Descrizione
Henri Lefebvre
Il diritto alla città
Prefazione di Anna Casaglia
Traduzione di Gianfranco Morosato
Il diritto alla città di cui ci parla Henri Lefebvre in questo suo straordinario e lungimirante lavoro non esprime semplicemente la rivendicazione di bisogni essenziali. Esso si configura piuttosto come una qualità specifica dell’urbano, che comprende l’accesso alle risorse della città e la possibilità di sperimentare una vita urbana alternativa alle logiche e ai processi di industrializzazione e di accumulazione del capitale. “Il diritto alla città – scrive infatti Lefebvre – si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città”. Tale diritto passa perciò attraverso la rottura dei dispositivi di controllo e di omologazione della vita quotidiana, attraverso una riappropriazione dei tempi e degli spazi del vivere urbano che richiede una nuova configurazione delle relazioni sociali, politiche ed economiche, a partire da un drastico cambiamento nell’arena decisionale. “Il nostro principale compito politico, suggerisce Lefebvre, consiste allora nell’immaginare e ricostituire un modello di città completamente diverso dall’orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente”. Prefazione di Anna Casaglia.
Henri Lefebvre (1901-1991) è uno dei maggiori filosofi del xx secolo. Autore di numerosi lavori tradotti in diverse lingue, attualmente gode di una riscoperta a livello mondiale. In italiano si possono leggere tra gli altri: La rivoluzione urbana (1970); Il marxismo e la città (1972); La produzione dello spazio (1974); Critica della vita quotidiana (1958-1961); e per i nostri tipi Spazio e politica (2018).
RASSEGNA STAMPA
il manifesto – 28 gennaio 2015
I segni cangianti di un’opera aperta
di Benedetto Vecchi
Sono passati molti lustri da quando il filosofo francese Henri Lefebvre mandò alle stampe una riflessione sulla città — Le droit à la ville — critica nei confronti di una visione della metropoli allora dominante. A distanza di decenni, quell’analisi conosce un inedito e a tratti condivisibile revival, grazia a un lavoro di riscoperta che fa leva sui movimenti sociali che puntano alla riappropriazione della metropoli dopo una corrosiva privatizzazione dello spazio pubblico.
Molte le differenza tra l’ordine del discorso allora dominante e quello attuale. Nei turbolenti anni Sessanta, infatti, gli urbanisti, affascinati dalle oscure declamazioni di Talcott Parson sulla realtà come un «sistema chiuso», sostenevano che la città era da considerare appunto un sistema autoreferenziale che stabiliva corrosivi rapporti di feedback con l’ambiente circostante al fine di riprodurre una forma del vivere sociale che non ammetteva alternativa al suo divenire.
La prima edizione del saggio di Lefebvre è del 1970, ma fu presto archiviato perché ritenuto un manoscritto incompleto. Da alcuni anni, però, il geografo David Harvey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di suggestioni per analizzare il ruolo della metropoli come un hub delle dinamiche economiche e sociali della contemporaneità. Ha dunque fatto bene la casa editrice ombre corte a ripubblicarlo, corredandolo di una utile prefazione di Anna Casaglia, che inquadra storicamente il saggio del filosofo francese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).
I monumenti del potere
Il funzionalismo rappresentava per Lefebvre un macigno che impediva un’adeguata analisi della città, anche se invitava comunque a prendere ciò che di buono avevano prodotto gli emuli europei di Parson: l’idea cioè che la città è la forma del vivere associato che meglio di altre consente a definire il luogo, meglio i luoghi della produzione della ricchezza.
È su questo crinale che Lefebvre usa una famosa frase di Marx laddove scriveva che se il mulino sta al capitalismo mercantile, la macchina al vapore sta al capitalismo industriale. Lefebvre la evoca per sintetizzare la successione delle diverse forme di città che hanno accompagnato lo sviluppo economico. Così la città orientale è connaturata al modo di produzione asiatico, mentre la città antica è funzionale all’economia schiavistica, così come la città medievale ha potuto imporsi solo in presenza del feudalesimo.
Al di là di questa tassonomia, tanto la città orientale che quella medievale erano i luoghi dove re, imperatori, aristocratici e mercanti ostentavano il loro potere e status. La città è immaginata come un’opera che rispecchi una concezione dominante delle relazioni e gerarchie sociali. Ma in quanto «opera», non può rimanere indifferente al divenire storico e sociale. Deve cioè mutare.
La città, dopo il Rinascimento, diventa così il luogo dove il reale deve manifestare una intima coerenza, un’armonia monumentale che occulti la dimensione sociale, conflittuale che è insita a questa forma del vivere. Una coerenza del reale che non verrà mai raggiunta. I monumenti, le opere architettoniche, i dipinti e disegni rinascimentali sono cioè da considerare la rappresentazione iconografica di una città ideale che non è mai esistita, né che esisterà mai.
Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sarcastica critica di tutte le metafore «naturalistiche» della città (il tessuto urbano, l’habitat urbano), segnalando che la nostalgia per un passato mitico sulla città rappresenta l’incapacità del potere costituito di prospettare una riconciliazione della società urbana con il territorio.
E se per la maggioranza della popolazione diviene è al tempo stesso il luogo di un possibile riscatto da una condizione di indigenza e povertà e lo spazio dove i legami sociali primari – la famiglia, la parentela, persino le corporazioni – sono stravolti dallo ormai inarrestabile sviluppo capitalistico, per gli urbanisti è lo spazio dove immaginare una riconciliazione tra l’«ordine prossimo» (le relazioni sociali determinate dal regime della proprietà privata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per questo, secondo Lefebvre, gli urbanisti sono gli ideologi per eccellenza del capitalismo, perché con i loro progetti e interventi fanno sì che la città diventi la «mediazione delle mediazioni», cioè lo spazio dove il potere costituito ha la sua legittimazione.
L’impossibile sintesi
Non sembri però una nota stonata che in questo piccolo, ma denso saggio non compaiano mai riferimenti ai filosofi, sociologi che tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento hanno scritto pagine importantissime sulla città. Georg Simmel è infatti ignorato, così come il Walter Benjamin della «Parigi capitale del XX secolo». E nulla viene detto sulle riflessioni di un modernista convinto come lo statunitense Lewis Munford. Un solo passaggio liquidatorio è dedicato a Le Courbusier, ritenuto un funzionalista che ambisce a diventare l’«uomo di sintesi» di quella che viene ironicamente chiamata la società urbana.
L’obiettivo di Lefebvre, infatti, non attiene allo svelamento di come si è formata la metropoli, bensì di registrare un’altra «grande trasformazione» in corso tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento. Il progetto razionalista di riportare ordine nelle metropoli è stato sconfitto da un’alleanza tra urbanisti, amministratori e immobiliaristi tesa a trasformare la città in una «infrastruttura» del governo politico della società e della produzione di merci. La metropoli non è cioè un luogo passivo che riflette ciò che avviene nel mondo della produzione, ma è il contesto dove l’urbano interviene direttamente nella produzione.
Il diritto alla città auspicato da Lefebvre è così un antidoto a una totalità dove produzione, consumo e circolazione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma complementari l’uno all’altro nel tempo e nello spazio. Per questo la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desiderio, dei bisogni sociali, della dimensione ludica, trasgressiva inerente i rapporti sociali, ma anche lo spazio dove il potere punta ad esercitare una funzione di controllo a distanza attraverso incentivi alla produzione di segni che rispecchino sì la dimensione multiforme dei rapporti sociali, ma per piegarla alla riproduzione dei rapporti sociali.
Può sembrare un’ironia della storia, ma Lefebvre scrive del conflitto sempre più evidente tra un 99 per cento della popolazione e un 1 per cento che si appropria di tutta la ricchezza prodotta. Lo scrive due anni dopo che nel quartiere latino di Parigi oltre a bruciare le automobili è stato archiviato il sogno razionalista di una città ordinata e facilmente controllabile attraverso le forze preposte all’ordine pubblico. Ma all’orizzonte non c’era nessun Occupy Wall Street, né movimento sociale teso alla riappropriazione dello spazio urbano trasformato in un atelier produttivo.
Lefebvre annota solamente che la totalità costituita dalla città ha bisogno di strumenti sofisticati per essere destrutturata. La filosofia e la sociologia, certo, ma anche la linguistica, l’antropologia, la teoria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indicano solo un programma di lavoro che Lefebvre continuò a svolgere, intersecandolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle librerie, come la monumentale critica della vita quotidiana e l’altrettanto ambizioso studio sullo Stato.
Le comunità recintate
Il diritto alla città potrebbe essere dunque considerato un libro anticipatore di quanto sarebbe accaduto una manciata di anni dopo la sua pubblicazione. Da allora molta cemento è passato sotto i ponti. Le metropoli sono diventate un atelier produttivo che ingloba il territorio all’interno di un processo che vede la compresenza di finanza, produzione e cooperazione sociale, dove la città deve continuare ad essere la mediazione delle mediazioni. C’è chi ha scritto (Mike Davis) di metropoli che vedono quartieri recintati dove la sovranità dello stato si ferma ai cancelli delle gated community, spingendosi a decretare la morte della città, ridotta ormai a una sommatoria di slums dove il 99 per cento della popolazione è sussunta dentro logiche produttive che assegnano all’economia informale di sussistenza una funzione di soft governance della cooperazione sociale.
C’è inoltre da registrare la pregnante analisi di Saskia Sassen, che ha fatto delle «città globali» il punto di partenza per un’analisi della globalizzazione liberista che vede nelle metropoli manifestarsi una sovranità sovranazionale che plasma a sua immagine e somiglianza il rapporto tra potere esecutivo, legislativo e giuridico. Segnali di una rappresentazione distopica della città sono venuti dalla narrativa di genere (William Gibson, Bruce Sterling) che guarda alla metropoli come un immane deposito di segni e informazioni piegate a una logica del controllo sociale che non consente nessuna via di fuga.
I nuovi comunardi
Si deve però a David Harvey la ripresa delle tesi di Henri Lefebvre. Anzi si può dire che il filosofo francese ha funzionato come un invisibile filo rosso che tiene insieme l’analisi critica del capitalismo svolta da Harvey sul capitalismo del nuovo millennio, laddove individua nella città il luogo dove l’intreccio ormai inestricabile tra finanza e produzione sono funzionali a un uso capitalistico del territorio. Ciò che per il filosofo francese era una esile tendenza, la trasformazione della metropoli in un atelier produttivo è diventata una realtà acquisita.
Per questo sulla città si addensano, tanto nel Sud che nel Nord del pianeta, strategie di governance e progetti di parchi tecnologici, di distretti universitari che favoriscano processi di innovazione sociale e produttiva. La metropoli deve essere cioè uno spazio dove il sapere sans phrase è forza produttiva. E che per questo, devono essere definiti meccanismi di inclusione sociale differenziata in base al lavoro svolto, il colore della pelle e il genere sessuale di appartenenza.
La città diviene così il luogo dove agisce una composizione sociale che eccede la figura dell’operaio di fabbrica, come invece sosteneva Lefebvre. E se per il filosofo francese il diritto alla città era una condizione necessaria per non soccombere a una pervasiva e alienante produzione di segni, per il presente è da considerare un vettore per l’azione politica di figure produttive sempre sul confine che separa il lavoro dal non lavoro, tra tempo di lavoro e tempo di vita, sia che si tratti di precari dei fast-food, di knowledge workers, di migranti o «indigeni». Ciò che per Lefebvre era solo un miraggio, il diritto alla città è da considerare l’orizzonte ineludibile di un’attitudine «comunarda» per la riappropriazione della ricchezza prodotta.
UN ASSAGGIO
Prefazione
di Anna Casaglia
Quando fu pubblicato per la prima volta in Italia, nel 1970, il testo di Lefebvre forniva una lettura lungimirante delle trasformazioni nelle modalità di sviluppo urbano in Francia durante gli anni Sessanta del Novecento, in larga misura simili a quelle in atto nelle città italiane e in molte altre città europee nello stesso periodo. In quel momento storico la combinazione di diversi elementi – la forma di produzione fordista, l’espansione del welfare state, la migrazione dalle aree rurali, i cambiamenti delle strutture spaziali e l’influenza della modernizzazione nella vita quotidiana – portava a quella che Lefebvre definiva come una crisi della città.
La riedizione di questo libro risulta particolarmente importante oggi, nel momento in cui in molti si chiedono se stiamo assistendo a una nuova crisi urbana, e il concetto di “diritto alla città” è stato largamente ripreso per provare a definire le rivendicazioni dei movimenti sociali urbani contemporanei.
Da un lato è sempre più diffusa l’idea – per molti versi sicuramente semplicistica – che il mondo stia entrando nella cosiddetta “età urbana”, dal momento che più di metà della popolazione mon- diale vive in città. La mutata relazione urbano-rurale, già al centro della riflessione di Lefebvre negli anni sessanta, è uno dei punti centrali nell’analisi delle città e dello sviluppo urbano contemporaneo. Dall’altro, i movimenti sociali urbani recenti, dalla primavera araba a Occupy e agli Indignados, hanno messo in luce le connessioni tra il modello di crescita neoliberista e la struttura spaziale e sociale delle città, portando in primo piano questioni legate alla cittadinanza, all’accesso alle risorse e alla giustizia sociale declinate a livello territoriale.
È utile quindi ripartire da Lefebvre e da questo testo del 1967, per comprendere meglio quali siano i “sintomi” della crisi della città e per capire se il concetto di “diritto alla città” possa davvero servire ancora oggi a definire i bisogni e le rivendicazioni degli abitanti delle aree urbane contemporanee e, ancor più, fornire strumenti utili agli scienziati sociali per interpretare queste istanze e contribuire alla loro realizzazione.
Lefebvre considera la città una metafora, o una sineddoche come precisato da Peter Marcuse3: la “proiezione della società sul territorio” (infra, p. 62). La sua crisi riguarda quindi la società nella sua declinazione spaziale, ed è una crisi legata a doppio filo allo sviluppo e all’espansione del sistema capitalistico industriale. La città non è semplicemente lo scenario in cui ha luogo la concentrazione del capitale, ma prende parte attiva nell’organizzazione industriale e quindi nella produzione stessa e nei meccanismi di sfruttamento a essa legati. La dissoluzione della città intesa in senso classico si struttura intorno all’omogeneizzazione degli stili di vita e alla colonizzazione della vita quotidiana da parte della tecnica industriale. La crisi si esprime anche nell’abitare: nell’alternarsi di villette unifamiliari delle classi medie e periferie di palazzi abitati dalla classe operaia, in una monotonia che ben si accompagna all’ordine urbano burocratizzato e ai processi lavorativi industriali.