Descrizione
Carlo Saletti (a cura di)
Fine terra.
Walter Benjamin a Portbou
Agli inizi dell’autunno del 1940, il quarantottenne Walter Benjamin attraversa la sua ultima frontiera. Nel marzo del 1933, abbandonata una Berlino ormai avvolta da un’aria “assai poco respirabile”, raggiunge Parigi, trovandovi un temporaneo rifugio, che nel giugno del Quaranta dovrà però abbandonare in seguito all’occupazione tedesca. Sottoponendosi a uno sforzo che per lui, sofferente di cuore, sarebbe potuto risultare fatale, il 25 settembre varcò clandestinamente il confine franco-spagnolo, seguendo un estenuante itinerario tra le montagne pirenaiche. In serata, giunto a Portbou, piccolo villaggio catalano, poiché sprovvisto dei documenti necessari per lasciare la Francia, sarebbe dovuto essere immediatamente riaccompagnato al confine. Tuttavia, gli venne concesso di passare la notte in paese. Prese così alloggio in un albergo, ma di lì a qualche ora si tolse la vita.
Sulla base di documenti ritrovati nei primi anni Novanta del Novecento e di nuove testimonianze, il libro indaga minuziosamente sulle ultime ore della vita di Walter Benjamin, sul suo decesso e sulla singolare vicenda della sepoltura, presentando evidenze documentali, congetture e dubbi ancora irrisolti. Ma esso vuole essere anche una guida per chi, avendo scelto di recarsi in quel villaggio sulla riva del Mediterraneo, intenda sostare dinnanzi a ciò che, oggi, ricorda l’ultimo passaggio dell’apolide in fuga dall’Europa in fiamme.
Carlo Saletti fa parte della direzione scientifica della “Maison d’Izieu. Mémorial des enfants juifs exterminés”. Figura tra i collaboratori del Dictionnaire de la Shoah (Larousse, 2009) e per i nostri tipi ha curato Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (2004).
Rassegna stampa
Filosofia del presente
WALTER BENJAMIN (1892-1940)
La morte di un filosofo ‘flaneur’
di Mario Lunetta
Nel bellissimo volume “Fine Terra. Benjamin a Portbou”, ottimamente curato da Carlo Saletti per Ombre Corte, si ricostruiscono con grande precisione gli ultimi giorni di vita di uno dei più importanti e originali pensatori del XX secolo. In fuga dai nazisti che avevano invaso la Francia, approda con altri esuli in un paesino spagnolo di frontiera con la speranza di poter emigrare negli Stati Uniti. Ma lì il grande ‘déraciné’ berlinese, travolto dalle sue angosce e dal suo precario stato di salute, finisce per lasciarsi morire a soli 48 anni. In coda una poesia a lui dedicata.
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Il Venerdì di Repubblica, 24.9.2010
Il mistero di Walter Benjamin. Gli enigmi del suicidio e dell’ultimo manoscritto nella ricevuta di un hotel
di Tommaso Basevi
A 70 anni dalla morte, un libro, Fine Terra, raccoglie tutte le testimonianze di chi, a Portbou in Catalogna, visse i giorni più tragici e disperati dell’intellettuale ebreo che cercava di raggiungere gli Stati Uniti per sfuggire al nazismo.
Portbou. Una valigetta di cuoio nera, contenente un misterioso manoscritto. Un corpo senza vita tumulato in fretta. Date falsate. Una tomba nel camposanto “sbagliato”. Il tragico epilogo dell’esistenza di Walter Benjamin, di cui ques’anno ricorre il 70 anniversario della morte, ha tutti gli ingredienti per un racconto “poliziesco” avvolto com’é da una moltitudine di interrogativi ancora irrisolti. Guarda caso, Gershom Scholem (a proposito del suo amico di una vita) ricordava come egli fosse “un appassionato lettore di romanzi gialli in particolare quelli di George Simenon e di Maurice Leblanc, l’inventore di Arsène Lupin, il ladro gentiluomo”. Mettere ordine alle domande, alle risposte, ai dubbi su cosa effettivemente sia successo nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1940 nella stanza numero 4 dell'”Hotel de Francia” e nelle ore successive al ritrovamento del corpo senza vita dell’autore delle “Tesi sul concetto di storia” e di “Infanzia berlinese” è l’obiettivo del libro Fine Terra-Benjamin a Portbou in uscita in questi giorni per Ombre Corte (casa editrice che già nel nome rinvia a una terminologia “benjaminiana”). L’opera, curata da Carlo Saletti, assembla e presenta per la prima volta ai lettori italiani ampi stralci del lavoro collettaneo Für Walter Benjamin. Dokumente, Essays und ein Entwurf diretto dagli storici tedeschi Ingrid e Konrad Scheurmann.
“La sua esistenza e la sua tragica fine – precisa Saletti – non sono che una tessera del più vasto fenomeno dell’esilio europeo nel Novecento. La sua è stata una di quelle vite mutilate – secondo la definizione che ne ha dato Theodor Adorno – di cui è costellata la miseria morale in cui piombò il continente”.
Proviamo ad immergerci in quelle convulse ore in cui Benjamin il fuggiasco, provato nel fisico e nel morale dall’esilio e dal sentimento di una catastrofe al tempo stesso individuale e collettiva, si lascia inghiottire dalla Storia e dall’inesorabile avanzata della “peste nera” che, partendo da Berlino, cuore del Terzo Reich, sta divorando l’Europa.
Il cul del sac in cui Benjamin finisce ingabbiato ha un nome catalano: Port Bou. L’estate è appena finita ma fa ancora caldo. Quello è il primo villaggio oltre il confine francese. Un borgo di pescatori e di contrabbandieri dominato da una gigantesca estación de ferrocarril e da una cupa chiesa neogotica, che sembra benedire treni fantasma. Le strade del piccolo pueblo di frontiera sono ancora costellate di macerie. Bombe italiane. Qui, come a Barcellona, gli aerei del regime mussoliniano avevano da poco finito di scaricare morte per stroncare la resistenza dei “rossi”. Nella galleria che conduce in Francia, migliaia di profughi repubblicani, laceri e in rotta davanti all’avanzata franchista, si erano ammassati in cerca di salvezza: una tragica epopea passata alla storia con il nome di Retirada.
Benjamin è, come i repubblicani spagnoli, un esule. Come loro è costretto alla fuga, ad attraversare una frontiera. Solo la linea di deriva è inversa. E le date sfasate: novembre 1936-settembre 1940. Per sette anni, era vissuto in esilio a Parigi, con poche lire in tasca, passando le notti in solitudine a scrivere lettere ad amici e conoscenti dispersi per il mondo, a passeggiare lento per i boulevard della grande città in tortousa flanerie, avvolto in un malinconico anonimato. Poche ore prima dell’occupazione nazista della capitale del XIX secolo, il “vecchio Walter” era ancora curvo sui libri e inforcava i suoi occhialini da miope ripiegato su uno scranno della Biblioteque Nationale de France.
Frenato da una proverbiale incapacità a prendere decisioni di ordine materiale, dall’ancestrale sentimento di appartenere alla categoria degli “sconfitti” segnati dalla “sfortuna” (raffigurata, fin dai tempi delle reverie infantili, in una sorta di alter ego che lui chiamava il “gobbetto”) si deciderà, solo dopo reiterate sollecitazioni e snervanti peripezie, a ricercare un visto che dovrebbe condurlo fino a New York, via Lisbona. Il suo status è quello dell’apolide. Privato della nazionalità tedesca, ma considerato comunque un “sospetto” dopo la dichiarazione di guerra alla Francia, Benjamin passerà tre mesi in un campo di detenzione nei pressi di Nevers. Riuscirà ad uscirne per finire a Marsiglia e poi, via treno, a Banyuls. Il Sud della Francia è infestato dai miliziani del regime collaborazionista di Vichy, da agenti della Gestapo, da informatori di ogni sorta. Bisogna tagliare la corda e farlo al più presto. La via obbligata passa per i Pirenei.
Un viaggio massacrante che sarà raccontato anni dopo da Luisa Fittko, anche lei appartenente alla cerchia dell’intellighenzia ebraico-tedesca riparata in Francia e riciclatasi in guida per i fuggiaschi sul confine pirenaico: “Quell’uomo -ricorderà la Fitkko – sembrava molto più anziano dei suoi 46 anni, e continuava a rivolgersi a me chiamandomi gnädige Frau, cortese Signora. Un’espressione desueta che, in mezzo a quelle montagne spelacchiate, con magari uno scheletro di capra al nostro fianco, produceva un effetto assurdo (…) Era qualcuno di molto particolare (…) e non riusciva ad agire istintivamente Non ce la faceva proprio. Non credo che riuscisse a prendere in mano una tazza di the bollente, se prima non aveva elaborato una teoria. Insomma, in quei tempi bisognava trovare un mezzo qualunque per tirarsi fuori dai guai. Adattarsi rapidamente a ciò che accadeva non era però il suo forte”.
In paese ad aspettare Benjamin e i suoi compagni di fuga c’è la Guardia Civil. Niente visto di entrata. La mattina seguente, sono gli ordini, i fuggitivi dovranno venire riportati indietro. Benjamin con sè ha una consistente dose di morfina. Ed è pure cardiopatico: tant’è che, lungo il cammino, si era dovuto fermare più volte, sudato e senza fiato. Per ricostruire quanto successo, il primo indizio è una fattura emessa il primo di ottobre del 1940 dai gestori dell'”Hotel de Francia” e riguardante “el defunto Benjamin Walter”. E’ estremamente dettagliata ed ora la copia è esposta nel Centro Civico di Portbou in attesa che apra il centro culturale che, nelle intenzioni dei promotori della Fondazione Walter Benjamin, dovrà divenire un luogo di incontro (un ostello culturale) aperto ai ricercatori di ogni paese interessati ad approfondire le tante piste aperte da un filosofo che ormai è considerato, unanimente, tra i più importanti pensatori del secolo scorso.
Cosa c’è scritto in questo foglio che ha incuriosito e fatto scervellare le sempre più nutrite legioni di esegeti del filosofo e gli studiosi travestiti da detective che, negli ultimi anni, si recano a Portbou in pellegrinaggio ogni fine settembre?
Diamo un occhiata alla ricevuta: “26 settembre cena e pernottamento: totale 12 pesetas”. Più 5 pesetas per il consumo di altrettante gazzose al limone, 8,80 pesetas corrispondenti a quattro telefonate (su chi rispose dall’altra parte della cornetta non ci sono certezze, ma Benjamin avrebbe tentato senza successo di contattare l’ufficio consolare Usa a Barcellona senza ottenere, però, nessun aiuto). E ancora 13 pesetas di prodotti farmaceutici consegnati all’hospes estranjero e, infine, altre quattro notti, quelle dal 26 al 30 messe in conto assieme ai cambi di biancheria e alle spese di disinfestazione, pulizia e vestizione del defunto.
Ecco la prima stranezza: Benjamin fu trovato senza vita, nella spoglia stanzetta del “Francia”, la mattina del 27. La diagnosi del medico è arresto cardiaco: non c’è nessun riferimento alla morfina che invece Benjamin, che già aveva tentato una volta il suicidio, avrebbe assunto in dose letale. Sulla nota spese, poi, risultano contabilizzate altre tre notti. Forse solo un cinico modo di spillare soldi a gente in difficoltà (il gruppo che era in fuga con Benjamin). Ma tant’è: anche il cognome sul certificato di morte è errato: Walter e non Benjamin. Per questo la salma dell’ebreo errante verrà seppellita nel settore cattolico del cimitero sul mare che Hannah Arendt, alcuni anni dopo, definirà “uno dei posti più belli del mondo che mi è stato dato vedere”. Dopo 5 anni, i suoi resti (mai più ritrovati) spariranno, mentre un cenotafio farà la sua comparsa poco più in là per soddisfare gli ancora sporadici visitatori alla ricerca di tracce del filosofo.
“Quando eravamo bambini, ricordo che di quella morte parlavano tutti in paese. Se ne discuteva sottovoce. La fine di quell’uomo sconosciuto era avvolta da un alone di leggenda. Noi giocavamo sotto l’hotel, oggi chiuso, dove el senor Benjamin aveva passato la sua ultima notte e ci facevamo paura a vicenda…” racconda Isidro Gubert, albergatore con il vezzo della recitazione che, l’inverno scorso, ha vestito i panni del pensatore ebreo (cui assomiglia come una goccia d’acqua) per le riprese di un film francese. E la sua valigia nera, che fine ha fatto? “La Guardia Civili inviò tutto a Figueres, ma nessuno poi l’ha più ritrovata. L’avranno buttata via con i documenti che conteneva e che saranno marciti per anni in cantina”. Pare che Benjamin tenesse più al manoscritto, conservato in quella valigia, che alla sua vita. “Durante il viaggio non volle mai separarsi da essa” si legge nelle memorie scritte anni dopo dalla Fittko e tradotte qualche anno fà in italiano da Manifestolibri.
All’interno c’erano pochi effetti personali e, pare, una copia dei Passages che Benjamin voleva portare con sé negli Stati Uniti dove lo aspettavano Horkheimer e Adorno. Il lavoro di una vita, la cartografia, frammentata e asistematica, della metropoli simbolo della Modernità. Un testo che, in controluce, contiene tracce e indizi dell’incendio imminente. Il ricorso alla metafora delle fiamme non è casuale. Segnalatore di incendi è infatti il titolo di un testo anticipatore scritto anni prima da Benjamin. L’incendio si è propagato ed ha avvolto il suo segnalatore quando ormai la salvezza pareva a portata di mano. Il “gobbetto” dei sogni infantili ha riacchiappato il suo doppio a un passo dal confine.
Portbou oggi è cambiata. A settembre sulla spiaggia ci sono gli ombrelloni e, nella piccola rada, barche a vela francesi e catalane. Ma il cimitero a picco sul mare è ancora lì, con accanto un bellissimo e discreto memoriale che ti proietta giù, gradino dopo gradino, nel blu cobalto del Mediterraneo.
UN ASSAGGIO
Indice
Introduzione: L’ultimo Benjamin
di Carlo Saletti
Il clandestino
Intervista a Lisa Fittko di Richard Heinemann
La notte di Porbou
di Ingrid Scheurmann
Memoria di un passaggio
Intervista a Dani Karavan di Ingrid e Konrad Scheurmann
Costellazione. Guida alle persone, ai luoghi, alle circostanze
di Carlo Saletti
Cronologia
Bibliografia