stabili, mentre i prezzi non sono l’esito dell’agire della concorrenza ma semplicemente delle aspettative su ciò che il mercato, nel suo insieme, determinerà. Nei mercati finanziari è invece presente un comportamento che potremmo definire mimetico. Il G20, ad esempio, parte dal presupposto che i mercati finanziari siano efficienti. Nel caso si verifichi un’instabilità, ciò è dovuto al fatto che è venuta meno l’integrità degli stessi mercati finanziari. Per il G20, dunque, la crisi dei subprime non è dovuta alla struttura stessa dei mercati finanziari, ma piuttosto a fattori esogeni: l'”opacità” dei nuovi prodotti finanziari, gli eventuali errori delle agenzie di rating, l’avidità dei manager e delle banche. Sono fattori esistenti, ma non spiegano l’essenza della crisi.
Torniamo alla teoria dell’efficienza finanziaria in base alla quale i mercati sono regolati sulla base della legge della domanda e dell’offerta. Per quanto riguarda i mercati finanziari, ciò non è vero, perché i prezzi delle attività finanziarie seguono una regola opposta: quando un titolo aumenta di valore, la sua domanda, lungi dal ridursi, tende invece a crescere, perché le plusvalenze aumentano all’aumento del valore dei titoli, attirando nuovi investitori e quindi aumentano la domanda di quegli stessi titoli. È un meccanismo produttore di instabilità. Si verificano, così, dei movimenti eccessivi nei prezzi (o verso l’alto nel caso di euforia, o verso il basso nel caso di panico). Tale andamento ciclico, di natura strutturale, viene poi amplificato dalle società di rating. È questa la causa principale della crisi.
In questo quadro analitico, è possibile una regolamentazione dei mercati finanziari?
Se i mercati finanziari sono endemicamente instabili, dovremmo regolarli e limitarli il più possibile. Ne va della sopravvivenza del sistema stesso. Tuttavia, nella situazione attuale è un obiettivo politicamente difficile da perseguire. In ogni caso, si potrebbe intervenire in tre direzioni: arrestare la crescita e il peso dei mercati finanziari, oppure ridurla, limitando il ricorso ad essi; le economie e gli Stati nazionali dovrebbero creare un sistema di valutazione autonoma dei titoli come contrappeso al potere pervasivo e di condizionamento svolto dalle società private di rating. Il caso della Grecia, a questo proposiro, è emblematico: la valutazione del debito greco si basa, infatti, su aspettative future che prefigurano uno scenario tragico creato ad hoc. Una società di valutazione esterna ai mercati finanziari dovrebbe essere in grado di capire fino a che punto è possibile fare una previsione. Inoltre, una valutazione pubblica deve definire il quadro macroeconomico e non lasciare che siano le società di rating a farlo. In tal modo si può limitare il potere discrezionale e l’autonomia del potere della finanza.
La terza direzione verso cui muoversi dovrebbe ridurre la liquidità, aumentando ad esempio i costi di transizione, applicando una sorta di Tobin Tax sulle attività speculative di brevissimo periodo. Nel caso di debito pubblico, gli Stati nazionali potrebbero rendere più rigidi e più trasparenti i tempi e le modalità del rimborso dei titoli e degli interessi.
In Europa è possibile fare qualcosa di simile?
Il caso della Grecia sembra dirci l’opposto.In Europa il rapporto tra debito e Pil è circa l’80%, in Usa del 100%, in Giappone supera il 200%. Ma la pressione speculativa punta sull’Europa. La ragione principale è che il debito pubblico giapponese è detenuto dai giapponesi. Negli Usa e in Europa non è così (con l’eccezione dell’Italia). Ma il debito Usa è generato comunque da una potenza non solo economica, ma anche politico-militare, per la quale le aspettative di crescita sono maggiori rispetto, ad esempio, a quelle dell’Europa o, ancora peggio, dell’Europa mediterranea. In Europa, la questione della crescita è centrale. Il rischio è accresciuto dal timore di una fase deflazionista che ricorda la situazione degli anni ’30. La protezione della moneta-oro in quegli anni – ha comportato effetti negativi sulla crescita degli anni Trenta. Le politiche fiscali restrittive di oggi, con l’effetto di generare una deflazione, rischiano di avere gli stessi effetti che hanno avuto allora le politiche protezionistiche sulla valuta. Viviamo però in un mondo dove non c’è più la “moneta-oro”. La politica di svalutazione può avere effetti positivi, i quali rischiano di essere annullati da una politica fiscale restrittiva. Per ridurre il deficit è necessario piuttosto fare politiche di crescita. L’opposto di ciò che vorrebbero i mercati finanziari. E in ciò vi è la responsabilità dell’Europa che non è in grado di dare una risposta unitaria. L’Europa ha una visione contabile dell’economia (soprattutto la Germania) che non consente di reagire alla pressione dei mercati finanziari. Vi è, così, il rischio di creare il fantasma di un’Europa a due velocità. È il trionfo del nazionalismo. L’Europa si è costruita su una stretta visione economica della moneta, intesa solo come mezzo di scambio che consente l’acquisto dei mercati. Da qui l’enfasi sui vincoli economici posti dai parametri di Maastricht sull’inflazione e sul deficit pubblico. Ciò deriva, ancora una volta, dalla cieca adesione alla visione dell’efficienza dei mercati: una tesi che postual che la tendenza all’equilibrio è la caratteristica fondamentale del mercato e che è quindi inutile qualunque intervento di politica monetaria.
È possibile un ripensamento del ruolo della Bce?
La Bce ha una concezione della moneta inadeguata. Le recenti dichiarazioni di Trichet – “La Bce è orgogliosamente indipendente e autonoma” – è una dichiarazione di impotenza. Ed è falsa. Infatti, è condizionata dai governi europei, come dimostra il fatto che recentemente la Bce ha deciso di riacquistare parte del debito pubblico in cambio di liquidità su pressioni di alcuni Stati dell’Unione europea. È stata la manifestazione di una contraddizione palese tra teoria e prassi. Una contraddizione che evidenzia come il modello della moneta come variabile neutra non funziona, confermando che la moneta è, in realtà, un rapporto sociale gerarchico.