Yann Moulier Boutang (a cura di)
L'età del capitalismo cognitivo
Innovazione, proprietà e cooperazione delle moltitudini
 
il manifesto, 28 settembre 2002

LA BORSA VALORI DELL'INNOVAZIONE
Non solo economia Creatività produttiva, lavoro immateriale e diritti di proprietà. Un volume collettivo alle prese con "L'età del capitalismo cognitivo"

di BENEDETTO VECCHI

New economy, globalizzazione, postfordismo, capitalismo cognitivo. Sono queste le espressioni ricorrenti per indicare il movimento tellurico che ha investito negli ultimi venti anni la produzione della ricchezza. Ognuna di esse mette l'accento su questo o quell'aspetto della "grande trasformazione" in atto, ma tutte sono accomunate dalla convinzione di una discontinuità nel regime di accumulazione capitalistica. Ma constatato il punto di partenza in comune, vanno comunque sottolineate le divergenze e le differenze. Non è infatti un mistero che all'interno di queste "scuole di pensiero" vi siano apologeti dello status quo e rappresentanti del pensiero critico. Chi si pone su un versante critico è sicuramente la rivista francese Multitudes, che vede come direttore Yann Moulier Boutang e una agile redazione composta tanto da ricercatori italiani che da ricercatori francesi. Ora la casa editrice veronese Ombre corte ha raccolto alcuni saggi inediti in Italia dedicati alla "nuova economia" e li ha riproposti, dopo una approfondita discussione all'interno della rivista che ha portato gli autori a chiarire le loro proposte di analisi, in un volume dal titolo L'età del capitalismo cognitivo (pp. 136, € 12,50). Un libro, quindi, da prendere sul serio: per la chiarezza della tesi di fondo e per la loro provocatorietà. (Dei temi che il volume affronta si è discusso ieri a Bologna, all'interno della iniziativa Dark market ospitata nell'ex mercato di Via Fioravanti con la partecipazione di Carlo Formenti e Christian Marazzi).
L'età del capitalismo cognitivo è composto di saggi - a firma di Antonella Corsani, Yann Moulier Boutang, Bernard Paulré, Maurizio Lazzarato, Laurent Moineau e Aris Papathéodorou - e di interviste (a Enzo Rullani, Michel Aglietta e Richard Stallman) accomunati dal rovello teorico, e quindi politico, che si può riassumere nella domanda: l'entrata in produzione della conoscenza scientifica e del sapere en general non ha determinato trasformazioni così radicali da mandare in tilt le varie teorie del ciclo economico e dell'innovazione fin qui consolidate? La parziale risposta che il direttore di Multitudes abbozza tende al positivo, in particolare per due motivi: il ruolo determinante dei fondi pensione nelle attività di borsa e il dissolvimento dell'impresa capitalistica in tanti nodi produttivi legati tra loro tra contratti e vincoli. Che l'esplosione del capitale finanziario non possa essere spiegato solo a partire da un surplus di profitti provenienti dal settore industriale che cerca lidi più "remunerativi" è un fatto orami accettato da gran parte degli studiosi di economia internazionale, ma Yann Moulier Boutang è convinto che l'arrivo in borsa di un fiume di risparmi individuali abbia creato le condizioni di un mutamento radicale del regime di accumulazione capitalistica. Non solo perché tutti cercano di fare profitti a breve termine, ma anche perché, si potrebbe affermare, è il capitalismo stesso che viene investito da comportamenti "opportunistici" e utilitaristici che rendono la finanza il cuore stesso dello sviluppo economico. Ma qui siamo di fronte a un paradosso. Alcuni economisti considerano infatti i fondi pensione come "salari indiretti", affermazione che fa storcere il naso ad altri studiosi, i quali a loro volta considerano la dilatazione della finanza un fattore costante e congiunturale dello sviluppo capitalistico. Non ci troveremmo quindi di fronte a una novità, ma solo all'interno di una fase particolare di un ciclo economico. Non è di questo avviso Yann Moulier Boutang, il quale afferma che la presenza di quei fondi pensione creano un fattore di instabilità permanente, che rende la dimensione cognitiva un fattore centrale nello sviluppo economico, se per cognitiva si intende il "lavoro della mente". Da qui la presa di distanza dalla scuola della knowledge based economy il passo è breve. E' quindi il lavoro della mente che qualifica i rapporti sociali capitalistici, un fattore quest'ultimo che rende politicamente insufficienti le proposte di un "nuovo compromesso" tra capitale e lavoro che dia vita a istituzioni e a un sistema di regole che vincoli gli attori sociali in un rapporto vincolante di cooperazione e conflitto.
Ma se il direttore di Multitudes considera quindi le teoria economiche inadatte a comprendere la "grande trasformazione", il saggio di Antonella Corsani si spinge molto più in là. Il suo è un testo stringente che prende di petto le varie teorie dell'innovazione, da quella proposta dall'economista austriaco Joseph Shumpeter a quella abbozzata da Karl Marx ne Il capitale e i Grundrisse, da quella avanzata da Robert Solow a quella sostenuta da Nicholas Kaldor. Tutti questi studiosi, con tutte le evidenti differenze tra loro, sostiene Antonella Corsani considerano l'innovazione come un processo interno al processo produttivo: siamo però di fronte, argomenta Corsani, a una situazione del tutto nuova, perché l'innovazione nasce oramai fuori dal processo produttivo, da una "cooperazione tra cervelli" extra-lavorativa. A causa di questo fattore gli economisti dello sviluppo poco riescono a comprendere ciò che accade nel mondo della produzione, perché non riescono ad afferrare il bandolo della matassa che conduce dalla "cooperazione tra cervelli" ai laboratori della produzione.
Ma se la crisi delle teorie del ciclo economico e dell'innovazione costringe a cercare una nuova cassetta degli attrezzi, questo vale anche per la teoria politica. Di questo ne è convinto Maurizio Lazzarato, che nel suo contributo parte dalla contestazione che per comprendere l'economia serve, forse, un buon testo di linguistica o di filosofia. E' questo il testo forse più "radicale" del volume, se per radicale si intende giungere agli estreme conseguenze di un'ipotesi di lavoro. Per Lazzarato, l'invenzione e l'innovazione sono sempre il risultato di una cooperazione extralavorativa. Se poi questa è considerata da parte del capitale la frontiera da conquistare non va mai dimenticato che l'unità di misura del valore non si addice proprio alla "cooperazione di cervelli". Da qui l'impasse della teoria economica e, per estensione, del capitalismo. Per la prassi politica tutto ciò ha delle conseguenze, in particolare per quella di ascendenza marxiana. E' difficile parlare di classi sociali, sostiene Lazzarato: la classe è una categoria inservibile, meglio è sostituirla con moltitudine che presuppone l'incommensurabilità del singolare.
C'è comunque un però, come accade sempre in libri che vogliono segnare uno spartiacque tra un prima e un dopo. Gran parte degli autori provengono dall'esperienza della rivista Futur antérieur, la quale si è caratterizzata in Francia come il luogo di riflessione sul "lavoro immateriale". Non è quindi ignoto a loro il fatto che la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro è cosa d'altri tempi e che non è solo la conoscenza ad entrare in produzione, ma che anche il linguaggio e la facoltà generica di tessere relazioni sono oramai i requisiti di tutta la forza-lavoro postfordista, e quindi non solo di quella occupata nei settori hight-tech o nell'indotto dei servizi alla produzione o nella finanza. Da qui, la convinzione da parte di chi scrive che l'innovazione è sempre il risultato della cooperazione sociale, ricondotta però sempre dentro la gabbia d'acciaio del lavoro salariato. Il però di questo libro risiede proprio in questa semplice ovvietà.
Non è tanto in discussione la presunta o vera crisi o aporia della teoria del valore che gli autori di questo volume danno per acquisite, quanto il nodo politico che pone questa situazione "eccezionale" pone. Pensare di aggirarlo, sostenendo che la moltitudine deve solo sganciarsi dalla società capitalista, relega i rapporti di potere e di sfruttamento ancora presenti nella società in una dimensione marginale dell'attuale sviluppo capitalistico, sicuramente rilevanti per alcuni degli autori, date le culture politiche di provenienza, ma appunto come un'eredità del passato che "pesa pesantemente sulle vite dei vivi". Così non è, ovviamente. I fondi di pensione sono davvero "salari differiti" che cercano in borsa una loro valorizzazione. Ma dietro quei "salari differiti" ci sono uomini e donne che non vedono altra strada che quella di una via capitalistica all'autovalorizzazione. Sarà pure il risultato di una grande operazione di falsa coscienza, ma anche questo è la moltitudine. E poi: è certo che il confine tra tempo di vita e tempo di lavoro si è dissolto come neve al sole, ma è altrettanto sicuro che il bandolo della matassa che conduce dall'innovazione ai laboratori della produzione è intriso di lacrime e sangue, tanto al Nord che nel Sud del mondo. Sono questi i motivi che tornano alla ribalta della scena pubblica parole come conflitto e potere.




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