Descrizione
Vincenza Pellegrino
Futuri testardi
La ricerca sociale per l’elaborazione del “dopo-sviluppo”
Prefazione di Vando Borghi, Postfazione di Claudio Conte
In questo volume, dedicato al tema del futuro come “prodotto culturale”, Vincenza Pellegrino discute i risultati della ricerca sociale attuata attraverso la rivisitazione del metodo “Future Lab”. Si tratta di un tipo di ricerca-azione di lunga durata, basata sulla alternanza tra stimoli art-based, brainstorming collettivi e argomentazioni a base tematica, che favorisce un passaggio collettivo dal risentimento a forme di critica sociale. Nello specifico, la ricerca coinvolge diversi gruppi di giovani chiamati a immaginare l’evoluzione del presente in chiave prima distopica e poi utopica, per discutere infine quali trasformazioni possano “gettare ponti” verso i mondi auspicati. Ne emerge un immaginario complesso, ma espresso con rappresentazioni ricorrenti tese al superamento delle “crisi” prodotte dell’economia tardo capitalista. Vengono evocati ad esempio nuovi ordini post-statuali, forme di cittadinanza globale come diritti/doveri d’accoglienza; nuove istituzioni democratiche più propriamente “g-locali”, con la federazione tra città-stato; forme di co-gestione concreta e quotidiana delle istituzioni, a partire da una scuola “orizzontale”, da nuove forme di social housing basate sulla convivenza tra generazioni e così via.
Costrutti complessi – ritenuti solitamente appannaggio di élite intellettuali e rimossi dal dibattito pubblico e mediatico – rivelano invece un immaginario sul “dopo-sviluppo” vivo in questi giovani, che nutrono forti aspirazioni a un mondo migliore.
Vincenza Pellegrino è professoressa associata di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università di Parma, dove insegna Politiche Sociali e Sociologia della Globalizzazione, dirige il corso di perfezionamento in Welfare Pubblico Partecipativo ed è delegata del Rettore alle attività del Polo Universitario Penitenziario. Tra i suoi numerosi lavori, per i nostri tipi ha pubblicato Futuri possibili (2019) e curato R/esistenze precarie (2016).
UN ASSAGGIO
Breve nota a margine
Scrivere di futuro al tempo del Coronavirus
Quando saremo troppo famelici, aggrovigliati come formiche sul miele, tutti stretti gli uni a spingere contro gli altri come competitori ottusi, ad ammassarci sul miele, ecco che verrà qualche malattia, tipo un virus potente, un nemico che non guarda in faccia, e ci troverà tutti lì, indaffarati a litigare, e ci contagerà in così poco tempo che non riusciremo neanche a smettere di litigare.
Citazione da un Future Lab, 2017
Questo ti voglio dire, ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo.
Lo sentivamo tutti ch’era troppo furioso il nostro fare.
Stare dentro le cose. Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora farla fruttare.
Ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa. Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano che ci potesse bloccare. […]
Adesso siamo a casa.
A quella stretta di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro.
Mariangela Gualtieri, 9 marzo 2020
Concludere questo libro sul futuro mentre impazza il Coronavirus è surreale. Mentre correggo le bozze – a metà marzo 2020 – intorno a me le scuole chiudono, i treni e le fabbriche si fermano, le strade si svuotano, insomma tutto rallenta per paura del contagio. Da un lato, pare una delle distopie che sono nel libro: la Natura è ancora più forte di noi, può ancora liberarsi di noi, può ridimensionare la nostra tracotanza. Dall’altro lato, proprio come tenta di fare il libro, la crisi svela elementi importanti per pensare più seriamente l’utopia.
Certo il dolore delle famiglie travolte dalla malattia connota tutto. Eppure, un rallentamento di cui abbiamo bisogno e del quale non siamo capaci, ora ci viene imposto. In qualche modo, del tutto non previsto, troviamo cose: ci alziamo alle 9 senza essere sradicati con violenza dai letti; giochiamo con i figli ancora pieni di energia e non alla sera stremati; lavoriamo gestendoci il tempo (e ne resta per scrivere lettere sapendo che altri le leggeranno); i delfini nuotano nel bacino di San Marco perché l’acqua dei canali è tornata limpida, i parchi sono pieni di lepri e la pianura padana – vista dai satelliti – è verde.
Ma non è tanto questo che conta (perché è ultra reversibile), quanto piuttosto la ritrovata sensazione che si può invertire una rotta.
Non lo dico in modo retorico, per addolcire le cose (che restano intrise di tristezza e contraddizione come se il senso prodotto in questo momento da ogni scelta fosse insufficiente). E non lo dico nemmeno nella convinzione che questa tragica esercitazione ci farà finalmente considerare le conseguenze del sistema nel quale viviamo, quella globalizzazione che ha sviluppato in maniera insostenibile l’allevamento industriale degli animali e le macro-fattorie ritenute da molti studiosi il principale fattore di infezioni da batteri e virus potenziati, o che ha suddiviso il mondo in province produttive assurde, per cui la produzione di armi è disseminata ovunque nel Nord del globo mentre quella di farmaci o oggetti-salvavita come le mascherine è affidata solo a poche zone specifiche, come ricorda Badiou. (Una catastrofe ha sempre una sua storia, ma forse è difficile volgersi più seriamente all’indietro proprio mentre si sta svolgendo.)
Lo dico allora piuttosto nella speranza che questa situazione sia capace di scalfire l’idea che la politica è impotente davanti alle apocalissi – idea molto radicata oggi in quel “realismo capitalista” che ho largamente esplorato nel mio primo volume sul futuro –, e di diffondere nuovamente il desiderio di governare la storia.
In fondo, al di là del tipo di decisioni prese sin qui, questi giorni mostrano che siamo ancora abbastanza forti per decidere e organizzare un senso di marcia contrario all’inerzia. Al di là di momenti di panico e qualche atteggiamento difensivo, vedo intorno a me una città che si organizza in nome dell’interesse di tutti pur a partire dalla maggiore debolezza di alcuni, che resta solidale, mostra la forza di competenze professionali che non arretrano davanti al sacrificio della vita (cosa per nulla scontata), la tenacia del volontariato, e così via.
Continuare a ripetere a quanto ammonterà il danno economico lo trovo un atteggiamento politico specifico, che esprime la forza del pensiero conservatore dominante. Magari è un calcolo necessario a chi governa per guidare il cambiamento, ma non deve essere usato per rimuovere l’imprevisto che ci mette di fronte alla scelta e che prelude alla possibilità di cambiare. In questi giorni mi dico che contenere davvero le emissioni globali di co2 o estendere il servizio sanitario a tutte le popolazioni del globo, comporterebbe egualmente il prezzo: esperirlo ora può aiutare i più a capire di cosa possiamo esser capaci.
Il seguito certo resta aperto. In una delle tante email che girano in questi giorni tra colleghi, con l’intento di capire insieme quanto avviene, uno di loro racconta che Defoe, in un libro sulla peste del 1665 a Londra, parlava di dame reputate che, nell’incertezza del futuro, si diedero al primo venuto, mostrando come a trattenerle da tempo fosse la cura della reputazione piuttosto che il timore di Dio, ma appena declinata la peste ripresero a presentarsi come le più savie. Vero. Però, grazie ad un’altra peste, quella 1348, gli inglesi chiesero ai padroni un salario raddoppiato con tanta urgenza da avviare leghe cooperative che neppure il re osò più sciogliere. A volte le distopie reali danno forma organizzativa a desideri di massa ancora informi, che poi durano nel tempo; altre volte, portano all’emersione di cose già presenti ma dissimulate, che tornano carsiche al cessato pericolo.
Vedremo. Io spero che quanto stiamo imparando pesi positivamente sul futuro molto problematico che attendeva comunque la Terra, al di là e prima del Virus, quello che i giovani della ricerca già temevano e rispetto al quale cercavano di immaginare vie di uscita, delle quali spero terremo più conto ora che la crisi ci impone il cambiamento.
Comunque, è davvero una coincidenza incredibile terminare un libro sulla capacità collettiva di ribaltare l’immaginario distopico in immaginario utopico, proprio quando il mondo lotta per ribaltare una distopia reale (la pandemia) in utopia reale (il rallentamento necessario per la cura reciproca): faccio il tifo con tutto il cuore.
Parma, 5 aprile 2020