Descrizione
Jean-Yves Grenier e André Orléan
Foucault, l’economia politica e il liberalismo
Prefazione di Adelino Zanini
Nell’opera di Michel Foucault, la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta rappresentano un periodo di importanti cambiamenti. L’interesse del filosofo si sposta dai dispositivi disciplinari all’ermeneutica del soggetto, dall’assoggettamento all’esercizio della libertà. Eppure, osservano Jean-Yves Grenier e André Orléan, il ruolo centrale che in questo passaggio dalla disciplina alla sicurezza è svolto dall’economia politica è stato piuttosto trascurato dai commentatori. Di Sicurezza, territorio e popolazione e di Nascita della biopolitica si è ignorato, soprattutto, l’uso che in essi è fatto della storia del pensiero economico quale dispositivo governamentale. Un uso mirato, basato su di un corpus di testi abbastanza limitato, inteso ad avvalorare una “visione” dell’economia politica strettamente finalizzata alla tesi che Foucault vuole sostenere.
Nei due Corsi si darebbe perciò una duplice emarginazione, della politica e del diritto, la quale permetterebbe a Foucault di concentrarsi sulla rilevanza dell’economia politica in rapporto all’autolimitazione governamentale. A ciò seguirebbe però l’esclusione di un tema centrale per l’economia politica stessa, ossia il diritto di proprietà. Esclusione giustificata dall’onnipresente richiamo alle nozioni di “natura” e di “naturalismo”, grazie alle quali “autonomia” e “razionalità” renderebbero superfluo l’intervento del sovrano e centrale la nozione di “popolazione”.
Jean-Yves Grenier è Direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) e professore all’Ecole polytechnique. Specialista di storia dei fatti e delle idee economiche dei secoli XVII-XIX, è autore di diversi testi di storia economica.
André Orléan è economista e Direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS). Tra i suoi numerosi lavori: L’ordre de la dette (La Découverte, 2022) e, per i nostri tipi, Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi (2010).
UN ASSAGGIO
Indice
7 Prefazione
di Adelino Zanini
Foucault, l’economia politica e il liberalismo
17 Economia politica e liberalismo
23 Economia politica, liberalismo e naturalismo
62 Gli obiettivi politici del liberalismo
Prefazione
di Adelino Zanini
Ininterrotto è stato ed è il flusso di pagine dedicate ai due Corsi che Michel Foucault tenne al Collège de France tra il 1977 e il 1979. Il saggio di Jean-Yves Grenier e André Orléan di quel flusso è parte, a tutti gli effetti. Pubblicato nel 2007, sin dal giudizio di apertura, particolarmente severo, mostra quale sia l’approccio dagli autori scelto. Non solo laddove invitano a distinguere, da subito, tra ciò che Foucault intende dire e ciò che testi, autori, tradizioni da lui interpretati han detto (distinzione, a dire il vero, quanto mai scivolosa), ma anche, e direi soprattutto, ove discutono, con la competenza loro riconosciuta, di un concetto politico, quello di sovranità, muovendo dal porre in questione, direttamente e nello specifico, un’interpretazione della storia del pensiero economico – quella di Foucault, appunto.
In questo approccio vi è di certo una peculiarità apertamente rivendicata. Sono gli stessi autori, infatti, a richiamare l’attenzione di chi legge circa il fatto che nella transizione tra disciplina e sicurezza il ruolo centrale svolto dall’economia politica “è stato piuttosto trascurato dai commentatori del dittico foucaultiano”. Se poi ci si chiedesse quale sia stata la ragione di questa centralità – rimasta invisibile a dispetto di una “presenza invadente” – la risposta di Jean-Yves Grenier e André Orléan sarebbe inequivocabile: Foucault avrebbe fatto della storia del pensiero economico “lo strumento intellettuale della trasformazione della ragione governamentale”. Affermazione a mio parere ineccepibile. Prima dell’uso fattone, resta però da definire quale fosse la “visione” della storia del pensiero economico da Foucault privilegiata.
Va detto, anzitutto, che secondo gli autori nei due Corsi si darebbe una duplice emarginazione: della politica e del diritto. Essa sarebbe il presupposto che permetterebbe a Foucault di concentrarsi sulla rilevanza dell’economia politica in relazione all’autolimitazione governamentale. Di fatto, all’eterogeneità tra mondo politico-giuridico e mondo economico seguirebbe però l’esclusione di un tema centrale per l’economia politica stessa, ossia il diritto di proprietà. Esclusione giustificata dall’onnipresente richiamo alle nozioni di “natura” e di “naturalismo”, grazie alle quali “autonomia” e “razionalità” renderebbero superfluo l’intervento del sovrano e centrale la nozione di “popolazione”. L’oggetto dell’economia politica diviene perciò il governo della popolazione, il quale, a sua volta, sarà caratterizzato da molteplici aspetti all’economia politica riconducibili.
Ma di quale economia politica ragiona Foucault? Ecco la domanda. E la risposta è secca: di “un corpus di testi abbastanza limitato, il che lo porta a trascurare o a occultare altre forme di questo sapere”. Altrimenti detto, egli elabora una propria “visione” dell’economia politica, strettamente finalizzata alla tesi che vuole sostenere. Affermazione che può essere difesa senza molte difficoltà e, tuttavia, può suscitare non di meno più di una perplessità, in relazione a un’improbabile filologia foucaultiana. Ma giudichi chi legge. Tale affermazione è comunque funzionale a un’argomentazione che si spinge ben oltre e che si articola strada facendo, a partire da un altro interrogativo. Si domandano infatti Jean-Yves Grenier e André Orléan: “se l’autolimitazione chiarisce la natura del governo liberale e Foucault insiste sulla necessità di un ‘governo frugale’, l’intervento è comunque necessario. Perché?”. Perché il compromesso tra libertà e sicurezza è indispensabile e va mantenuto. Il paradosso del liberalismo politico sta nel fatto che deve produrre libertà che rischia costantemente di distruggere. Pressoché ovvio il richiamo della tradizione utilitaristica, alla composizione degli interessi – osservano i nostri autori – e, tuttavia, inefficace. In breve, una volta esclusa la resistenza in termini di diritti, la razionalità di governo desunta dal “calcolo” reso possibile dal richiamo detto farebbe “del governo il seguito quasi diretto di una oggettivazione dei fenomeni naturali”.
A detta di Jean-Yves Grenier e André Orléan, Foucault incontrerebbe qui una difficoltà evidente, che risolverebbe richiamando due tradizioni invero distinte: l’ordoliberalismo tedesco degli anni 1930-50 e il neoliberalismo statunitense del Secondo dopoguerra. Due modelli di economia politica che avanzarono una soluzione alquanto radicale della questione dell’intervento in economia, sostenendo la spontanea convergenza degli interessi (nelle ipotesi iniziali di Foucault, i dispositivi di sicurezza tenevano del resto conto del loro possibile contrasto). Ora, che gli ordoliberali sostenessero una convergenza spontanea degli interessi è tutt’altro che pacifico – quanto è peraltro ricordato nel prosieguo del testo. Ma non è questo il punto. Di qui in poi, infatti, torna a essere cruciale il rapporto tra Foucault e la storia del pensiero economico; meglio, l’uso che egli ne avrebbe fatto per articolare la propria tesi relativamente al tema della sovranità.
Certo, quanto accadde in Germania con la riforma monetaria del 1948 non può essere interpretato come una contingenza storica di poco conto, come diremo – e sull’interpretazione foucaultiana dell’ordoliberalismo, con relative varianti biopolitiche, è stato scritto davvero moltissimo, anche dopo il 2007. Tuttavia, basti qui dire che grazie all’ordoliberalismo l’economia diventerebbe, nell’interpretazione di Foucault restituita da Jean-Yves Grenier e André Orléan, “il punto di riferimento per la costruzione della politica – l’economia produ[rrebbe] la legittimità necessaria allo Stato”. Dunque, il passaggio dal liberalismo del xviii secolo a quello del xx secolo (la Scuola di Chicago è altra cosa, però) profilerebbe la “risoluzione teorica” della questione centrale, cioè l’autolimitazione del governo. Il mercato diverrebbe un luogo di veridizione e l’autolimitazione delle pratiche governamentali ne uscirebbe (apparentemente) confermata e rafforzata. Senonché, questo spostamento temporale porrebbe “un nuovo problema: quello del rapporto con il reale” – un problema di cui il “rifiuto della sovranità” costituirebbe il perno, dato che un sovrano economico sarebbe impensabile.
La contingenza, dicevamo. A un certo punto, si fa incontenibile, se interpretata e generalizzata muovendo dal rapporto monetario. C’è qui, nel ragionamento dei nostri autori, un salto argomentativo indubbio. Ma è proprio tramite la moneta che il mercato come luogo di veridizione può essere messo in discussione e, con esso, l’interpretazione stessa dell’esperienza ordoliberale da parte di Foucault. Gran parte della riflessione liberale – osservano Jean-Yves Grenier e André Orléan – si è prefissa lo scopo di “neutralizzare” la moneta; e Foucault ha preso per buona questa neutralizzazione: “né moneta, né denaro appaiono negli indici dei due Corsi”. Né qualcosa è detto rispetto ai “comprovati legami tra moneta e sovranità”. Quando Foucault ragiona sull’interazione tra attori economici, considera un mondo fatto solo di mercati. “Eppure la moneta non è né un elemento secondario, né uno strumento neutro. Essa è la forma specifica che riveste la sovranità in economia”.
Ora, è più che evidente come la critica non sia da intendersi in termini “didattici”, per così dire. Qui si ragiona di un’ermeneutica economica foucaultiana e la si connette all’interpretazione della vicenda della Repubblica federale tedesca – una società che Foucault avrebbe inteso come “‘integralmente economica’, perché prodotta al di fuori del vincolo sovrano e dal solo gioco della libertà degli scambi”. In effetti, se l’economia è creatrice di diritto pubblico, “si può benissimo fare a meno del potere di costringere”. Perciò, la vicenda della Repubblica federale tedesca indurrebbe a credere possibile uno Stato senza sovrano, uno “Stato radicalmente economico”. Deduzione secondo gli autori conseguente quanto dubbia. Quindi, un ritorno all’evento fondativo sarebbe necessario. La riforma monetaria del 1948 è quella “contingenza fondativa” su cui Jean-Yves Grenier e André Orléan possono stringere la loro argomentazione, osservando, anzitutto, come il problema da cui partire non potesse essere la liberalizzazione dei prezzi del 24 giugno 1948 richiamata da Foucault, bensì la creazione di una nuova moneta, il marco tedesco. Difficile dar loro torto.
Non a caso, la prima istituzione della futura Repubblica federale fu la Bank Deutscher Länder, la futura banca centrale. Argomentazione, per la verità, che sembrerebbe dare ragione a Foucault, ma tramite la quale gli autori intendono ovviamente indicare come la posta in gioco fosse da cogliersi nella fondazione di un’istituzione economica creata a servizio di uno Stato da crearsi. “Determinare chi emette le banconote non è solo una questione tecnica, ma anche politica. Si tratta di precisare chi è il sovrano”. La posta in gioco, definita dalla potenza dominante nel campo occidentale, gli Stati Uniti, era essenzialmente politica: creare un nuovo Stato che consentisse di affrontare la potenza comunista. Insomma, “la Guerra Fredda ebbe come primo campo di battaglia la questione monetaria”. “Siamo nell’ambito più puro della sovranità”. Un quadro concettuale che faccia della moneta uno strumento naturale degli scambi è indifendibile. Indifendibile è quella che Jean-Yves Grenier e André Orléan definiscono l’inversione del rapporto tra economia e politica. O meglio, accettabile può esserlo, secondo “una forma così particolare di liberalismo”. Tuttavia, perché, da parte di Foucault, “questa ricerca così perigliosa di un’economia e di una politica senza sovranità?”
Perché il suo vero obiettivo era l’autonomia del soggetto, resa possibile grazie a un governo autolimitato. Il primato dell’economia sulla politica sarebbe stato perciò la garanzia migliore al fine di rendere effettiva l’indipendenza del soggetto, perché “l’economia è una disciplina senza totalità”. A dispetto di tutto, ci sarebbe dunque “una filosofia politica dei due corsi qui considerati”. E sarebbe attraversata da una “tentazione liberale”. Una conclusione che non può sorprendere. Giudichi chi legge se possa essere davvero conseguente a quanto si legge nella lunghissima citazione dagli autori riportata, da loro considerata essere espressione di una “ricca analisi”, e nella quale Foucault dice, tra l’altro, di voler ragionare su quanto vede profilarsi all’orizzonte: “una società in cui dovrebbe verificarsi l’ottimizzazione dei sistemi di differenza, in cui dovrebbe essere lasciato campo libero ai processi di oscillazione […]”. Quello che mi sembra certo è che il richiamo, da parte dello stesso Foucault, a una società “in cui dovrebbe essere esercitata un’azione non sui giocatori coinvolti nel gioco, ma sulle regole del gioco”, di fatto, evoca in pieno la tradizione politica ordo-liberale. Ma forse è troppo poco per situare un pensiero “insituabile”.