Nancy Scheper-Hughes
Loic Wacquant (a cura di)
Corpi in vendita
Interi o a pezzi
 
La Stampa - Tuttolibri, 24 aprile2004

I corpi che diventano merci: il cannibale adesso è l'Occidente
La tragica compravendita degli organi ha infranto ormai ogni barriera etica: "perché attendere anni per un rene magari consumato, se si può averne subito uno buono da una persona sana che sarà ben pagata?"

di Marco Aime

Più o meno ovunque in Occidente imperversano i liberisti, i teorici del libero mercato che ostentano una fiducia assoluta nelle doti autosalvifiche della nota "mano invisibile". Accade che spesso si accusino quei governi che esaltano la libera circolazione di merci e capitali, di dimostrarsi molto meno liberal quando si parla di lasciar circolare le persone. Vero, ma solo in parte: gli individui non possono circolare "interi". A pezzi invece sì. E' quanto sostiene Nancy Scheper-Hughes, curatrice assieme a Loïc Wacquant di Corpi in vendita, raccolta di saggi socio-antropologici sulla mercificazione del corpo umano. La messa sul mercato dei corpi, per uso sessuale, medico o spettacolare è ormai entrata a far parte del nostro universo culturale. Lo raccontano alcuni pugili dell'inner-city di Chicago, che si autodefiniscono prostitute al servizio di manager e organizzatori magnaccia, che li mandano al massacro in match già persi, ma redditizi. Il problema è l'autocoscienza di questi boxeur, che sanno di essere carne da botte e che diventano complici del loro stesso sfruttamento. Un tema, questo, che costituisce una sorta di filo conduttore del libro, e cioè che i poveri, i discriminati, come dice la Scheper-Huges: "diventano artefici della propria condizione, acconsentendo alla riduzione di se stessi allo status della "più miserabile tra le merci"". Corpi picchiati e corpi, forse, rapiti, come nel caso dei bambini yemeniti d'Israele. Uno scandalo che ha coinvolto gli immigrati yemeniti che nel 1949-50 attendevano nei campi di transito per ottenere la cittadinanza del neonato stato d'Israele. Molte donne partorivano nei campi e il tasso di mortalità era elevato. Si sparse così la voce che i bambini non fossero morti, ma rapiti e inviati alle coppie ebree sterili negli Stati Uniti. Lo scandalo costrinse le autorità israeliane a riesumare i piccoli cadaveri per esaminarne il Dna. Dall'analisi di una delle autrici del libro emergono due forme di mercificazione del corpo: da un lato il tentativo delle madri disperate di ottenere un rimborso, dall'altro una sorta di medicalizzazione delle identità nazionali. In Sud Africa, nelle sale mortuarie, venivano asportate valvole cardiache da cadaveri di neri poveri. Queste valvole venivano poi vendute per finanziare la ricerca scientifica stessa. Assistiamo a un business sempre più deregolato di tessuti e parti del corpo. Negli Stati Uniti ci sono donatori ingenui che credono che i loro doni, pezzi di pelle e di ossa, vengano utilizzati per alleviare le sofferenze delle vittime degli incendi, mentre in molti casi, quelle parti vengono vendute e trattate industrialmente da multinazionali del farmaco per ricavarne costosi prodotti dentistici e di chirurgia plastica. Emergono nuove relazioni fra capitale e lavoro, fra i corpi e lo Stato. La chirurgia del trapianto, dice la Scheper-Huges, ha riconcettualizzato la relazione tra "sé" e "altro", fra individuo e società e fra le tre forme del corpo: il sé esistenziale del corpo vivente, il corpo nella sua rappresentazione sociale, il corpo politico. Siamo di fronte al completo abbandono dell'umanismo, a una moderna declinazione del sacrificio umano. Nasce l'etica delle parti che assume le forme inquietanti di un neo-cannibalismo contemporaneo, dove a "inghiottire" pezzi di umani non sono gli altri, i selvaggi, ma noi occidentali. "Perché dovrei attendere degli anni per un rene, magari consumato, quando posso averne uno buono e subito da una persona sana che può trarre beneficio dal denaro?", si chiede un facoltoso avvocato di Gerusalemme. Il problema non sta tanto nel cinismo della domanda, ma nel fatto che sia diventato possibile porsi questioni come questa. Lo è perché in modo più meno legale, spesso giocando su ambiguità giuridiche e sulle diverse legislazioni nazionali, è nato un sistema che ha creato un mercato di organi prima inesistente. Lo ha fatto disgregando una visione unitaria del corpo e, come riconobbe molti anni fa Ivan Illich, proponendo l'idea che la vita stessa possa essere manipolata, preservata, prolungata, incrementata a ogni costo.
A ogni costo, appunto e i prezzi sono alti per chi esborsa denaro. Non altrettanto per chi dona organi. Infatti, si svelano ineguaglianze di razza, di classe e di genere rispetto al procacciamento e alla distribuzione di tessuti e organi. In questo vero e proprio turismo dei trapianti un "pacchetto" completo per ottenere un rene costa 200 mila dollari. Solo 5 mila arrivano al donatore. Il corpo, oggetto di tanta letteratura, poesia, assurto a metafora, a testo, a linguaggio per molti secoli, in una società globalizzata come la nostra diventa una delle tante merci che è possibile acquistare. Inoltre le nuove frontiere della scienza danno vita a una nuova etica del corpo, anzi, delle sue parti. Il corpo divisibile (e pertanto diviso) finisce per rispondere alle leggi di mercato dominanti. E nel mercato è il più abbiente a determinare le regole del gioco, che finiscono per trascendere la morale e aprire nuovi orizzonti. Una volta possibile trapiantare un rene occorre un donatore: abbiamo una domanda, ma l'offerta non è sufficiente, se ci si limita ad asportare organi dai defunti. Come accade in economia, bisogna aumentare la "produttività" per rispondere al mercato. L'offerta appare rigida solo se si rimane aggrappati all'unità e all'inviolabilità del nostro corpo e di quello degli altri. Se invece si travalica questa barriera etica, magari in nome della libertà individuale (altro sacro totem del liberismo attuale), cosa fare del proprio corpo, anche farlo a pezzi e venderli, diventa una scelta, anzi, un diritto. Lo sostiene il dottor K.C. Reddy, il più strenuo difensore indiano del "diritto a vendere un rene". La maschera felice della libertà personale nasconde però il ghigno tragico della povertà. Non è una scelta per le donne degli slums di Madras vendere un rene a un occidentale: è una necessità, una via di salvezza. Ma è una questione di retorica, di linguaggio, sembra dirci la curatrice del volume: "L'esistenza di una disperazione che coinvolge entrambe le parti, e la propensione dei medici dei trapianti a prendere in considerazione solo un versante dell'equazione del trapianto, fa sì che il rene mercificato e feticizzato divenga un'opportunità per il compratore e una necessità per il venditore".


il manifesto, 17 Luglio 2004

Un corpo fatto a pezzi dal mercato
Traffico d'organi e biopolitica Atroci compravendite e nuove tecnologie in una raccolta di saggi edita da Ombre Corte e curata da Nancy Scheper-Hughes e Loïc Wacquant

di MASSIMILIANO GUARESCHI

Un paio di anni fa è uscito nelle sale italiane Piccoli affari sporchi, un film di Stephen Frears ambientato fra gli invisibili che alimentano i bacini del lavoro sottopagato di una città globale come Londra. D'improvviso, quella che poteva sembrare una pellicola di taglio drammatico-realista vira verso il thriller, e a innescare il cambio di registro è la comparsa di una merce assai particolare: un cuore. Al centro dell'intreccio del film si colloca infatti un traffico di organi in cui si incrociano ricchi committenti, chirurghi spregiudicati, organizzazioni mafiose e diseredati che individuano nella monetizzazione di una parte del loro corpo l'ultima risorsa per "svoltare". Assai diverso appare il rapporto del cinema indiano con questo tema: ciò che in Occidente assume il profilo di una materia estrema, nella produzione di Bollywood sembra situarsi in un contesto di quotidianità in cui la vendita del rene appare una pratica quasi ordinaria, a cui ricorrere, per esempio, per permettere alla sorella di sposarsi e salvare l'onore della famiglia. La dimestichezza dell'immaginario cinematografico indiano con la compravendita di parti del corpo umano è uno dei dati più stupefacenti che emergono dal saggio di Lawrence Coen, L'altro rene: una biopolitica non riconosciuta, contenuto in un volume, Corpi in vendita. Interi o a pezzi (ombre corte, pp. 166, € 14) curato da Nancy Scheper-Hughes e Loïc Wacquant. Secondo una vecchia formula, i proletari non avevano da vendere che la loro forza lavoro. Oggi, potremmo aggiungere, dispongono di altre risorse, in quanto hanno la possibilità di cedere parti del loro corpo: pelle, retine, reni... A tal proposito non mancano autorevoli sostenitori del liberalismo bioetico, secondo i quali contestare in nome di un rozzo moralismo il diritto di un qualcuno ad alienare i propri organi, dietro un corrispettivo stabilito dalle imparziali leggi del mercato, rappresenterebbe un'inaccettabile violazione della libertà individuale. E così, fra i tanti flussi planetari del nostro tempo si deve registrare quello che vede i malati del nord sciamare a sud alla ricerca di "pezzi di ricambio" e organi sani compiere il cammino inverso, magari nel bagaglio a mano di qualche dealer di carne umana, per trovare collocazione sui ricchi mercati di uno dei tanti "occidenti".
Nancy Scheper-Hughes è una delle ricercatrici più attive a livello internazionale non solo nella denuncia ma anche nello studio del traffico d'organi (Il traffico d'organi nel mercato globale, ombre corte). Loïc Wacquant, da parte sua, è un sociologo della scuola di Bourdieu, noto soprattutto per le analisi dei mutamenti intervenuti nei paradigmi di controllo sociale e disciplinamento (Parola d'ordine: tolleranza zero, Feltrinelli), ma autore anche di un pregevole studio etnografico sul "corpo estremo" dei pugili (Corpo e anima, DeriveApprodi). In Corpi in vendita, il tema dei mercati legati agli sviluppi della chirurgia dei trapianti viene sondato da più punti di vista. Ne emerge un quadro in cui il commercio di organi più o meno proditoriamente sottratti ai loro "possessori" lungi dal presentarsi come una leggenda metropolitana assume il profilo di una realtà in cui gli estremi entrano in comunicazione, il corpo dei poveri si innesta in quello dei ricchi, sofisticati chirurghi fiancheggiano organizzazioni criminali, tessuti e valvole cardiache sono barattati da cliniche del sud del mondo con tecnologie e competenze mediche, truci commerci vengono ricoperti da una coltre di eufemismi.
Il corpo, intero o a pezzi, come recita il sottotitolo del volume, circola oggi in una pluralità di mercati, collocati a differenti scale di disaggregazione: la mostra delle atrocità degli sport estremi, gli organi per i trapianti, i tessuti e le ossa per la produzione cosmetica e odontoiatrica e, last but not least, le sequenze di Dna rare, sviluppate da popolazioni vissute in relativo isolamento, su cui si avventa la biopirateria della multinazionali. La mercificazione dei corpi, vivi e morti, non è certo un fenomeno inedito. In un recente studio (Frammenti di eternità, Viella), per esempio, Luigi Canetti descrive in dettaglio i commerci che si sviluppavano nella tarda antichità e nel Medioevo intorno al cadavere e alle singole membra del santo. A partire dal XVII secolo poi, il corpo del defunto, specie del condannato, diviene oggetto delle mire di medici e scienziati che su di esso aspiravano a praticare i loro esercizi di dissezione.
Rilevare i precedenti non esime però dal cogliere le novità del presente. I contributi raccolti in Corpi in vendita non si limitano a gettare luce su uno degli aspetti più inquietanti della globalizzazione liberista, ma dedicano particolare attenzione ai portati antropologici e biopolitici legati alle innovazioni introdotte negli ultimi decenni dalla chirurgia dei trapianti, dalla biomedicina, dalla biotecnologia e dalla scienza del genoma. Se per Michel Foucault la biopolitica era sorta nel XVIII secolo, nel momento in cui la vita in quanto tale, con le connesse questioni di natalità, mortalità, morbilità e profilassi, entrava nel campo della decisione politica, qualche decennio dopo Donna Haraway ha ripreso il concetto, segnalando criticamente come l'analisi di Foucault si riferisse a una fase ormai chiusa. A segnare la differenza, a parere della studiosa americana, è il fatto che, nelle mutate condizioni tecnologiche, la vita non appare più come un dato aproblematico ma si definisce a partire dalle sue modalità di produzione, manipolazione e codifica (l'esempio del Dna appare in proposito eloquente). Di conseguenza la prospettiva biopolitica avrebbe oggi a che fare non tanto con la tutela ma con la produzione della vita. In un simile contesto, le pratiche scientifiche e le applicazioni tecnologiche acquisiscono subito una dimensione politica, e i contributi raccolti da Schepper Hughes e Wacquant, con i loro esempi di intersezioni fra corpi, tecnologie, saperi ed economie, risultano assai utili per ricentrare nel senso auspicato da Donna Haraway il dibattito sulla biopolitica.

recensione in SITO WEB ITALIANO PER LA FILOSOFIA



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