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Il Nordest e il suo Oriente
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Migranti, capitali e azioni umanitarie
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il manifesto - 18 Giugno 2004
AI CONFINI DELLA REALTÀ
"Il Nordest e il suo oriente", un'appassionante indagine lungo le strade che legano il Veneto al Kosovo e alla Romania. Tre aree geografiche profondamente segnate da movimenti di capitali e guerre umanitarie dove le frontiere sono diventate una risorsa dell'attività economica che va continuamente rinnovata. Ma le frontiere sono anche il laboratorio dove la libertà di movimento è costantemente piegata agli imperativi del mercato del lavoro
di SANDRO MEZZADRA
Il rimescolamento continuo della carta geografica del pianeta, delle stesse coordinate concettuali con cui siamo a lungo stati abituati a organizzare la nostra esperienza dello spazio politico, economico e sociale, è uno degli effetti più stranianti e meritevoli di indagine del nostro tempo. Ovvero di un tempo che possiamo continuare a definire della globalizzazione soltanto a patto che di quest'ultima si rinunci ad assumere un'immagine semplice, interamente ricalcata sul presunto spazio "liscio" del mercato mondiale capitalistico. Certo, proiettata sullo sfondo delle rovine dell'Afghanistan e dell'Iraq quest'immagine semplice della globalizzazione appare oggi immediatamente caricaturale. E tuttavia il rischio è che, proprio alla luce dell'intraprendenza di Bush junior e dei suoi consiglieri neoconservatori, la globalizzazione si riduca a quell'immagine e venga sbrigativamente annoverata tra i "miti" che hanno accompagnato la sbornia ideologica dell''89. Non sarebbe una buona cosa. Il frettoloso ripiegamento su modelli interpretativi tradizionali finirebbe per far perdere di vista quanto di nuovo c'è nella situazione contemporanea: la moltiplicazione di attori globali e di spazi transnazionali in cui circolano sì capitali e merci, ma anche comportamenti, stili di vita e immaginari che si pongono in tensione con lo stato di cose presente; la dislocazione di un insieme di decisioni che condizionano la vita di milioni di donne e di uomini rispetto ai luoghi che potevano essere influenzati dalle tradizionali procedure democratiche, ma anche il progressivo porsi di una embrionale intuizione dell'unità del pianeta tra le premesse della stessa azione individuale, con esiti ancora tutti da vagliare.
Ben prima dell'11 settembre e della "guerra permanente", c'era chi insisteva sul fatto che uno dei tratti salienti dei processi di globalizzazione consiste nelle tensioni che si scaricano sulla configurazione dei confini, qualsiasi valenza si assuma di questo concetto: da quella classicamente geopolitica a quella "culturale" e antropologica. E si parlava di tensioni in senso proprio, non vaticinando una progressiva dissoluzione dei confini stessi, ma piuttosto suggerendo che questi ultimi avrebbero assunto una nuova rilevanza e nuove funzioni, vedendo mutare la propria natura e costituendo un punto di osservazione privilegiata sulle poste in gioco nelle trasformazioni contemporanee.
M pare assumere felicemente questa prospettiva di indagine il denso studio di Devi Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, uscito da qualche settimana per la casa editrice ombre corte (pp. 306, € 18). Al centro del libro, che sintetizza una lunga serie di ricerche sociologiche ed etnografiche, stanno tre aree geografiche investite da radicali mutamenti negli ultimi anni: il Kosovo, la Romania e il nordest italiano. I movimenti di capitale e lavoro attraverso queste tre aree, ma anche lo scompaginamento delle relazioni sociali determinato dalla "guerra umanitaria" che tanto inorgoglisce ancora oggi molti esponenti del centrosinistra italiano, sono il filo conduttore dell'analisi.
La tesi che "i confini oggi costituiscono una delle risorse economiche centrali", soggetti a "deperibilità e usura come altre merci e quindi sottoposti a meccanismi di riproduzione continua", segna d'altro canto il campo teorico al cui interno Sacchetto si muove, consentendogli di offrire uno spaccato straordinariamente efficace, e soprattutto dinamico, del rimescolamento di coordinate spaziali di cui si parlava all'inizio in un'area geografica determinata.
Il libro di Sacchetto ha tuttavia un altro merito. L'insieme dei processi che formano l'oggetto della sua analisi viene ricondotto a un'origine comune, pur nella diversità delle modalità di manifestazione, che ha un segno diverso da quello dell'iniziativa del capitale e della guerra. Di qua e di là di quella che era un tempo la cortina di ferro, le trasformazioni indagate prendono avvio da una rottura soggettiva, da una rivolta, non sembri paradossale, contro una forma determinata di uguaglianza tra gli individui. Nei territori del socialismo reale, l''89 è anticipato da un movimento carsico di rifiuto opposto "a una delle più possenti spinte livellatrici e uniformanti dell'età moderna", che era giunta a imporre "severi limiti all'iniziativa individuale". In Veneto, le lotte operaie degli anni Sessanta finiscono per rivolgersi contro il livellamento imposto dalla comunità di fabbrica e per nutrire negli anni successivi "una forte spinta individuale a sfuggire allo stigma della condizione operaia per crearsi un lavoro formalmente autonomo". Quel che accomuna questi processi, e che conduce Sacchetto a interrogarsi lungamente, nel capitolo introduttivo, sulla concettualizzazione sociologica dell'individualità, è un rifiuto di forme specifiche di confinamento assunte come contropartita sacrificale di un'uguaglianza esperita nelle figure della cittadinanza socialista o "fordista": una rivendicazione di individualità, si può ben dire, che esorbita le modalità con cui le tradizioni politiche moderne hanno immaginato e costruito l'individuo.
Che cosa resta di questa rivendicazione in Kosovo, in Romania e nel nordest italiano? Essa era, lo si ripete, indirizzata contro forme determinate di codificazione dell'uguaglianza, ma non aveva in alcun modo, in prima battuta, una caratterizzazione unilateralmente anti-egualitaria. Poteva anzi nutrire una riqualificazione dell'uguaglianza. Gli sviluppi degli anni successivi, e l'azione di specifici attori, si sono incaricati di chiudere gli spazi in cui questa eventualità poteva essere giocata, mentre una rete di nuovi rapporti si distendeva tra le tre aree analizzate. In Kosovo, la disgregazione della Jugoslavia era accompagnata da processi di etnicizzazione e di militarizzazione della vita sociale e lavorativa che davano luogo a nuove recinzioni simboliche e materiali. La mobilità di donne e uomini tornava a essere irregimentata sotto l'incalzare di questi processi, che la guerra della Nato, l'afflusso della cooperazione internazionale e la costruzione di un "quasi-Stato" sotto l'egida dell'Onu hanno finito per ratificare.
In Romania, l'internazionalizzazione della produzione, in cui giocano un ruolo fondamentale le imprese del nordest, "si evolve attraverso l'espansione di una rigida disciplina e di una costante sorveglianza all'interno delle fabbriche": la presenza di imprenditori e tecnici "trasfertisti" occidentali, la cui voce è ben documentata dal lavoro di Sacchetto, costituisce un essenziale elemento di mediazione di questo processo di rimodellamento di abitudini e di identità sociali. E mentre il sistema occupazionale rumeno tende a costituirsi "come l'estrema periferia del Veneto, della Germania, della Spagna e di Israele", svalutando competenze e titoli di studio e costringendo a una sorta di "formazione continua", nella società riprendono il sopravvento forme di dominazione patriarcale che erano state quantomeno messe in discussione negli anni del socialismo.
Nel nordest italiano, d'altro canto, questo insieme di processi si ripercuote in una "ristratificazione della forza lavoro" che coinvolge in primo luogo i migranti, confinati dalle disposizioni di legge vigenti "in un altro mercato del lavoro, in cui l'inferiorizzazione diventa processo sociale costitutivo della loro presenza"; ma spesso anche, in particolare nella cantieristica, assoggettati "alle imposizioni normative del paese d'origine e stipendiati sulla base del proprio contratto nazionale maggiorato, in nero, di altre prebende contrattate individualmente".
E tuttavia sono spesso proprio i migranti ad avere l'occhio meglio addestrato per cogliere l'arcano su cui si regge il modello nordestino: l'"aumento progressivo del tempo di lavoro comandato" e la degradazione della vita sociale. "È vita dura qui", dichiara a Sacchetto un lavoratore croato, "non per me come straniero, per gli italiani, per voi! Per voi è dura, non per me! Io poi posso cambiare, tu non puoi cambiare... non puoi essere profugo per andare fuori... e io invece sì!".
L'effetto di spiazzamento prodotto da queste parole è del resto amplificato dall'insieme dell'analisi dedicata da Sacchetto alle migrazioni, considerate "una delle pratiche che i soggetti applicano contro le recinzioni, anche se il prezzo da pagare per l'espressione di tale individualità è quasi sempre un processo di deprezzamento che scatta nel momento di passaggio". Il confine, come si è detto, è uno dei temi fondamentali attorno a cui si snoda l'intero volume. In Kosovo, Sacchetto ricostruisce cartograficamente le barriere visibili e invisibili che sono sorte a separare e gerarchizzare la mobilità di donne e uomini tra la dissoluzione della Jugoslavia e la "guerra umanitaria", imponendo una complessiva riorganizzazione, per linee etniche, delle attività quotidiane e lavorative.
Ragionando sulla mobilità dei capitali, si pone sulla scia delle centinaia di tir carichi di merci che si incontrano quotidianamente lungo la strada dalla Romania all'Italia. E così commenta: "essi rappresentano quote di plusvalore in viaggio; a ogni confine scatta una quota di valore perché il confine è un automatico gettone incrementale di valore". In Veneto, come si è accennato, l'azione del confine si prolunga fin dentro la struttura del mercato del lavoro.
Ma è appunto nell'analisi delle migrazioni che queste diverse valenze del confine convergono in un'immagine equilibrata, e al tempo stesso tutt'altro che "neutrale", delle tensioni che su di esso si scaricano. È un'immagine non neutrale perché si pone consapevolmente dal punto di vista delle donne e degli uomini che migrano, ritenendo anzi che i loro comportamenti soggettivi siano la traccia più consistente della perdurante azione della "rivendicazione di rivolgimento antiautoritario" che aveva accompagnato gli anni attorno all''89. Ed è un'immagine equilibrata in primo luogo perché Sacchetto è sempre attento ad analizzare l'eterogeneità delle esperienze migratorie e la presenza di diverse tipologie di soggetti migranti; in secondo luogo perché riesce a tenere contemporaneamente presente la sfida che i migranti portano a ogni istanza di confinamento e l'effetto di degradazione, di svalorizzazione e di rafforzamento dei meccanismi di esclusione che l'azione del confine determina.
Si prendano ad esempio le migrazioni femminili, a cui è dedicata nel volume un'attenzione affatto particolare: attraverso l'angolo prospettico da esse offerto, Sacchetto pone in evidenza sia la progressiva svalutazione del lavoro femminile che caratterizza i processi produttivi a livello internazionale, di cui esso continua tuttavia a rimanere un "fondamento invisibile", sia la continua espulsione delle donne "dalla dimensione pubblica e dai processi di costituzione della soggettività individuale" in Kosovo e in Romania. Di fronte a questi processi, che la inscrivono evidentemente in uno spazio sociale segnato da sofferenza e privazione, la migrazione femminile porta comunque il segno soggettivo di una duplice contestazione della divisione internazionale del lavoro e del patriarcato. Così come, in un contesto sociale pervasivamente modellato dalla disciplina e dall'etica del lavoro, nelle parole del migrante croato citato in precedenza è tutt'altro che una forzatura rintracciare "un più chiaro segnale di exit dal lavoro dato come a tempo indeterminato: un exit dal lavorare per forza". È un segnale di cui converrà tener conto nelle future ricerche sulle migrazioni, ma che sarebbe bene anche sondare nelle sue implicazioni politiche.
JURA GENTIUM - Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globalei
di Matteo Battistini
Attraverso "Il Nordest e il suo Oriente" Devi Sacchetto accompagna il lettore nell'analisi delle diverse esperienze che hanno segnato l'Europa orientale negli ultimi dieci anni. Dopo aver affrontato i problemi che l'individualità pone al pensiero sociologico, e con ciò definito i termini da utilizzare nella ricerca, l'A. affronta i casi del Kosovo e della Romania per giungere al Nordest italiano, zona di esportazione e di lavoro migrante proveniente dall'Europa orientale. Un'Europa orientale che sembra attenuare i suoi confini, estendendosi sia in forza dell'espansione verso Oriente del capitale migrante, sia a seguito dei movimenti migratori verso Occidente. In questo quadro di allentamento dei confini fanno la loro comparsa nuovi e diversi comportamenti, fughe e lotte di soggetti protagonisti del presente stato di cose. Durante e dopo le guerre nell'ex Jugoslavia entrano in scena migranti e capitali migranti, si consumano e si riproducono nuovi confini, operano azioni umanitarie e nuove politiche migratorie europee. Il socialismo reale lascia libera la scena a nuovi assetti privati della proprietà e della produzione, ma non senza dolore, bensì attraverso guerre, come afferma in un intervista un giovane bosniaco emigrato in Italia: "Da noi tutte le fabbriche erano di proprietà dello Stato, non è come qua che tutto è privato. Adesso anche da noi è così; è per quello che abbiamo fatto questa guerra" (p. 89). A partire dai comportamenti e dalle esperienze di questi soggetti vengono messe a fuoco le modalità attraverso le quali un'ampia fascia di popolazione, soggetta in precedenza a diverse normazioni sociali e del lavoro, viene introdotta nella scena internazionale e messa al lavoro secondo nuovi codici di fabbrica. Sembra venir meno il carattere progressivo e "liberatorio" che il capitale internazionale pretende di introdurre nell'Europa orientale. La stessa avanzata del capitale internazionale trova ostacoli sul suo cammino, deve fare i conti con donne e uomini che oltrepassano confini (i confini possono essere quelli geografici, ma anche quelli sociali e culturali, o quelli che separano diversi livelli salariali), migranti che non seguono le parti loro assegnate nel lavoro e non si lasciano ridurre ad appartenenze etniche o comunitarie: gli spostamenti di capitali verso l'Europa orientale ricalcano le orme - e le ombre - della conflittualità o della disponibilità operaia fuori e dentro le fabbriche.
Le organizzazioni internazionali (statali e non statali, le ONG e l'insieme dell'apparato che sostanzia l'azione umanitaria) sono i principali artefici della trasformazione dei comportamenti in tema di lavoro. Si tratta di una "vera e propria iniziazione capitalistica privata" (p. 47) dell'Europa orientale che opera sulla scena mutata dalle guerre. Una mutazione della scena sociale e culturale che viene ricostruita attraverso la categoria di cerimonia di degradazione, introdotta da Harold Garfinkel. Con cerimonia di degradazione va intesa quella messa in scena tesa all'umiliazione e all'abbassamento del grado sociale di individui appartenenti a diverse comunità, e quindi anche la modalità attraverso la quale vengono definite appartenenze secondo tratti etnici. Durante la guerra divenne incerto il ruolo del possessore del capitale a cui non si rispondeva in quanto capitalista, bensì secondo lo schema amico-nemico. Quello a cui si assistette fu la limitazione - o l'annullamento - dell'agibilità politica della classe operaia, attraverso una separazione etnica che attraversò e frammentò qualsiasi possibile collettività di classe. Si trattava di essere produttori per una patria, al fine di riformulare un ordine che doveva implicare un altro modo di stare dentro e fuori la fabbrica, che non doveva prevedere la possibilità di prese di parola di classe. La separazione etnica e le demarcazione di comunità segnavano (e segnano ancora oggi) linee gerarchiche nel lavoro e nella società per le quali è richiesto riserbo privato e massimo silenzio in ossequio alla svalorizzazione delle capacità lavorative (mentre dal punto di vista soggettivo il superamento del confine coincide con lo sforzo del migrante di valorizzare se stesso), di cui necessita il modello di accumulazione del capitale strutturatosi dopo gli anni Sessanta e Settanta. Questa separazione etnica non si manifesta però esclusivamente in maniera violenta (attraverso la pulizia etnica o lo stupro etnico). Nei paesi occidentali, ad esempio, la costruzione politica del lavoro migrante separa secondo linee gerarchiche individui muniti di passaporto diverso; in questo caso la degradazione si esprime frequentemente attraverso la definizione nel lavoro e nelle condizioni di vita di confini che incasellano gli individui legandoli a specifici tratti etnici: "l'etnicizzato è sostanzialmente un essere relegato negli spazi del privato; egli è privato, ossia escluso dalla possibilità di fare politica" (p. 67). Il discorso pubblico che si avvale di parole "etniche" assoggetta i migranti a un assordante silenzio che rende afone le pretese individuali di migliorare le proprie condizioni di vita. Quello che segue alle guerre nell'ex-Jugoslavia è dunque un quadro contraddittorio: all'allentamento dei confini dell'Europa attraversata da movimenti collettivi di lavoratrici/lavoratori migranti segue la riproduzione di nuovi confini indispensabili alla divisione internazionale del lavoro che vuole essere imposta attraverso lo spostamento di capitali.i
In questo senso l'A. sottolinea con particolare forza come il processo di accumulazione in corso svaluti progressivamente il lavoro femminile. In tutti i paesi dell'Europa orientale le donne sono tra i soggetti più penalizzati dal nuovo ordine politico e del lavoro, e per le donne il rifiuto della posizione di inferiorità a cui sono relegate si presenta come un tentativo di ribellione che, svolto individualmente, assume nelle migrazioni una valenza collettiva. Per le donne migrare segnala un duplice significato d'emancipazione: da un lato dalla miseria e dai bassi salari e, dall'altro, dal ritorno di forme di patriarcato e di costrizione familiare. Un'emancipazione che trova nei paesi d'arrivo nuovi confini giuridici, sociali e culturali a cui le donne - come gli uomini che migrano - devono adeguarsi. Tuttavia, è un adeguamento che si continua a rifiutare perché spesso degrada e impedisce l'espressione della singolarità, ovvero di quelle caratteristiche specifiche che definiscono le possibilità di agire e di parlare di ogni singolo individuo. La singolarità si costituisce quindi come impossibilità di replicabilità di un individuo, il suo essere irriducibile a uguaglianza. In questo senso per Sacchetto non è praticabile una sociologia che parta dalla considerazione della replicabilità formale degli individui. Occorre piuttosto porre l'accento sulla singolarità che le comunità cercano costantemente di ridurre a comportamento ordinato, e che invece trova espressione in movimenti collettivi. Si tratta quindi, anche nel pensiero sociologico, di ripensare il nesso (e la tensione) tra individuo e collettivo alla luce delle migrazioni. Il migrante che rompe con la comunità di origine non può diventare uguale nella società di arrivo, ma si scontra qui con nuovi confini e gerarchie di valore costruite politicamente attorno alla figura del lavoro migrante.
Superati i confini che attraversano l'Europa e spostato lo sguardo dall'Oriente al Nordest, emerge nelle politiche migratorie il carattere di gestione politica del mercato del lavoro che limita la libertà dei migranti. In Italia la legislazione in materia, vincolando in maniera ferrea il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, contribuisce a sancire concretamente il valore del lavoro migrante e il prezzo a cui esso è chiamato a vendersi. Con il contratto di soggiorno i migranti si trovano così in un "altro mercato del lavoro". I migranti divengono ricattabili, sono cioè costretti, per garantirsi il soggiorno, ad accettare condizioni di lavoro "in cui l'inferiorizzazione diventa un processo sociale costitutivo della possibilità della loro presenza" (p. 221). Essi devono innanzitutto avere un permesso di soggiorno in mano prima di poter tentare di migliorare le proprie condizioni di lavoro, ma per avere il permesso devono prima accettare un contratto e garantire così una determinata erogazione di lavoro. La funzione di erogatore di lavoro diviene l'unico elemento portante della vita del migrante. Siamo di fronte a una situazione che si inserisce in maniera adeguata nella risposta politica che le grandi imprese hanno dato alla lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta. La risposta fu quella di "meridionalizzare" la produzione, cioè di diffonderla territorialmente rompendo "l'unità operaia". Furono introdotte forme del lavoro spazialmente separate e la produzione snella improntata al just in time. Se la produzione snella, dal lato del capitale, si configura come un'ulteriore razionalizzazione del processo produttivo al fine di eliminare perdite, scarti e inutili scorte; per l'operaio si fonda sulla richiesta alla forza lavoro di una costante disponibilità a soddisfare le esigenze della catena produttiva. I distretti industriali del Veneto si caratterizzano per la costruzione guidata di forme di cooperazione "gerarchizzata" indispensabile al coordinamento reale del just in time. Allora le ideologie del post-fordismo e del successo individuale nascondono una condizione di vita ben diversa, caratterizzata dall'aumento progressivo del tempo comandato attraverso la diffusione delle regole della fabbrica nella società e nella vita privata. Questo non comporta solamente una maggiore intensità di sfruttamento del lavoro (migrante e non), ma - in ragione della proliferazione di contratti (e di differenze salariali) e della presenza di forza lavoro divisa da linee "comunitarie" - anche la separazione del collettivo operaio. Se a partire dal secondo dopoguerra il lavoro funzionava come veicolo d'accesso ai diritti, ora viene rovesciato nel suo opposto: il lavoro (e le sue diverse figure e mansioni) funziona da confine, riproduce distanze culturali e sociali, e riduce al silenzio la comunicazione politica tra gli operai.
Non come conclusione, ma come premessa di possibili percorsi di ricerca, dallo studio dei tentativi individuali di emancipazione che trovano espressione nei movimenti collettivi Sacchetto pensa la categoria di migrazione non solo come "questione di fuga" da condizioni di vita insoddisfacenti, ma anche come "un più chiaro segnale di exit dal lavoro dato come a tempo indeterminato: un exit dal lavorare per forza" (p. 262).
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