Descrizione
Karen Pinkus
A fine turno
Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni sessanta in Italia
Traduzione dall’inglese di Gianluca Pulsoni
Cosa può insegnarci il cinema italiano degli anni Sessanta su come vivere e lavorare oggi? A fine turno invita il lettore a ripensare il lavoro, il cinema e le macchine nel loro intreccio, come mostrato in alcuni film di quel periodo. Attingendo alla teoria critica e alla ricerca d’archivio, il libro ci interroga su quali tipi di fratture potremmo sfruttare per vivere diversamente, per resistere alle narrazioni tradizionali del lavoro, e per un anticapitalismo.
L’Italia degli anni Sessanta è stata un luogo in cui la produzione industriale di massa risultava essere la modalità principale per comprendere cosa significasse il lavoro, ma era anche un momento in cui le cose avrebbero potuto andare diversamente.
Riesaminando le origini di paradigmi come la timbratura del cartellino, la “società come fabbrica” e la divisione di genere nel lavoro, Karen Pinkus sfida il lettore a pensare attraverso il cinema, consentendogli di cogliere le lacune e i guasti nell’ordine delle cose del secondo dopoguerra.
“In questo libro meravigliosamente inventivo e ben scritto, Pinkus adopera una lente cinematografica per catturare il dinamismo della produzione culturale e della vita sociale dei prima anni Sessanta in Italia, ma le domande che pone – sulle trasformazioni del lavoro indotte delle tecnologie, sui rapporti tra esseri umani e macchine e sulle potenzialità del cinema per l’analisi sociale – sono altrettanto urgenti per comprendere il mondo sociale di oggi” (Michael Hardt).
Karen Pinkus, docente di letteratura italiana e comparata alla Cornell University (Ithaca, New York), è autrice di numerosi studi di critica letteraria e cinematografica, scienze umane ambientali (environmental humanities) e arte. È redattrice della rivista “Diacritics”. In Italia ha scritto su argomenti culturali per “il manifesto” e “Il giornale dell’architettura”. Tra le sue pubblicazioni segnaliamo, per i nostri tipi, Carburanti. Un dizionario per un pianeta in crisi (2021).
RASSEGNA STAMPA
Media critica – sabato 18 Settembre, 2021
A fine turno. Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni Sessanta in Italia
di Edoardo Peretti
Questo matrimonio…
Renzo e Luciana è l’episodio di Boccaccio ‘70 (1962) diretto da Mario Monicelli. Famoso soprattutto per la querelle legata alla sua assenza nella versione del film presentata al festival di Cannes – una sforbiciata voluta dal produttore Carlo Ponti -, il mediometraggio racconta, in estrema sintesi, un matrimonio reso estremamente difficoltoso dalle allora nuove realtà lavorative, urbane, esistenziali e sociali. Non è forse tra i lavori più eccellenti del regista toscano, ma il tipico acume dell’autore lo rende un ottimo e sfaccettato documento dei tempi.
Karen Pinkus in A fine turno. Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni Sessanta in Italia, tradotto nella nostra lingua da Gianluca Pulsoni, coglie questa caratteristica del breve film di Monicelli, la contestualizza nella cornice del cinema italiano del boom economico che direttamente o meno affronta i mondi del lavoro, in particolare per quanto riguarda la cosiddetta “commedia all’italiana”, e soprattutto osserva i sommovimenti e i mutamenti sociali, quelli coevi e, aspetto ancor più interessante, quelli futuri, realizzati o rimasti nel campo delle possibilità.
Pinkus organizza la sua riflessione attraverso, per così dire, movimenti centripeti e centrifughi. Entra fin nei dettagli più significativi di Renzo e Luciana, con uno stile di scrittura denso e accattivante che, più che raccontarcelo, ce lo fa “vivere”, e allo stesso tempo continuamente sfugge dall’opera in questione, accantonandola e allargando lo sguardo, aprendo parentesi e suggestioni. Ci racconta, per esempio, dell’alternativa proposta da Adriano Olivetti e della sua (semplificando) idea umanista del lavoro in fabbrica; delinea il rapporto tra uomo e macchina che in quegli anni stava diventando sempre più forte e decisivo per colletti bianchi e blu; riflette sulle concezioni possibili della conflittualità tra lavoro e tempo libero e sulle possibilità, quelle colte e quelle sfuggite, della lotta e della contestazione.
C’è in questa, come viene definita dalla stessa autrice, “nevrotica” trattazione la precisione della filmologa che s’immerge nei dettagli dell’inquadratura e della storica che affronta archivi e testimonianze, tanto quanto la densità di riflessione di chi attualizza e riesce a collegare le sfaccettature del passato in evoluzione con i risultati e le conseguenze nel presente, comprese le strade non battute ma ancora praticabili.
Renzo e Luciana, Omicron di Ugo Gregoretti (1962), Il posto di Ermanno Olmi (1961), La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1973) e gli altri film citati diventano in A fine turno, quindi, documenti che possono porci delle domande. I sommovimenti, le sfaccettature e i cambiamenti di quel periodo decisivo della nostra storia che più o meno direttamente, con più o meno consapevolezza, emergono in quelle opere possono interrogarci sull’oggi. Su come abbiamo concepito il lavoro e su come potremmo concepirlo, sulle strade che abbiamo scelto di percorrere e su quelle con cui potremmo cambiare rotta.
il manifesto – Alias, 25.09.2021
Il lavoro nel cinema italiano anni ’70
di Silvio Grasselli
Undici scene, undici capitoli di un ordinato e rapsodico vasto discorso che si muove alacremente scoprendo i legami tra tre diversi luoghi della Storia, della società, della narrativa, del pensiero: lavoro macchine vita, osservati nello specifico e speciale contesto/laboratorio dell’Italia del Boom. E della resistenza che al loro anti-umano intrecciarsi, spesso al di qua del margine del consapevole (sostiene l’autrice), molti diversi registi hanno saputo contrapporre, dandole una forma.
Come esistono i film-saggio che riportano nel flusso del cinema la speculazione logocentrica della parola scritta, così nel suo «A fine turno. Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni Sessanta in Italia» (pubblicato in Italia da Ombre Corte, Verona ( pp. 146) e tradotto da Gianluca Pulsoni) Karen Pinkus, studiosa e docente di letteratura italiana e comparata negli Stati Uniti, sembra recuperare la forma film per imbastire il telaio della sua riflessione; e più oltre, fondare sul ritmo e sulla forma delle immagini in movimento il dispiegarsi del suo congegno di analisi.
Esattamente come succede nella proliferazione che nel film-saggio (tutt’altro che casuale è in effetti la citazione di «Arbeiter verlassen die Fabrik», opera esemplare di Harun Farocki che proprio dentro il formato del film-saggio, proprio centrando l’analisi sui corpi dei lavoratori dentro gli apparati industriali, costruisce, nel fatidico 1995, un excursus storico-teorico sul lavoro dentro le immagini del cinema) muove dal dettaglio di una battuta, di un’inquadratura, di un gesto, per poi lanciarsi in una serie di affondi, di detour, di salti logici sempre più iperbolici e remoti, così nel saggio di Pinkus si parte dall’analisi del racconto cinematografico che Monicelli gira nel ’62 – scrivendolo, tra gli altri, insieme anche a Italo Calvino – per inserirlo, dopo varie traversie, nel film a episodi «Boccaccio ’70», scelto come materia prima dell’indagine – si dice esplicitamente nell’introduzione – proprio per una sua specifica «modestia e ordinarietà», per poi disegnare, pezzo dopo pezzo, una estesa mappa concettuale costruita di citazioni, attraversamenti letterari, evocazioni cinematografiche, in una costellazione di rimandi che si addensano intorno ad alcuni concetti chiave sgorgati dalle altrettante scene scelte dall’episodio firmato dal regista toscano: la distinzione tra il tempo della vita e il tempo del lavoro, l’ossessione del controllo, il rapporto tra copro e macchina, sono solo alcuni dei temi che Pinkus affronta passando da Marx a Bifo, da Pirandello a Volponi, da Antonioni a Gregoretti.
Pinkus dichiara apertamente la prima origine del progetto del libro: uno studio monograficamente dedicato alla figura di Adriano Olivetti. Se per un verso questo serve a illuminare l’orientamento del suo discorso – sul piano politico e su quello culturale -, per l’altro ne suggerisce la natura, prefigurando alcuni degli elementi di maggior interesse insieme alle sue poche, secondarie incongruenze.
«A fine turno» si offre come percorso denso e sintetico dentro una certa parte – una delle più cruciali e affascinanti – del paesaggio convulso e brulicante che fu l’Italia a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ripercorrendo e in parte riscoprendo i fili tesi tra industria, intellettuali, società attraverso la funzione/macchina/forma cinema. E nel far questo da una parte sottrae alcuni autori e le loro opere – su tutti basti citare il regista Ermanno Olmi e il letterato Ottiero Ottieri – dal consolidato sedimento della critica più vieta, proprio rispolverando i loro legami con il Paese e con l’ambiente culturale del loro tempo; dall’altra riscopre il ruolo unico e prezioso di questa fase della società italiana densa e complessa nel più ampio quadro della storia dello sviluppo capitalistico e industriale in Occidente, tracciando linee nette tra l’orizzonte in tumulto dello strapaese nel corso della sua metamorfosi più cruenta, e gli Stati Uniti da dove si vede provenire l’innesco e la spinta di quella trasformazione.
E se forse nessuno dei passaggi del libro è in sé inedito, inedita è la capacità di costruire un sintetico e coerente tragitto, un reticolo pieno di sagaci e più che pertinenti appunti, rimandi, riferimenti, al contempo in grado di tracciare il profilo di un insieme di categorie e concetti utili non solo a una più complessiva lettura del passato, ma anche e forse soprattutto alla più lucida costruzione di una resistenza nel presente.
Così chiude il libro la sua autrice: «Un ragionamento del genere è sottile, sicuramente poi un po’ eccentrico e forse nevrotico, e per questo degno della nostra considerazione».
Film TV, 34 del 24 agosto 2021
Per chi suona la sirena
di Roberto Silvestri
NEL SUO RECENTE SAGGIO, LA STUDIOSA KAREN PINKUS ANALIZZA LA VITA OPERAIA DELL’ITALIA ANNI 60 ATTRAVERS0 IL CINEMA DELL’EPOCA
Aun teenager che chiede: «Quale film fa compren- dere meglio le lotte in Italia 1968-1978» cosa ri- spondiamo? Intanto che, per fermarle, si ricorse alle più ciniche e misteriose “stragi di stato”, e perfino al- l’uccisione fisica o morale di alte personalità di stato.
Poi gli consigliamo di delocalizzare lo sguardo. Di lavorare sul primo ciclo di emigrazione, Italia, Maghreb, penisola iberica, e spulciare tra i doc rimossi sullo sfruttamento di manodopera mediterranea nelle fabbriche nordeuropee di Harun Farocki o Holger Meins, e di trovare il ritratto che il professore di cinema a Berlino, Gerd Conradt, fa del celebre militante RAF in Starbuck – Holger Meins (2002). Di rifare insomma i connotati alla geografia emo- zionale ufficiale, sovrapponendovi i reportage di profon- dità dimenticati, primi tra tutti quelli della “scuola torinese” diretti da Armando Ceste, Daniele Segre, Pietro Balla, Marilena Moretti, Alberto Signetto e dal primo Mimmo Calopresti. E di andare fuori tema, fuori tono e cercare per esempio, alle scaturigini di quegli anni, un piccolo film grottesco del 1962 di Mario Monicelli, prodotto da Carlo Ponti, che racconta in un episodio di Boccaccio 70 di due lavoratori, Renzo e Luciana, lui fattorino lei impiegata, che non possono mai fare all’amore prima perché non si possono sposare (licenzierebbero lei), poi, clandestinamente uniti in matrimonio, perché in fabbrica avranno turni opposti. Scherzare sulla tragedia del nostro capitalismo arcaico e maschilista, che man- canza di buon gusto! Ma è proprio questa deviazione rispetto al genere, alle norme divistiche (non ci sono star comiche nell’episodio) e alla linearità narrativa (Monicelli attua anche una sorta di luddismo sintattico) che ha attirato una studiosa americana di cinema italiano, Karen Pinkus (insegna alla Cornell University, Ithaca,
New York), che fa di questo mediometraggio il nucleo del suo prezioso saggio, appena uscito per Ombre corte, collana Cartografie. A fine turno. Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni 60 in Italia, tradotto da Gianluca Pulsoni, retrodata lo sguardo dell’Autunno caldo per meglio comprendere sia le origini dell’operaio massa, quello a qualifica zero della catena di montaggio, sia il perché della sua ribellione pagana e “selvaggia”, e sia la sua partecipazione attiva alla morte del “fordismo” e all’arrivo dei robot, con relativa espulsione delle tute blu e fine di quel primo pernicioso assembramento. Nelle grandi fabbriche in quegli anni, tranne che all’Olivetti, gli operai «erano ridotti a scimmie» (come spiega in La classe operaia va in paradiso Lulù Massa, operaio vittima della nocività, con ulcera e mutilato dal macchinario, licenziato, abbandonato dall’ mante e perfino dai gruppettari), costretti a pisciare nelle bottiglie di Coca-Cola per rispettare i tempi, mentre capetti e cronometristi punivano. Per dirne una. Un’altra: avevano i salari più bassi dell’intero Occidente. Una terza: se ti ribellavi, ti licenziavano. Ma anche alla Olivetti, come ci racconta il libro, l’utopia di uno sfruttamento dal volto umano era bilanciata da un sistema che tendeva a utilizzare i microgesti, anche mentali, del lavoratore per una otti- mizzazione delle mansioni già cibernetica. Il volume parla della divisione del tempo, dell’interazione con le macchine, delle paure e promesse del corpo riguardo l’automazione. E delle aspettative e della possibilità di trovare momenti di resistenza esistenziale, validi anche oggi, seguendo la linea della trama boccaccesca e manzoniana di Ren- zo e Luciana, ma dialogando con il cinema mondiale, da Antonioni a Avildsen, da Fellini a Medea di Pasolini, da Olmi a Billy Wilder ai fratelli Lumière che proprio rimuo- vendo il lavoro operaio inaugurarono il cinema, riprendendo i lavoratori di Lione, vestiti in abiti domenicali, uscire festosi dalla loro fabbrica di pellicola, simulando un differente “fine turno”. Invece lì tutto era meraviglia e shock continuo, just in time. Se i film classici nascondevano i modi di produzione, il lavoro necessario per realizzarli, e i film moderni – Godard su tutti – scandalizzavano perché spifferavano tutti quei segreti nascosti, e i trucchi ideologici, come prestidigitatori autolesionisti, i film postmoderni come questo giocavano sui modi di produzione del consumo, sul gioco segreto dello spettatore. A lui il finish, come nell’arte concettuale. Pinkus trova come esoscheletro questo mediometraggio, “minore” ma esemplare, scritto anche da Italo Calvino, sezionandolo nelle 11 parti di trama significative, e immagazzinando in ognuna di esse flash di memoria, citazioni, suggestioni ribollenti da riassemblare. È il “metodo Warburg” scelto dalla saggista newyorkese per comprendere «da dentro l’industria» la nostra tecno-storia cinematografica, e spiegare come mai la fabbrica sia un “interno” così indigesto per il cine- ma mondiale. E anche per la letteratura (a parte Ottieri, Volponi e Balestrini), la musica (ma in quegli anni l’Italia era all’avanguardia della ricerca elettronica post-weberniana) e il design, che resterà l’unico comparto leader di un’Olivetti il cui cuore elettronico avanzato verrà presto risucchiato dalle multinazionali Usa dei computer. Invece i film di finzione campioni di incasso, oppure oggi associati seriosamente al decennio che si sbarazzò dei veri anni plumbei, da una parte hanno perduto l’intensità e l’urgenza dell’epoca, da La classe operaia va in paradiso di Pe- tri a Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat-Nam di Scola, da Omicron a Il contratto di Gregoretti, dall’altra non ci han- no mai trasmesso, come nell’episodio “camp” di Moniceli, quel che avvenne davvero alla FIAT Mirafiori del gatto selvaggio e del salto della scocca. Quando catene umane a serpentina rompevano la catena di montaggio legandosi ai nastri trasportatori, si spazzavano via i crumiri, si giocava a carte nelle ore di lavoro, si marciava da un palazzo all’altro riproducendo sui bidoni il rumore frastornante della fabbrica, si fischiava contro Trentin e contro l’etica del lavoro salariato. Quando l’urlo di quella moltitudine, inferocita dal super sfruttamento fino ad allora subito, era «aumenti veri e uguali per tutti e sganciati dalla produttività!» e terrorizzava i padroni, la FIOM e perfino il PCI neanche fosse una proiezione di Henry – Pioggia di sangue per il malcapitato Nanni Moretti. Forse bisogna utilizzare oggi un metodo critico più adeguato alla robotica, perché poi nelle macchine venne immagazzinato quel micidiale e supersfruttato “lavoro vivo” operaio. Insomma fare della critica “toyotista”, e non più fordista, a catena di montaggio lineare, per produrre, da tanti isotopi di film, una “combinatoria” più adeguata a rispondere alla domanda imbarazzante di quel teenager. Questo magnifico libro dedicato all’oggetto più misterioso e introvabile per gli studiosi e gli appassionati di cinema, ovvero il “film operaio”, il filone – tragico, comico o grottesco – delle “tute blu in Technicolor”, trova dunque la chiave di accesso nel picco- lo film di Monicelli che si sottrae a un diktat implicito o interiorizzato (a Cannes, anteprima mondiale di Boccac- cio 70, furono proiettati solo gli episodi di De Sica, Vi- sconti e Fellini, scusa la lunghezza). Nonostante il senso di responsabilità sociale degli studios hollywoodiani anni 30 e dei cineasti italiani del secondo dopoguerra, per lo più comunisti, socialisti o cattolici ribelli, si scelse o si accettò di svolgere – nelle poche occasioni in cui era concesso di riesumare i set, da incubo super alienante, di Metropolis e di Tempi moderni – una funzione rassicuratrice e consolatoria o solo vagamente critica e di parte (alla ricerca dell’operaio positivo che è sempre quello moderato) nei confronti delle esistenti tensioni sociali. Sia nel New Deal rooseveltiano che nel Boom italiano che, come si sa, impoverì tutti, tranne Mister PIL.
UN ASSAGGIO
Indice
9 Introduzione
21 Titoli di Testa
29 Scena uno: L’orologio al lavoro
51 Scena due: Fine turno
72 Scena tre: Milano, 1962 circa
76 Scena quattro: “È sempre fattorino”
84 Scena cinque: Il jukebox a pulsante
89 Scena sei: La mano sulla calcolatrice
111 Scena sette: Matrimonio via rate
115 Scena otto: Sala da ballo e sala cinematografica
119 Scena nove: Scuola serale
123 Scena dieci: Milano Marittima
133 Scena undici: Turni
139 Bibliografia
144 Filmografia
Introduzione
Questo libro tratta della vita e del lavoro alla fine dell’epoca fordista. Parla della divisione del tempo, dell’interazione con le macchine, delle paure e promesse riguardo l’automazione. E delle aspettative e della possibilità di trovare momenti di resistenza – ovvero: ciò che è valevole oggi e domani. Il tutto dialogando con il cinema o, più precisamente, seguendo una linea della trama suggerita da Renzo e Luciana, mediometraggio di Mario Monicelli del film a episodi Boccaccio ’70 (uscito nel 1962). A dirla tutta poi, non ci sarebbe nulla in Renzo e Luciana che meriti la microscopica attenzione che gli ho concesso: eppure, proprio per questo – per la sua modestia e ordinarietà – potrebbe avere qualcosa da insegnarci. Partiamo da alcune scene girate in una fabbrica milanese. Poi, usciamo al sole.
Ad essere chiari, al di là di pochi secondi all’inizio non vediamo corpi al lavoro in Renzo e Luciana. Si potrebbe poi dire che, nel cinema del boom, i corpi che cooperano con le macchine per realizzare oggetti come calcolatrici, pneumatici, motorini, automobili, frigoriferi, ascensori, fornelli e tutte le piccole apparecchiature che si vedono sullo schermo sono come figure spettrali dietro le quinte. C’è un modo di filmare che documenta, ma nello stesso tempo trattiene informazioni. E un doppio gioco del genere, messo in atto negli interstizi tra ciò che è offerto alla vista e ciò che rimane nascosto, lascia spazio ad un uso critico dell’immaginazione.
Dall’altro lato, la possibilità di essere insieme alle macchine e intorno a queste è, nel cinema, un aspetto intrigante da studiare. Non perché questo film e gli altri che analizzo delineano un controcanto umanistico a ciò che è macchinico – benché, chiaramente, questa sia una risposta comunque possibile, una risposta che è diventata un tropo talmente familiare da essere qualcosa di scontato nel nostro modo di pensare. Ma perché, a mio avviso, offrono soluzioni inaspettate, cosa che – per esempio – non avverrebbe in relazione a due temi importanti più o meno coevi: “l’autonomia” e “gli anni di piombo”. Nel primo caso, l’insieme autonomista di azioni rumorose, vibranti e distruttive – tanto improvvisate quanto indeterminate – risulterebbe difficilmente traducibile in un contenuto cinematografico. Nel secondo caso, i film drammatici che riflettono sul terrorismo tendono a fabbricare un tipo di nostalgia o coesione narrativa che, in un certo senso, “disinnesca” la violenza.
Il boom è, in qualche misura, un momento-interstizio. Le ferite immediate della guerra stanno cominciando a svanire e la stagione cinematografica del neorealismo è passata, anche se le sue virtù, stili e atmosfere rimangono. Il 1962 ha visto una incredibile serie di film italiani sul mercato domestico e internazionale, tra cui Il sorpasso (Dino Risi), L’eclisse (Michelangelo Antonioni), Il mafioso (Alberto Lattuada), Mamma Roma (Pierpaolo Pasolini), La commare secca (Bernardo Bertolucci), e Salvatore Giuliano (Francesco Rosi). Totò batte Maciste in uno dei tanti film popolari al cinema. La dc ha il potere ed Enrico Mattei muore in un incidente aereo in circostanze misteriose. Era ottobre, lo stesso mese della crisi cubana. Studiosi, dietrologi e anche complottisti stanno ancora passando al vaglio il tutto. […]