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Il male minore
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La tutela dei minori stranieri come esclusione
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il manifesto - 07 Febbraio 2005
Figli di uno stigma minore
Una ricerca di Gabriella Petti sulla legislazione e le pratiche sociali a tutela dei minori "stranieri" in un libro edito da Ombrecorte. Tra pietismo di massa e rimpatri forzati
di ANNA SIMONE
Nel 1983 Michel Foucault rilasciava un'intervista a Robert Bono, allora segretario nazionale della Confédération française démocratique des travailleurs (CFDT). Alla domanda diretta postagli sulla relazione che intercorre tra libertà, autonomia e stato, Foucault rispondeva a chiare lettere che se il prezzo da pagare per l'integrazione passa attraverso i dispositivi della famiglia, del lavoro o dell'ambiente geografico, ai singoli non resta che resistere. Resistere per rivendicare un diritto alla soggettività che rifiuti il meccanismo di dipendenza dalla dicotomia inclusione/esclusione voluta dagli stati-nazione. Il diritto, infatti, se sganciato dalla possibilità della presa di parola diretta, se imposto dall'alto attraverso un processo di normalizzazione, tutela, assistenza e controllo dell'altro diventa l'alter ego del potere. E il potere, si sa, è sempre coercitivo. Tende, per natura, ad annientare le singolarità e gli individui, soprattutto se ribelli, eccedenti. A maggior ragione se queste eccedenze sono migranti e, per di più, minori. O, come li ha definiti la legge, "minori non accompagnati". Se un migrante adulto senza permesso di soggiorno e senza un contratto di lavoro arriva in Italia viene identificato, messo ad espiare le sue colpe nei purgatori dei Cpt e subito dopo espulso. Se arriva o viene rintracciato sul territorio un "minore non accompagnato" viene prima seguito da un esercito di professionisti (psicologi, assistenti sociali, neuropsichiatri), appartenenti quasi sempre ad Ong convenzionate con le istituzioni, in particolar modo con il "Comitato per i minori stranieri" e, una volta fatte tutte le indagini del caso, se il minore non ha la possibilità di avere una "famiglia" nel territorio d'approdo viene rimpatriato. Non espulso ma rimpatriato, accompagnato e "assistito", cioè, sin nella sua terra d'origine per essere riconsegnato ai genitori e, possibilmente, anche reinserito nel "suo" tessuto sociale originario.
Questa pratica apparentemente meccanica e meramente gestionale nasconde, però, una miriade di insidie e complicazioni che disvelano, con una chiarezza sconcertante, la relazione che intercorre tra istituzioni, terzo settore e minori a cui viene negata ogni possibilità di "soggettivazione". Attraverso una ricerca etnografica minuziosa, supportata empiricamente da moltissime interviste in profondità fatte agli esperti dei rimpatri assistiti, agli educatori e agli esponenti delle istituzioni, Gabriella Petti (Il male minore. La tutela dei minori stranieri come esclusione, Ombre Corte, pp. 249, € 16,50) ripercorre l'iter a cui sono costretti i minori stranieri una volta giunti in Italia. Anche se la ricerca appare più spostata verso un esame critico dei dispositivi legislativi, di tutela e controllo e meno articolata sul piano della ricerca sociologica contemporanea e gli studi sul potere, il risultato è illuminante. E lo è proprio perché la ricerca entra nelle pieghe del sistema sino a decostruire del tutto gli stereotipi e le attribuzioni di stigma che passano attraverso "i discorsi buonisti" sulla società, proprio come si faceva un tempo e talvolta si fa ancora adesso con le inchieste sociali.
L'autrice si interroga, innanzitutto, su cosa è l'infanzia per la sociologia e la psicologia sociale. Essa può essere, infatti, sia uno stato biologico che una condizione socialmente prodotta. I minori, per il senso comune della società, sono un non-ancora, rimandano - come sostiene anche Dal Lago nella prefazione al testo - "ad una dimensione anagrafica negativa" che, in quanto tale, necessita di tutela, disciplina, educazione "ed eventualmente repressione".
Gli studi sui minori e sui giovani, infatti, per quasi tutta la sociologia, partono dal presupposto che essi costituiscono o possono costituire un "problema" per la società. In questo caso lo scivolamento verso un'attribuzione di stigma (si pensi all'appellativo "deviante" o ad altri più vicini all'antropologia criminale come "giovane dal profilo delinquenziale") diventa una protesi sociologica per avallare determinate politiche pubbliche e determinate linee di condotta degli attori che transitano nelle istituzioni o nel folto bacino del privato sociale. La costruzione sociale che sottende le esistenze reali dei minori - diverse da individuo a individuo e quindi non facilmente stigmatizzabili - si raddoppia sino a divenire essa stessa pratica di esclusione quando accanto alla voce "minore" si aggiunge quella di "straniero". Per la legge è presto fatto: queste persone sono "minori non accompagnati".
Tale etichetta apre le vie della tutela, delle "crociate morali" - come le definisce l'autrice -, dell'assistenza, del controllo, sino al rimpatrio assistito. Un agire sociale a metà tra la falsa coscienza del pietismo di massa ed il sadismo dei custodi dell'accesso. Ma c'è di più. Attraverso queste pratiche è possibile comprendere i meccanismi interni ed esterni attraverso cui si "gestisce" l'immigrazione. Superata la fase emergenziale cominciata nel '91 con gli sbarchi dei primi albanesi a Bari, la "tecnologia sociale" del controllo dei flussi si va sempre più spostando verso la sua esternalizzazione. Attraverso gli accordi per costruire campi in Libia ma anche attraverso l'istituto del rimpatrio assistito che, come abbiamo già detto, prevede anche un "reinserimento" del minore straniero.
Un reinserimento-ingerenza che, ovviamente, viene giustificato dalla "necessità di democratizzare le aree instabili del pianeta" da cui partono le carrette del mare. Se, invece, il minore resta è bene che, per motivi di sana cultura legalista, venga educato per favorire la sua "integrazione" nel sistema sociale italiano. Infine l'istituzionalizzazione della vita, e quindi della vita del "minore non accompagnato" passa attraverso il management del terzo settore il quale, sempre più spesso, abbandona i panni del militantismo sociale per vestire quelli del capitalismo "solidale".
Non è apocalittico lo scenario descritto da Gabriella Petti. Anzi, appare del tutto realistico, a volte anche troppo.
Una sola considerazione. Se si sostiene che i minori migranti non hanno la possibilità di rivendicare un diritto alla soggettivazione, perché definire, in uno dei primi capitoli del libro, come "residuali" i movimenti che, ormai da parecchi anni, cercano di disvelare le pieghe nefaste dei sistemi custodialistici, siano essi materiali o immateriali, costruiti attorno e con i migranti? Solo se la ricerca diventa anche azione può trasformare il minore per negazione in un divenire minore. Tutto il resto, purtroppo, rischia di diventare solo scienza.
LE MONDE diplomatique - febbraio 2005
di GERALDINA COLOTTI
È Genova, il cui centro storico è densamente abitato da migranti - spesso giovanissimi lavavetri o venditori di fiori - il quadro di ricerca principale, scelto da Gabriella Petti, sociologa della devianza.
Oggetto d'indagine, il minore straniero, o piuttosto la rete complessa di rapporti, norme e interessi, con cui egli entra in contatto. Analisi, interviste, e uno sguardo critico anche nei confronti di certe Ong e del Terzo settore, disegnano il profilo del "minore straniero non accompagnato": un mito "diviso fra tutela e controllo" in un contesto di progressiva internazionalizzazione e privatizzazione delle politiche sociali.
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