Descrizione
Francesco Vacchiano
Antropologia della dignità
Aspirazioni, moralità e ricerca del benessere nel Marocco contemporaneo
Nel Marocco di oggi, la parola “dignità” è utilizzata in discorsi e conversazioni che trattano di argomenti assai diversi. Alcuni la evocano per parlare delle proprie aspettative di prosperità materiale, altri per rivendicare diritti sociali e partecipazione. Riferendosi ad essa, uomini e donne chiedono rispetto e uguaglianza, mentre altri ne fanno un sinonimo di riconoscimento e autorealizzazione. A volte è usata per parlare di emigrazione, altre per immaginare una società più giusta. Osservato da queste prospettive, e dal punto di vista di coloro che se ne fanno portavoce, il concetto esprime un desiderio di benessere e felicità che riflette le forme complesse e plurali su cui si modellano fantasie, speranze e aspirazioni nel mondo di oggi. Attraverso un’analisi dei regimi di autorità morale che le persone utilizzano per interpretare il loro quotidiano e scegliere in quali direzioni condurre la propria vita, il libro – un’etnografia del Marocco contemporaneo basata su un lavoro di ricerca di vent’anni – esplora i modi in cui le persone cercano possibilità di realizzazione attraverso esperienze contrastanti e desideri contraddittori, accettando le norme istituite o cercando di trasformarle. Oltre a fornire un quadro della complessità sociale e morale del Marocco di oggi, il libro offre un contributo al dibattito antropologico su moralità, soggettività e pluralismo nel mondo contemporaneo.
Francesco Vacchiano, è ricercatore presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e si interessa da anni di temi all’intersezione fra antropologia e psicologia (emozioni, soggettività, immaginari, moralità). Si è occupato a lungo di antropologia medica e psicologica, di migrazioni transnazionali, frontiere, burocrazie e politiche della cittadinanza, di gioventù e società in Nord Africa e di saperi terapeutici in Marocco e in Mozambico. Oltre ai lavori apparsi in riviste nazionali e internazionali è autore con Simona Taliani di Altri corpi. Antropologia e etnopsicologia delle migrazioni (Unicopli, 2006).
UN ASSAGGIO
Indice
9 Introduzione
Bruciare, ancora; Dalla fuga alla lotta; Dignità: un altro modo di dire benessere; Etnografia al tempo del futuro; Un piano del lavoro
36 Ringraziamenti
39 Nota di traduzione e di traslitterazione
41 Premessa teorica
Registri di autorità morale e emergenza del soggetto
53 Capitolo primo. La benedizione dell’ospite
Quello che si può dire; Morali concrete e cittadinanza materiale; Deviazione storica n. 1. Moulay Abdelaziz, o le allegorie dei tempi nuovi; Ospitalità: uno spazio morale in casa
83 Capitolo secondo. Un mosaico di pezzi che non combaciano
Sulle tracce di Cousteau; Dignità di genere; #Free boussa: amore e moralità nello spazio pubblico
109 Capitolo terzo. La forza dell’altrove
Non dimenticarti di noi; Etnografia e reciprocità: il rischio di scambiare; La scelta; I giovani, l’altrove, la fuga; Mustafa, villaggio di M’goun valle del Dades, agosto 2001
137 Capitolo quarto. Bruciare di desiderio
Una nuova sfida; Deviazione storica n. 2. Nascita della periferia; Lasciate agli uomini una possibilità; Immaginari di viaggio, fra grande e piccola tradizione; Migrare a ogni costo
173 Capitolo quinto. Rabbia e dignità
Il popolo vuole; Un movimento intimo e collettivo; Mosse e contromosse; Giustizia terrena e giustizia divina; Nulla sarà più come prima
201 Capitolo sesto. La ricerca della felicità
Andate e ritorni; Aspirazioni e promesse di benessere
215 Conclusioni. Un’antropologia della dignità
219 Bibliografia
Introduzione
Il Tuo spirito s’è mescolato al mio spirito, come si mescola il vino all’acqua limpida/ E quando qualche cosa attinge Te, m’attinge; ed ecco Tu sei me in ogni stato.
Husayn ibn Mansur al-Hallaj
Bruciare, ancora
Dal vecchio forte di Dar al-Barud, affacciato sul vieux port di Tangeri, si guardano ancora i traghetti in partenza per l’Europa. Non è più come una volta, quando da qui passava gran parte del traffico commerciale e turistico e il piazzale sottostante era invaso dai camion e dagli autobus di lunga percorrenza in attesa dell’imbarco. Dal 2010, in misura progressiva e crescente, i flussi più significativi si sono spostati a Nord Ovest, verso il Tanger-Med, il nuovo imponente scalo diventato rapidamente la principale porta di accesso via mare del paese. Contemporaneamente, il vecchio porto è diventato il cantiere di uno dei numerosi megaprogetti promossi in Marocco negli ultimi anni, mirato alla riconversione turistica e commerciale della zona. Nonostante queste trasformazioni, la città resta ancora servita da un ferry che, in tempi normali, assicura ogni due ore il collegamento con la cittadina di Tarifa, in Spagna. Fino al 2010 in questi antichi bastioni – costruiti, come il porto stesso, nei pochi anni di dominazione inglese della città – si rifugiavano gruppi di ragazzini venuti da tutto il Marocco per tentare di entrare in Spagna attraversando lo Stretto di Gibilterra. Di giorno vivevano nel forte o in magazzini dismessi del porto, ora demoliti per fare spazio alle nuove infrastrutture, e di notte tentavano di nascondersi nei camion in attesa d’imbarco.
Ne ho conosciuti alcuni durante la mia ricerca di dottorato in antropologia, condotta in Marocco tra il 2002 e il 2008, e poi negli anni successivi, quando avevo lavorato come consulente in alcuni progetti sociali. Conservo ancora la foto di una scritta dipinta a vernice sulla muraglia del forte – “Tanger-Madrid” – che esprimeva chiaramente le direttrici di un itinerario prima sognato e poi, molto probabilmente, percorso. Così come conservo la foto sbiadita scattata nel novembre del 2006 dalla nave che mi riportava a Genova dopo due mesi di lavoro di campo, in cui gruppi di giovanissimi in equilibrio sul muro di cinta tentavano di cogliere il momento propizio per calarsi tra i container. Dal lato opposto, una trentina di ragazzi appena poco più grandi si calavano a filo dell’acqua, arrampicando di traverso lungo il molo, nella speranza di raggiungere la nave senza essere visti, forse con l’intento di issarsi lungo una gomena di attracco. All’arrivo a Genova, due giorni dopo, un piccolo viaggiatore clandestino era stato ritrovato fra i camion stivati nel trasporto. L’avevo visto consegnare da alcuni membri dell’equipaggio alla polizia di frontiera italiana: l’infrazione del confine gli era rocambolescamente riuscita, ma la dimensione reale del suo sconfinamento si misurava ora su ciò che lo attendeva da lì in poi, dopo l’arrivo.
Dopo vari anni di assenza, sono tornato a Tangeri nel 2018, in un contesto che mi sembrava radicalmente cambiato. Da un lato ero impressionato per la rapida trasformazione della città; dall’altro ero influenzato dai temi del mio nuovo progetto di ricerca, centrato sulle storie di vita dei giovani che avevano preso parte alla versione marocchina delle cosiddette “Primavere Arabe” e sui cambiamenti che l’attivismo aveva generato nelle loro vite. Ero salito sull’antica muraglia per guardare il cantiere quando, da una specie di garitta, erano spuntati tre ragazzi, uno poco più che bambino. Con fare spavaldo, il più grande, non più di quindici anni, mi aveva interpellato in spagnolo: “qué quieres tío?”. In dialetto marocchino, gli avevo risposto che volevo vedere “l-marsa – il porto – dove una volta partivano gli harrāga”. Dopo la sorpresa e le abituali domande sul mio arabo, il ragazzo, che si presentava come Abdoun, mi spiegava che da qui, “con l’aiuto di Dio”, si poteva ancora bruciare per andare in Spagna. “E tu, vuoi bruciare in Spagna?”, gli avevo chiesto scherzosamente. Nel dialogo che ne seguiva, Abdoun e gli altri mi avevano raccontato dei loro amici che erano partiti, lasciandosi dietro la periferia di Tangeri, la mancanza di prospettive e speranze, l’aspettativa di una nuova vita in Europa. E di come, un giorno non troppo lontano, sarebbero di certo partiti anche loro.