Circolo Pink (a cura di)
Le ragioni di un silenzio
La persecuzione degli omosessuali durante il fascismo e il nazismo
 
il manifesto - 05 Settembre 2002

Sepolti dal silenzio
Triangolo rosa A cura del Circolo Pink, "Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo". Per Ombre Corte

di AUGUSTA MOLINARI

Nel ricordare la sua esperienza di deportato Pierre Seel, un omosessuale di origine alsaziana internato nel campo di concentramento di Schirmeck, scrive: "Ritornai e restai come una figura incerta: evidentemente non capivo che ero rimasto ancora in vita. Gli incubi mi affliggevano di giorno e di notte: mi esercitavo al silenzio". Quella di Pierre Seel (Moi, Pierre Seel , déporté homosexual, 1994), resta una delle poche testimonianze scritte sulla persecuzione degli omosessuali da parte del nazismo. Le ragioni di quella che appare come una vera e propria amnesia storiografica stanno proprio nelle parole di Seel. L'esercizio al silenzio, come impossibilità di tramandare la memoria delle violenze subite, è ciò che ha caratterizzato, a partire dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, la condizione del "sopravvissuto omosessuale". Poche e isolate sono state le iniziative di ricerca per il recupero alla storia e alla memoria delle vicende degli omosessuali perseguitati e deportati. I contributi esistenti sono venuti per lo più da ambienti culturali omosessuali o da studiosi che come Rudiger Lautmann hanno potuto permettersi il going-public dell'omosessualità. Manca a tutt'oggi una stima di massima del numero degli omosessuali internati nei campi e poco o nulla si sa del loro destino. Sia di quello di internati sia di quello di "sopravvissuti". Non è un caso che tra le più di cinquantamila interviste audio e video raccolte dalla "Survivors of the Shoah Visual History Fondation" di Steven Spielberg ve ne siano solo quattro di omosessuali. La stigmatizzazione dell'omosessualità come comportamento "deviante" e la biologizzazione della figura dell'omosessuale come "corpo perverso" hanno rappresentato una costante della cultura europea ancora per buona parte del Novecento. Il nazismo istituzionalizza un processo di biologizzazione di pregiudizi culturali già in atto e lo porta alle estreme conseguenze, nel 1935, con la modifica del Paragrafo 175 del codice penale. Quella che prima era una minaccia di criminalizzazione per gli omosessuali, diventa così una certezza di persecuzione. Basta la prova dell'esistenza di fantasie sessuali di tipo omosessuale per procedere alla deportazione nel lager. La fine del nazismo non segna però un superamento della normativa repressiva nei confronti dei comportamenti omosessuali. Il Paragrafo 175 resta nella normativa penale della Repubblica Federale tedesca fino al 1969. Con il ritorno alla democrazia gli omosessuali non sono più perseguitati come criminali a patto che vivano con discrezione e "in silenzio" la loro "diversità".
La forza del pregiudizio che ha accompagnato e accompagna la manifestazione di comportamenti sessuali non conformi alle regole della moralità dominante non poteva che produrre un processo di rimozione storiografica delle vittime omosessuali della persecuzione nazista e fascista. A differenza di altre categorie di vittime, i sopravvissuti omosessuali non potevano rivendicare appartenenze di gruppo. Il loro era un lutto che era possibile elaborare solo a livello individuale. Le ragioni dell'internamento dell'omosessuale erano attinenti ad una scelta sessuale che la società di allora riteneva patologica e che la società attuale non è ancora disposta ad accettare. La testimonianza degli omosessuali non c'è stata sia perché alle vittime non era consentito rendere visibile la ragione della loro persecuzione sia perché la società europea del dopoguerra non era interessata ad ascoltare le loro "voci". Gli omosessuali non erano considerati una minoranza perseguitata, erano dei perseguitati che avevano diritto alla memoria solo nel silenzio delle loro vite.
L'amnesia storiografica nei confronti della persecuzione degli omosessuali non stupisce ma fa riflettere su orientamenti, contributi, esiti dell'imponente impegno di ricerca e di documentazione sulle vittime della deportazione e dell'Olocausto. La stessa individuazione di categorie di appartenenza delle vittime del nazismo (ebreo, omosessuale, zingaro...), ad esempio, non solo definisce in modo astratto figure sociali diverse e destini non assimilabili, ma riproduce una classificazione storicamente "marcata" dal pregiudizio razziale. La labilità della costruzione sociale della figura della "vittima" appare con particolare evidenza nel caso degli omosessuali. Una categoria di "vittime" trasversale rispetto ai gruppi storicamente identificati della persecuzione nazista. Su questo tema, come sulle tante e complesse ragioni che hanno consegnato all'oblio la storia e la memoria della persecuzioni degli omosessuali, offre un rilevante contributo di conoscenza e di riflessione un volume curato dal circolo Pink di Verona, Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo, Ombre Corte (pp.156, euro13,50).Nel volume sono raccolti saggi di bilancio storiografico, riflessioni sui processi politici e culturali che hanno reso "indicibile" l'esperienza delle vittime omosessuali, testimonianze scritte e orali di sopravvissuti. Di particolare interesse il saggio Rudiger Lautmann, che ripercorre il faticoso percorso della ricerca di fonti sulla persecuzione omosessuale negli archivi tedeschi e quello di Klaus Muller, Uccisi dalla barbarie, sepolti dal silenzio. Nel suo lavoro di raccolta di testimonianze di sopravvissuti omosessuali nell'ambito del progetto della "Survivors of the Shoah Visual History Foundation", Muller ha più di altri sperimentato le "ragioni" che ancora oggi fanno della memoria degli omosessuali un ricordo "a rischio". Oltre a raccontare la sua esperienza, Muller analizza le due più significative testimonianze scritte di sopravvissuti: quella di Pierre Seel e quella di Heinz Heger, pubblicata nel 1972 in Germania e in Italia nel 1991 (Gli uomini col triangolo rosa: testimonianza di un omosessuale deportato in un campo di concentramento, Sonda). Da queste memorie, come da alcune interviste a sopravvissuti riportate nel volume, emerge un aspetto fino ad oggi scarsamente indagato dalla ricerca sulla deportazione e l'internamento: quello della sessualità all'interno del campo. Una sessualità violenta e coatta, come raccontano molti testimoni, ma che in qualche caso poteva anche rappresentare una possibilità di sopravvivenza. Comunque un aspetto della vita del campo da sottrarre all'oblio della memoria e da riportare nella ricerca storiografica. La latitanza di una prospettiva "di genere" nell'indagine sulle vittime della deportazione e dell'internamento ha certamente contribuito a lasciare nella "zona grigia" del silenzio molte vite. Più di altre, quelle degli omosessuali.


Il Venerdì di Repubblica - 7 giugno 2002

ALL'ARMI, SONO GAY

di ATTILIO GIORDANO

Roma. L'ultimo contatto, non si sa di che tipo, è stata informatico e pubblicizzato dalla Stampa di Torino: da un lato del computer il presidente della regione Lazio, Francesco Storace, dall'altro Luca, gay militante diAn che gli rimproverava la frase offensiva: "Caro Storace, fai accapponare la pelle quando affermi che vuoi che le tasse dei cittadini siano utilizzate per i figli dei poveri e non per i vizi dei diversi". Il presidente, cortese, replicava: "Tu affermi che l'omosessualità è una scelta e non un vizio. Consentimi di pensarla in maniera diversa". Pensiero che, tuttavia, non è rimasto astratto, ma ha fatto sì che la legge sulla famiglia del Lazio non preveda contributi per le coppie gay (e neppure per quelle non sposate).
Destra e gay, dunque, dì nuovo di fronte. Ed è una vecchia storia che rivive:domani, a Padova,si sfila per il "Gay Pride 2002", la festa dell'orgoglio omosessuale, dopo una serie di contatti assai meno civili. Ricorda il portavoce del Gay Pride, Alessandro Zan: assalti alle tre sedi di circoli gay della città con vandalismo e scritte inconfondibili: "Froci ai lager", di vecchia tradizione hitleriana. Seguiti da una posizione di Forza Nuova, il gruppo di estrema destra che, a Padova, ha raccolto 1.500 voti ed ha contribuito in modo importante all'elezione, per 600 voti, del sindaco di centrodestra: "Impediremo la manifestazione fisicamente". Poi una sortita di An che voleva fermare la manifestazione con la scusa che coincideva con la tredicina (13 giugno) dedicata al Santo, il patrono della città, Sant'Antonio. E una richiesta di legge popolare per la regolamentazione delle manifestazioni "prima di tutto quelle omosessuali", sempre da membri di Alleanza Nazionale. Infime un brusco dietro-front, dopo che l'Arcivescovo della città, Antonio Mattiazzo, invitava tutti al rispetto degli omosessuali.
Da dove nasce questo ciclico rancore che si ripresenta anche nell'Italia degli anni Duemila? Secondo Franco Grillini, dirigente dell'Arcigay (oltre che psicoterapeuta), "la destra ha sempre avuto una omofobia parossistica: chi parla in continuazione di omosessualità, di machismo, nasconde una paura, un dubbio su se stesso. Chi è sereno non è così interessato alle abitudini sessuali degli altri né intende reprimerle". Trattato in via storica, il ragionamento trova conferma anche in una serie di studi, appena pubblicati i sotto il titolo: Le ragioni di un silenzio (edizioni Ombre corte,160 pp.,13,50 euro) che trattano della persecuzione dei gay, sotto nazismo e fascismo.
Il curatore, Giulio Russo, di madre tedesca, iniziò ad interessarsi all'argomento leggendo documenti d'epoca nei suoi viaggi a Berlino. Ricorda un dato non a tutti presente: "Nei campi di concentramento, segnati da un triangolo rosa, furono internati da dieci a ventimila omosessuali, a cominciare dal 1933, e molti ne morirono: 50 mila furono arrestati in Germania in quegli anni. Li chiamavano centosettantacinquini, poiché il reato contestato era quello del paragrafo 175, inasprito da HitIer nel '35 fino a stabilire l'arresto anche solo per espressioni, dichiarazioni, stato d'animo omosessuale". Russo, che è di Verona, ha chiesto, a partire dal '98, che il 25 aprile fossero ricordati e rappresentati anche questi martiri di Buchenwald, Prettin, Sachsenhausen: "Ma la giunta di centro-destra del sindaco Giustina Destro non ha mai accolto la proposta". Lo avrebbe fatto una giunta di sinistra? "Non so", ammette Russo, "ma certo il pregiudizio anti-gay è molto più forte a destra". Eppure è l'unico caso di internati che, usciti dai campi (se sopravvissuti) entrarono in carcere: il paragrafo 175 fu abolito solo nel 1969.
L'astio per il gay, a destra, è accompagnato da definizioni che suscitino il rìdicolo. Adolf Hitler, nel '35, sbotta: "La Germania ha bisogno di uomini, non di ridicole scimmiette". Ma non è un'invenzione nazista. In quasi tutte le nazioni europee, in quegli anni, esistevano leggi che punivano gli omosessuali: in Francia, nella Germania di Weimar, in Inghilterra. Non in Italia. Tolleranza ante-litteram? Affatto. Il codice Zanardelli, e poi il codice Rocco, non prevedono punizioni per gli omosessuali. Ma un ricercatore, Gianfranco Goretti, è andato a leggere il dibattito preparatorio dei codici, scoprendo che la norma non era stata inserita "perché per fortuna ed orgoglio dell'Italia, il vizio abominevole non è cosi diffuso fra noi da giustificare l'intervento del legislatore". Detto altrimenti: qui non ci sono "froci". Se il nazismo li stermina, il fascismo si limita a confinarli: sono 300 i gay documentati al confino a Ponza, Favignana, Ventotene e alle Tremiti. Il confino, dopo le leggi razziali, diventa politico, con la stessa motivazione della destra di oggi: i gay "non contribuiscono alla crescita delle famiglie" e, dunque, sono potenzialmente eversivi.
Tuttavia, come osservano sia Russo che Grillini, proprio fascismo e nazismo usano inconsapevolmente molta estetica gay, dando conto, senza volerlo, di quel curioso rapporto tra machismo ed omosessualità. "Naturalmente, distorto", dice Grillini. Che ricorda di aver scherzato sul tema a proposito del recente manifesto della Lega: " Un bel giovanottone biondo-padano, tutto muscoli e perfettamente in tono con l'iconografia gay-sadomaso". Diceva un teorico dell'antipsichiatria inglese, David Cooper, che in tutti c'è un rapporto bivalente: "Anche chi diventa poliziotto ha temuto, inconsciamente, di poter diventare un ladro".
Nel nazismo, d'altronde, almeno agli albori, una certa misoginia machista si confonde con l'omosessualità. Le famose SA, le squadre d'assalto del primo nazismo, sono comandate da Ernst Rohn, omosessuale che finisce impiccato per tradimento (tutto il corpo verrà poi trucidato durante la "notte dei lunghi coltelli" che lo vede scalzato dalle SS). In realtà nella Germania pre-nazista l'omosessualità sembrava più che tollerata, anche se teoricamente punita. "C'erano più ritrovi gay nelle Berlino degli anni Venti", ricorda Russo, "che in quella di oggi". Hider cavalca un fastidio popolare incolto, come fa a proposito di altri "diversi": ebrei, zingari, malati psichiatrici, testimoni di Geova, massoni. Tutti malvisti e tutti, d'altronde, pericolosi con le loro culture separate, non omogeneizzabili a quella unica del Reich.
In Italia si trovano invece tracce degli atteggiamenti di oggi: da Leo Longanesi a Curzio Malaparte, l'ideologia è quella dello "strapaese", come ricorda Dario Petrosino, che taccia il "pederasta" di snobismo, modi femminili, eccessiva eleganza e lo connota come straniero, rispetto alla "sana cultura italiana". Cose lontane? Non si direbbe, se il ministro Maurizio Gasparri indica al ludibrio i "giornalisti effeminati" e Ignazio La Russa dichiara: " Se siamo più machi che culi, è colpa nostra?".Anche qui, alla fine, si adombrala bivalenza. Dichiara, ancora, La Russa: "Abbiamo avuto anche noi dirigenti gay. Litigavano sempre, e si graffiavano".
Ma quello che urta è l'outing (anche qui il giornalista si sbaglia, si tratta di "coming out, l'outing è la rivelazione dell'omosessualità di un omofobo, ndr), la dichiarazione pubblica. Punto di vista espresso egregiamente da Alfonso Urso, altro dirigente di An: "L'uomo di destra, se è gay, non lo ostenta". Insomma: che non si sappia in giro. Tanto che Enrico Oliari, gay di An, non può salire sul palco dei congressi. E protesta.
In Italia, poi, la destra anti-gay si salda con la più ortodossa cultura cattolica. Come accadde per il Gay Pride romano. Si lega, persino, l'omosessualità alla pedofilia, contro ogni statistica: quest'ultima, infatti, nasce nella stragrande maggioranza dei casi, all'interno di famiglie "normali".
La revanche anti-gay riparte su questo equivoco con Gianfranco Fini che, da Maurizio Costanzo (1998), dichiara che "un omosessuale dichiarato non può fare il maestro". Seguono, subito, le seconde file. Storace si esalta, Gasparri sottoscrive.
Un imprevisto alleato si trova in Umberto Bossi che, sui matrimoni gay, dice: "Oltre alla capacità di tenuta di queste coppie, come la mettiamo con la fecondazione? Va bene che siamo in tempi di mucca pazza, ma quel problema non è stato risolto. È con i figli che la nazione cresce". Ma il kamikaze si chiama Riccardo Pedrizzi, senatore di An. Dichiara in continuazione: contro il Gay Pride, contro i contributi ai gay, contro le coppie "anomale", persino contro il Festival dei cinema gay di Torino, apprezzato in tutto il mando. "I gay", conclude Russo. "vanno ad aggiungersi, insomma, a tutto ciò chela destra non vuol vedere: immigrati, zingari, malati psichiatrici. Un déjà-vu: gli stessi ospiti dei campi di concentramento, insieme ad ebrei e comunisti".
La contraddizione esplode con il gay conservatore e xenofobo Pim Fortuyn, ucciso di recente in Olanda da un killer "progressista". La destra tace: Io si attacca perché gay o lo si difende perché xenofobo? "È un caso tragîcomico", dice Grillini. "perché si è cercato di valutare con strumenti italiani un uomo di un'altra cultura. Il fatto è che in Olanda, Paese libero e tollerante sui diritti civili, il gay può essere qualsiasi casa, come è giusto. Anche conservatore, anche xenofobo, persino fare politica con successo essendo una macchietta negli atteggiamenti come era Fortuyn, che sembrava Ugo Tognazzi nel Vizietto. Può essere quello che vuole, può sposarsi, riceve contributi, nessuna va a guardare nella sua camera da letto. Insomma: è come tutti".


LA STAMPA - 20 agosto 2002

UN LIBRO AL GIORNO
Le ragioni di un silenzio di SERGIO TROMBETTA

Frederick-Paul von Grossheim: "Il cibo mancava sempre. Ma era un periodo felice, la gente lo chiamava "I meravigliosi Anni 20". E io avevo 14 anni nel 1920. Poi cominciò un periodo terribile. Non solo venivamo arrestati in flagrante, ma anche solamente su sospetto e con le botte e le percosse eravamo costretti a fare i nomi degli altri. E' così assurdo essere puniti per l'amore". Paul-Gehard Vogel: "E' la solita storia, ero comunista...un bolscevico, il più basso della scala sociale e in più sessualmente "dall'altra parte". Sono stato perciò doppiamente punito". Kurt von Ruffin, attore e cantante: "Nel 1931 fui arrestato. L'uomo che mi fece prendere, probabilmente perchè fu torturato orribilmente e fece alcuni nomi compreso il mio - sebbene non ci avessi mai avuto a che fare -, fu preso in seguito alla denuncia di una tenutaria di bordello. (...) Provo un senso di tranquillità, di soddisfazione e giustizia verso quello che è stato fatto ai nazisti. Così sarà sempre, fino a quando vivrò". Sono rare le testimonianze degli omosessuali sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, come per esempio queste tratte dal video "Eravamo marchiati con la A maiuscola" di Joseph Weishaupt e Elke Jeanrond. Per almeno 50 anni dopo la fine della guerra e la liberazione dei lager, la repressione degli omosessuali nella Germania di Hitler, condannati ai lavori forzati nei lager e a portare cucito sul petto un triangolo rosa, ha continuato a restare un tabù. Non solo perchè l'orrore per la Shoah ebraica ha in qualche modo occupato tutta l'attenzione con i suoi sei milioni di vittime. Perchè soprattutto in Germania, l'omosessualità ha continuato ad essere considerata un reato e il paragrafo 175 del codice penale, che la condannava, è rimasto in vigore per decenni. Perchè i sopravvissuti portavano ancora in sè la vergogna, preferivano il silenzio. Soltanto verso la fine del 900 i ricercatori hanno incominciato a lavorare negli archivi dei lager. La memoria dei sopravvissuti ha preso corpo in interviste e testimonianze. Sono notizie che si trovano in "Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo" raccolta di saggi realizzata dal Circolo Pink arcigay di Verona e pubblicata da Ombre Corte. Importate anche la parte dedicata all'Italia. Il confino per i gay non è stato un fenomeno di massa: si calcola che fra il '38 e il '41 siano stati 300 i condannati. Ed è curioso scoprire che la repressione infieriva là dove c'erano prefetti particolarmente ligi alle direttive di regime che imponevano anche un giro di vite antigay dopo la promulgazione delle leggi razziali. Non si spiegherebbe altrimenti il confino alle Tremiti di 44 giovani catanesi nel '39. Ma dai saggi in volume emerge un atteggiamento omofobo non solo poliziesco, ma anche dei fini intellettuali di regime. E "L'Italiano" di Leo Longanesi fu la migliore palestra. Qui si ballava, per esempio, la rivista "Il 900" di Bontempelli perchè "Vedeva di buon occhio gli ermafroditi e i pederasti; adorava i mulatti e non sapeva mai dire non ad un ebreo".


Liberazione, 30 gennaio 2003

La deportazione degli omosessuali nei campi di sterminio nazisti
IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI


di ROBERTO ANDREA LORENZI

La "Giornata della memoria", voluta dal Parlamento con un'apposita legge del 2000, rischierebbe ancora una volta di trasformarsi in giornata del silenzio se, accanto alle vittime dell'Olocausto, non ricordassimo finalmente quelle minoranze non ebree che pure subirono la persecuzione, la concentrazione e persino l'eliminazione da parte del nazismo e, in via subordinata, del fascismo.
Tra queste minoranze costituite da Rom e Sinti, Testimoni di Geova, prostitute, asociali, alcolizzati cronici, disabili psichici ed altri gruppi ancora, si ritrovarono gli omosessuali, quasi tutti tedeschi ed austriaci, internati, secondo una stima prudente, in 10000-15000, dei quali morirono non meno del 60%. Solo una quindicina dei sopravvissuti ha finora infranto il silenzio fornendo testimonianza, anche perché dopo il crollo del nazismo e del fascismo ha continuato a persistere un diffuso e inavvertito atteggiamento omofobico, il pregiudizio d'esclusione largamente precedente il nazismo, sul quale quel regime aveva potuto costruire una pseudo-scienza, l'eugenetica, nonché una legislazione razzista e sessista che trovò il suo paradigma nella revisione del paragrafo 175 del Codice criminale del Reich del 1935, abrogato solo nel 1994.
La memoria di queste vittime è per altro "impersonale", nel senso che essa non risponde ad un gruppo sociale, linguistico o etnico determinato, quanto piuttosto ad una "figura di confine", l'omosessuale appunto, per eccellenza figura dell'alterità che venne utilizzata da quasi tutti i gruppi sociali come esplicito anti-modello per affermare la loro rispettabilità. E' certamente per questo retroterra omofobico, di fondazione antica, ma potentemente rinnovato tra fine Ottocento ed inizi Novecento dalle pretese della nuova sessuologia e dal regime nazista da un vero e proprio imbroglio scientifico, che il paragrafo nazista 175 continuò ad essere applicato prima dagli alleati liberatori e poi dalle autorità federali tedesche come diritto vigente.
Questa continuità ideologica denuncia interamente la trasversalità di alcuni portati culturali di fascismo e nazismo, il modello "machista" e "guerriero" a cui serviva, e serve ancora, la costruzione e la persecuzione variegata dell'anti-modello omosessuale.
Dunque, è necessario scavare più a fondo nelle memorie, anche delle "civiltà" e del diritto, se si intende comprendere come il silenzio imposto agli omosessuali dalle società del dopoguerra li abbia di fatto atomizzati al punto che "la loro persecuzione divenne destino individuale", come sostiene con lucida consapevolezza Klaus Muller in uno dei saggi dedicati alla persecuzione degli omosessuali durante il nazismo ed il fascismo (Le ragioni di un silenzio, a cura del Circolo Pink di Verona, Ombre corte, Verona, 2002).
Bene aveva inteso queste contorte dinamiche di accertamento violento dell'identità di maggioranze surrettiziamente identificate con il "popolo", Gianfranco Goretti che, riportando nel 1989 un'intervista ad un omosessuale catanese condannato al confino fascista a San Domino, nelle Tremiti, annotava: "... prima del 1936 gli omosessuali venivano condannati al confino comune, ma, dopo tale anno, l'atteggiamento del regime cambia: ai "pederasti" spetta il confino politico... Così anche in Italia l'omosessuale diventa un pericolo in sé, è antifascista in quanto omosessuale, poiché non rispetta i canoni della virilità, perché la sua esistenza è sinonimo di degenerazione razziale".
La tremenda sorte delle persone omosessuali, segnata da persecuzione, esclusione, messa alla berlina, sarcasmi linguistici, trova dunque il suo fondamento di legittimazione nella biologizzazione dei pregiudizi culturali che aveva segnato del marchio dell'infamia ebrei, zingari, disabili ed omosessuali come degenerazioni della natura: è questa promozione del pregiudizio a scienza una spiegazione convincente della condotta passiva della popolazione tedesca nei confronti dell'omicidio di massa, ma anche dell'esclusione (che continua anche in Italia) degli omosessuali perseguitati dalla cultura della memoria. Anche di quella che pretende di chiamarsi democratica.


Carta n. 18

Fanno rumore "Le ragioni di un silenzio"

di FABIO BOZZATO

Il silenzio è un'arma micidiale. Nega identità, seppellisce la memoria, riga le biografie. Il silenzio può essere considerato la cifra più impressionante dell'omosessualità. Non a caso, gli omosessuali e le lesbiche hanno inventato una forma di riscatto originale, che unisce percorso individuale e sfera sociale, e si chiama "coming out". Cioè prendere parola e rivendicare la propria identità. Scoprire il proprio corpo come un luogo politico. Operazione difficile. Soprattutto perché quel silenzio è un processo storico, che segna e tumula tragedie, finite lungo il secolo faticoso del Novecento nell'imbuto della Shoah. Oggi possiamo raccontarlo. Grazie al lavoro coraggioso di alcuni storici, che hanno raccolto tracce e sussurri e hanno ampliato i primi tentativi di inchiesta storica di gender studies. Come nel bel libro "Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo", curato dal Circolo di cultura omosessuale Pink di Verona [in particolare da Giulio Russo].
Non è casuale, Verona. La città laboratorio della destra plurale: dai nazisti a Forza Italia, dai fondamentalisti cattolici alla Lega, dalla curia al municipio. Qui, il Pink - una delle realtà più combattive e intelligenti del movimento gay italiano - ha aperto da anni un percorso fecondo sull'antifascismo e sull'antirazzismo, tanto da essere diventato il cuore laico e multiculturale della città. Proprio da un convegno tenuto a Verona nel '99, è nata l'idea di raccogliere in un volume le ultime riflessioni storiografiche sull'omocausto.
Sono dieci contributi storici che delineano il contesto ideologico e simbolico che porta all'annientamento delle "vite non degne di essere vissute" [Carlo Saletti] e alla costruzione dello stereotipo [Dario Petrosino], le dinamiche di persecuzione e di sterminio in Germania [Rudiger Lautmann] e di confino in Italia [Gianfranco Goretti], i meccanismi di rimozione [Giovanni Battista Novello Paglianti]; si riportano alla luce le voci dei testimoni e dei sopravvissuti [Klaus Muller, Andreas Sterweiler]. In copertina un'immagine fornita dal prestigioso Museo dell'Olocausto di Washington, che ha collaborato alla realizzazione del libro. Klaus Muller ne è il rappresentante in Europa: "Nel Memoriale ci sono tremila piastrelle dipinte da bambini, a cui avevamo chiesto dei disegni in ricordo delle vittime della Shoah. Uno di loro, con nostra grande meraviglia, ha dipinto un triangolo rosa e ha scritto: 'remember gay victims'. Quella sorpresa racconta una memoria recuperata dall'oblio. E ridà dignità ai destini di centomila omosessuali arrestati, metà passati sotto processo, ai 15 mila internati nei campi di concentramento, il 60 per cento dei quali è morto". "In Italia l'omosessualità non esiste, dichiaravano i gerarchi fascisti, sostituendo la persecuzione penale in un affare di polizia: silenzioso, mirato, efficace - racconta Gianfranco Goretti, uno dei giovani autori - Di qui è passata la costruzione del silenzio. Oggi possiamo calcolare che circa 300 persone abbiano subito il confino e che un numero simile sia stato sottoposto a provvedimenti di umilianti ammonizioni e arresti domiciliari".





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