Pascal Blanchard
Nicolas Bancel
Gilles Boetsch
Eric Deroo (a cura di)
Eric Deroo (a cura di)
Zoo umani
Dalla Venere ottentotta ai reality show
 
il manifesto - venerdì 24 Ottobre 2003

Il grande circo della modernità
"Zoo umani. Dalla Venere ottentotta ai reality show", un volume collettivo per Ombre Corte che ricostruisce categorie e linguaggi, gabbie e recinti del passato dominio coloniale e del presente postcoloniale

di SANDRO MEZZADRA

"Si tratta di dare, ai cittadini della metropoli, la coscienza di proprietari che loro dovranno acquisire per sentire senza protestare l'eco dei fucili lontani. Si tratta di annettere al fine paesaggio della Francia, già esaltato prima della guerra da una canzone sulla canna di bambù, una prospettiva di minareti e pagode". Era il 1931, e queste parole si potevano leggere in un appello sottoscritto da Paul Éluard, André Breton, Louis Aragon e altri surrealisti parigini per il boicottaggio della grande Esposizione coloniale che stava per essere inaugurata nella capitale francese. L'appello non ebbe un gran successo: quando l'Esposizione aprì i battenti, il 6 maggio, migliaia di visitatori si avventurarono per i padiglioni che celebravano la "Grande Francia", e nel giro di sei mesi, in piena depressione economica, si registrarono oltre 33 milioni di ingressi, più di quanti ve ne fossero stati all'Esposizione universale del 1889. Un trionfo, insomma, almeno sotto il profilo finanziario. Più difficile è valutare l'impatto politico e simbolico dell'Esposizione: apparentemente al suo apogeo, il dominio coloniale francese (e non solo) stava in realtà cominciando a scricchiolare. Se già la Grande guerra aveva rappresentato nelle colonie un momento di accelerazione della resistenza nazionalista, il sostegno bolscevico alle lotte anticoloniali, sancito con il Congresso di Baku del 1920, aveva dato loro nuovo impulso e nuovi linguaggi. Proprio l'anno prima dell'Esposizione coloniale parigina, l'insurrezione nazionalista di Yan Bei, seguita da una jacquerie comunista nel Nord del Vietnam, aveva scosso la dominazione francese in Indocina.
In ogni caso, quella del 1931 fu l'ultima esposizione coloniale organizzata in Francia: nello splendore del tramonto, si potrebbe dire, essa ricapitolava svariati decenni di esperienze di esposizione dell'altro allo sguardo del cittadino metropolitano. Il paese natale dell'illuminismo offriva ora una rappresentazione letterale, elettrificata, delle sue virtù: il pezzo forte dell'Esposizione erano i fasci di luce colorata che illuminavano le vestigia di antiche culture, liberandole dalle tenebre del mito e della superstizione ed esibendole come meri ornamenti nello spazio di una cultura europea e occidentale che ormai si sentiva pienamente "globale". Celebrazione del dominio coloniale, certo, ma in fondo anche anticipazione del presente postcoloniale: sono poi così diverse le fiere etniche benevolmente sponsorizzate da tante municipalità europee, oggi?
Le informazioni sull'Esposizione coloniale del 1931 sono tratte da un articolo di Herman Lebovics, che si può leggere in un bel libro curato da Sandrine Lemaire, Pascal Blanchard, Nicolas Bancel, Gilles Boëtsch ed Éric Deroo, uscito lo scorso anno in Francia e ora proposto da Ombre corte (Zoo umani. Dalla Venere ottentotta ai reality show, pp. 234, € 15). Un volume che si legge d'un fiato, ricco di aneddoti e "storie", ma anche capace di sollevare problemi teorici di primaria importanza all'interno di un modo di guardare all'esperienza coloniale che ne sottolinea la funzione fondativa per le categorie e i linguaggi - oltre che, evidentemente, per le strutture economiche e "geopolitiche" - della modernità.
Al centro della ricerca sono appunto gli zoo umani. Di che cosa si tratta? Proprio di quel che l'espressione suggerisce: a partire dalla metà del XIX secolo, in Europa e in America diventa sempre più comune per i visitatori incontrare allo zoo, tra giraffe e coccodrilli, ""uomini" dai costumi bizzarri e dai rituali talvolta spaventosi". Grandi impresari e avventurieri, come Phineas Taylor Barnum negli Usa e Carl Hagenbeck, il "re degli zoo", in Germania, fiutarono l'affare, cogliendo nella curiosità e nello spaesamento di fronte all'"esotico" che erano suscitati a livello di massa dall'espansione coloniale un'ottima occasione di investimento. Vere e proprie "esibizioni antropozoologiche" furono così allestite nei principali paesi europei, dove si potevano ammirare in cattività Ottentotti e Boscimani, "pigmei", "trogloditi" e "nani d'Africa", in "villaggi negri" e "indigeni" fedelmente ricostruiti, mentre al di là dell'Atlantico l'esibizione del selvaggio diventava una delle principali attrazioni in quelle gallerie di "mostri" e "fenomeni" (i freak show) da cui stava nascendo il circo moderno.
Con gli zoo umani, scrivono i curatori del volume nell'introduzione, "il mito del selvaggio diventa una realtà, è lì, davanti agli occhi degli occidentali, e vi resterà per quasi un secolo". Se nei tre secoli precedenti l'incontro con l'"altro" era stato materia di riflessione per esegeti biblici, filosofi e giuristi, ora diventa fenomeno di massa, su cui si esercita lo sguardo di migliaia di donne e uomini qualsiasi incrociandosi con lo sviluppo delle nuove scienze, dall'antropologia all'etonologia: quel che ne risulta è appunto "un'economia dello sguardo", solidamente fondata in termini differenzialisti e razzisti. Gli zoo umani, al pari dei freak show, vengono così a fare "da tramite tra le ricerche scientifiche sull'essenza razziale e il desiderio popolare di immagini del dominio bianco". "Collezionare, scrutare, misurare, promuovere... la differenza" diventa un modo per addomesticare il selvaggio, per stabilire rassicuranti gerarchie e zone "di chiara leggibilità e di stabilità dei confini", messe al riparo dal vortice della modernizzazione.
Se esiste una pedagogia della cittadinanza, le esibizioni antropozoologiche ne sono state uno dei luoghi fondamentali di esercizio: guardando il selvaggio, il cittadino bianco, europeo o americano, vedeva la propria immagine riflessa, imparava a disciplinare il proprio oscuro desiderio di trasgressione (sempre implicito nel rapporto con l'"altro"), trovava conferma, nello spettacolo della barbarie offerto da corpi "mostruosi", della superiorità di un insieme di tecniche di "individuazione corporea" calibrate sui tempi e sui ritmi del lavoro industriale. Le gabbie o i recinti in cui gli esibiti erano costretti a vivere, la morte di decine di essi, rimasti per lo più senza nome, i metodi decisamente non ortodossi del "reclutamento" sono in fondo un'efficace allusione metaforica a quanto accadeva più in generale nel "segreto laboratorio", per dirla in termini marxiani, in cui la filigrana progressista della cittadinanza europea veniva quotidianamente prodotta.
Zoo umani è dunque un'opera importante, che apre nuove prospettive di ricerca, anche se la sua stessa struttura di volume collettaneo composto di una ventina di brevi saggi fa sì che tali prospettive siano più alluse che effettivamente praticate. In ogni caso, se anche solo servisse a colmare una lacuna, a ricordare che Mata Hari non fu, contrariamente a quel che sempre si ripete, la prima "donna" a essersi spogliata sui palcoscenici parigini di inizio `900, considerato che fu preceduta da decine di "negre" e "giavanesi" esibite nude nei "villaggi indigeni", la sua pubblicazione non sarebbe vana.
Ma il libro si propone anche un altro obiettivo, più ambizioso: i curatori, infatti, sono convinti che sia possibile e necessario "interrogare il presente attraverso gli zoo umani". Enunciato nell'introduzione, tuttavia, quest'obiettivo resta decisamente sullo sfondo. Né appare molto convincente il riferimento conclusivo ai reality show (sul modello del Grande fratello, per intenderci) come realizzazione contemporanea dello "zoo umano". La condizione dei migranti nelle società europee, sospesa tra le gabbie virtuali disegnate da tante retoriche "multiculturali" e le gabbie assolutamente reali dei centri di detenzione, si presterebbe ad esempio molto meglio a funzionare come terreno di analisi. Sia l'introduzione sia le conclusioni del volume vi fanno esplicito riferimento, ma senza svolgere in modo sistematico quella che rimane in fondo un'allusione.
Il punto è, probabilmente, che intraprendere un'analisi di questo tipo richiederebbe un approfondimento non solo degli elementi di continuità che organizzano l'"economia dello sguardo" formatasi attorno agli zoo umani, ma anche le cesure che si sono determinate negli ultimi decenni: e questo vale sia per quel che concerne i movimenti dei soggetti un tempo sottoposti al dominio coloniale (sempre meno disposti a farsi ingabbiare e confinare), sia per quel che concerne l'immagine del soggetto "normale" (e del suo corpo: i confini con il "mostro" sembrano decisamente divenuti più sfuggenti nel tempo del cyborg e dell'ingegneria genetica) che costituisce la filigrana "antropologica" della cittadinanza. Quel che sarebbe preliminarmente necessario, insomma, per ragionare sulle forme contemporanee degli zoo umani (più in generale, su ogni persistenza coloniale nel presente) è una fenomenologia, teoricamente avvertita e lontana da ogni intenzione apologetica, della condizione postcoloniale.




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