Pierre Clastres
La società contro lo Stato
Ricerche di antropologia politica
 
BOLLETTINO TELEMATICO DI FILOSOFIA POLITICA

Recensione di BRENDA BIAGIOTTI

Viene ripubblicato in Italia uno studio condotto da Pierre Clastres sulla cultura delle popolazioni amerindiane i cui risultati, apparsi tra gli anni ’60 e ’70 in una serie di saggi, furono fatti confluire dall’autore in un testo organico soltanto in un secondo tempo. Nel volume il materiale raccolto nel corso della ricerca non viene utilizzato semplicemente per una ricostruzione etnologica delle specificità culturali di tali popolazioni, ma diventa il sostrato empirico di una riflessione analitica condotta con vivace spirito filosofico.
Il punto di partenza è rappresentato da una serrata critica metodologica; secondo Clastres infatti, nonostante la vasta documentazione di cui il ricercatore contemporaneo dispone, l’etnologia si dimostra tuttora incapace di comprendere ciascuna cultura nelle sue caratteristiche peculiari – incapacità resa ancora più grave proprio dal fatto che neppure lo studioso riesce a sottrarsi a questa tendenza. Responsabile di questo scacco sarebbe l’abitudine, più o meno consapevolmente espressa, di considerare la cultura occidentale, con i suoi sviluppi e le sue particolari forme di organizzazione politica succedutesi nella storia, come il modello universale attraverso il quale interpretare le realtà sociali più disparate. Si tratta, afferma Clastres, di un pregiudizio etnocentrico che, nonostante venga riconosciuto a livello teorico da molti, continua a viziare anche le ricerche più recenti, finendo per compromettere irrimediabilmente i risultati raggiunti. Questa premessa risulta propedeutica alle riflessioni contenute nelle pagine successive dato che, secondo l’autore, nel corso dell’indagine relativa al problema del potere nelle cosiddette “società arcaiche”, il permanere della tendenza “etnocentrica” evidenziata apparirà in tutta la sua chiarezza.
Secondo gli studi tradizionali su questo argomento, infatti, – qui l’opera di riferimento è l’ambizioso progetto di J.W. Lapierre Essai sur le fondement du pouvoir politique – le società amerindiane prese in esame si caratterizzano per una quasi totale assenza del potere politico o, detto altrimenti, per un potere “tendente a zero”. Secondo Clastres, però, nel momento stesso in cui ci soffermiamo a riflettere su questa definizione cercando di chiarire quale concezione del potere politico ne stia alla base, ci troviamo di fronte una immediata conferma del pregiudizio etnocentrico al quale si era fatto riferimento in precedenza: nell’interpretazione di Lapierre, infatti, il potere è definito - secondo un modello chiaramente viziato dalla particolare esperienza della cultura occidentale - come una relazione basata sul rapporto di comando-obbedienza. Se accettiamo tale premessa siamo costretti anche ad aderire a quanto ad essa consegue e ad ammettere che le formazioni sociali in cui tale relazione non è osservabile devono essere considerate non solo società senza Stato, ma anche senza potere. Ora, una riflessione critica su tale assioma, indimostrato quanto indimostrabile, svela tutta la debolezza di un impianto teorico che, risolvendo il potere in una relazione di tipo coercitivo, finisce necessariamente per confinare le culture amerindiane in uno spazio pre-politico. In realtà, secondo Clastres, l’assenza di un rapporto che leghi l’obbligazione al comando testimonia soltanto la possibilità che il potere si manifesti anche in forme differenti da quelle esperite nella storia e nella cultura dell’Occidente. Clastres, infatti, muove dalla convinzione che il potere costituisca una necessità intrinseca alla vita sociale stessa e che, in conseguenza di ciò, non possa darsi nessuna forma di organizzazione politica senza una qualche manifestazione di esso. Se si accetta tale presupposto si è costretti a riformulare completamente il giudizio tradizionale sulle “società arcaiche”, tornando a riflettere criticamente su di esse proprio a partire dalla convinzione che «qualcosa esiste nell’assenza» (p. 18), abbandonando definitivamente ogni tendenza mistificatrice che abbia la pretesa di ridurre le altre culture a mere testimonianze di ciò che noi non siamo più (pp. 7-21). Dopo queste iniziali puntualizzazioni, l’autore concentra la propria attenzione sul tema al quale la ricerca è più specificatamente diretta, ossia sulle manifestazioni e forme del potere esistenti in tali società. Anche qui risulta opportuno un ulteriore chiarimento per non rischiare di ridurre erroneamente le società prese in esame ad un tutto omogeneo e indifferenziato; così, mentre, come hanno messo in luce alcuni studi sull’argomento, alcune tribù non possiedono neppure un termine per indicare la figura del “capo” - a testimonianza che all’“assenza terminologica” corrisponde una mancanza “di fatto” di un’autorità politica -, in altre comunità è stata riscontrata l’esistenza di una figura preminente rispetto al gruppo. L’indagine condotta da Clastres sulle forme in cui questo potere si manifesta si concentra, di conseguenza, sui caratteri e le peculiarità di un particolare istituto amerindiano, quello della chieftainship, tanto più interessante quanto più rivela il paradosso di un potere privo dei mezzi per esercitare se stesso o, come Clastres lo definisce, «di un potere pressoché impotente, […] di una funzione che funziona a vuoto» (p. 23). Tali culture, infatti, ammettono una forma di potere fondato su una relazione di tipo coercitivo (quale noi conosciamo) soltanto in quelli che potremmo definire “stati di emergenza”. Così, mentre il potere militare si caratterizza per una assolutezza adeguata alla necessità di rispondere in maniera rapida ed efficace a particolari momenti di crisi, quello civile, fondato sul consensus omnium e di natura completamente pacifica, investe il capo del ruolo di moderatore dei conflitti e delle tensioni sociali. Una simile funzione viene ad assumere un’importanza fondamentale in società nelle quali norme consuetudinarie che regolano la vita sociale, da un lato, e peso della tradizione, dall’altro, condizionano fortemente l’esistenza di ciascun membro del corpo sociale. Gli attriti fra la volontà dei singoli individui e le norme consolidatesi nel tempo, molto più frequenti di quanto potrebbero indurci a pensare le arbitrarie rappresentazioni che possediamo di tali società, arrivano spesso fino al punto da generare profonde lacerazioni all’interno del tessuto comunitario. Il capo, pertanto, è colui che deve intervenire allo scopo di appianare i conflitti facendo ricorso non ad un potere di forza, ma esclusivamente alla sua abilità di persuasione e al proprio prestigio personale. L’intera comunità confida in lui e nella sua capacità di svolgere tale funzione dato che vengono chiamate in causa delle facoltà che egli deve necessariamente possedere in quanto capo. Da un’altra prospettiva, quindi, emerge che l’individuo che incarna il potere si trova nella situazione di dover continuamente provare alla comunità di essere all’altezza del proprio ruolo, pena la caduta dalla sua posizione di preminenza. La particolarità di un istituto il quale prevede, sostanzialmente, che il capo dia alla società più di quanto riceva in cambio risulta in maniera ancora più evidente dall’analisi della seconda caratteristica che contraddistingue il capo, cioè la generosità: Clastres nota come egli sia sottoposto ad una sorta di “spoliazione permanente”, dato che si trova obbligato a donare alla comunità, tra i suoi propri beni, tutto ciò che gli viene richiesto senza aver alcuna possibilità di opporsi. Inoltre, dato il ruolo quasi sacrale che il linguaggio riveste in queste società, deve distinguersi come buon oratore: essere il capo e avere il “monopolio” della parola dotata di senso sono due aspetti così indissolubilmente legati che egli non può in alcun modo sottrarsi all’obbligo di dispensare parole. L’“autorità” politica, infatti, è vincolata a tenere discorsi in base ad una ritualità che scandisce la vita quotidiana dell’intera unità tribale proprio perché la parola rappresenta, per gli individui che compongono la collettività, il veicolo della saggezza tradizionale, l’elemento che consente alla comunità stessa di mantenersi in vita. Ora, quanto fin qui esposto, interpretato troppo spesso, secondo Clastres, come indizio di una forma ancora “arcaica” e immatura di organizzazione sociale e politica, si configura al contrario come una proposta alternativa alla relazione di tipo coercitivo, una proposta fondata sopra l’autentica consapevolezza che un potere trascendente rispetto al gruppo - che voglia creare da se stesso la propria legalità - rappresenta per la comunità soltanto un pericolo da neutralizzare costantemente (pp. 22-37).
Un altro pregiudizio che è indispensabile superare per arrivare ad un’interpretazione che sia aderente alla realtà delle società “arcaiche” è quello che ritiene che queste comunità vivano in uno stato di completo isolamento e rifuggano da qualsiasi relazione sociale con altri gruppi. In realtà, tali società, pur conducendo un’esistenza indubbiamente autonoma, non sono ripiegate eclusivamente in loro stesse ma, come testimonia la pratica diffusa dell’esogamia locale, perseguono una tutta serie di relazioni sociali per costruire, attraverso lo scambio delle donne, una trama di alleanze politiche in grado di garantire maggiore stabilità e sicurezza alla comunità stessa (pp. 38-59).
La parte centrale del testo è dedicata all’analisi di queste culture a partire dall’osservazione delle norme che regolano l’agire sociale: in particolare l’attenzione di Clastres si concentra sulla rigida divisione dei compiti che caratterizza tali comunità e che si ricalca su una altrettanto evidente divisione sessuale dei ruoli, secondo un’opposizione che, collocandosi alla base stessa della vita sociale, finisce per determinare tutto il complesso delle relazioni che in quello spazio si svolgono (pp. 76-96). Ora, in tali società, l’interiorizzazione dell’intero corpo di norme sociali spesso passa attraverso un articolato intreccio di rituali e di elementi simbolici nei quali un ruolo non certo secondario è giocato dal dolore. La sofferenza fisica, imposta con modalità differenti da gruppo a gruppo, trova il proprio elemento unificatore nell’obiettivo perseguito: il dolore inflitto mediante tortura, infatti, non rappresenta soltanto una prova di coraggio (come vuole l’interpretazione classica), ma è legato strettamente alla memoria per mezzo della cicatrice che, perdurando oltre la tortura stessa, rappresenta una traccia indelebile, il marchio che la società imprime sul corpo, il segno di una imperitura appartenenza al gruppo e di una definitiva accettazione delle sue regole (pp. 127-136). Di estremo interesse, infine, il capitolo in cui l’autore cerca di esporre, per quanto sinteticamente, alcune fra le concezioni attraverso le quali tali popolazioni cercano di dare una spiegazione all’ordine delle cose e la natura dei fenomeni. In particolare Clastres concentra la propria attenzione sugli indiani Guaranì la cui teoresi era caratterizzata da una lucida consapevolezza del male che abita il mondo delle cose umane e della mortalità che caratterizza la terra imperfetta: proprio nella speranza di sottrarsi alla finitudine di questa dimensione sognavano di una Terra senza il Male. Per questo si interrogavano sull’origine del mondo e sulla limitatezza che lo contraddistingue arrivando ad affermare, in totale antitesi con la tradizione di pensiero occidentale, la coincidenza di Uno e imperfezione. In base a questa interpretazione infatti le cose del mondo erano riconducibili ad una unità, l’Uno appunto, che si caratterizzava per essere una manifestazione effimera e transeunte, come testimoniato dall’esistenza stessa delle cose, il cui destino, fin dal primo istante, è la morte: secondo questa logica, porre l’identità di una cosa con se stessa equivale a individuarne i limiti, cioè ad escludere tutto ciò che da essa è distinto, così come affermare che questo è un uomo significa allo stesso tempo precisare che egli è soltanto un uomo e non un dio (pp. 124-136).
Quanto appena affermato ci consente di avviare il discorso verso le sue conclusioni. L’autore, infatti, ricollegandosi al problema dell’origine e del fondamento del male e all’identità di Uno e Imperfezione, conclude il testo proponendo una particolare lettura di questa coincidenza fondata sulla convinzione che dietro il concetto dell’Uno si nasconda l’immagine dello Stato: l’avversione per il principio dell’Uno, allora, starebbe a testimoniare un altrettanto radicale rifiuto, da parte di queste popolazioni, dell’istituzione Stato. L’identificazione Uno=Stato viene posta a fondamento dall’autore anche dell’idea secondo la quale ogni metafisica dell’Uno coincida con una “metafisica dello Stato” nel senso che, sotto l’idea dell’Uno come Sommo Bene e Perfezione, sia celata una concezione politica statolatrica (pp. 137-159).
Sovvertendo come anticipato fin dall’inizio ogni lettura tradizionale, l’ipotesi interpretativa offertaci da Clastres afferma che le popolazioni oggetto di indagine si configurano non solo come società che sono riuscite a presentare un modello politico alternativo a quello occidentale (fondato sull’assenza di relazioni coercitive), ma anche come culture che si sono caratterizzate per lo «sforzo permanente per impedire ai capi di essere capi, il rifiuto dell’unificazione, la fatica di scongiurare l’Uno, lo Stato» (p. 158).


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