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Attualità della vittima
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La rappresentazione umanitaria della sofferenza
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il manifesto, 18 Settembre 2004
I filantropi della guerra infinita
«Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza», un libro del filosofo Philippe Mesnard. Nel mondo globalizzato, l'intervento umanitario è spesso la continuazione della politica estera con altri mezzi. Ma non mancano le eccezioni. In questo caso, le ong sono il veicolo di una militanza su scala globale
di ANNA SIMONE
Intorno alla fine degli anni `50 Roland Barthes pubblicava in Francia Miti d'oggi. Il testo non ebbe un'eco qualunque, anzi. Con esso l'analisi semiologica dei simboli, delle immagini, dei segni diveniva anche critica ideologica, smontaggio degli status symbol del sistema capitalistico e della sua cultura di massa. Inoltre, fornendo una lettura semiologica delle rappresentazioni collettive, si dimostrava quanto, di fatto, fosse necessario interconnettere più tipologie di saperi per leggere la propria contemporaneità: bisognava uscire dalle cristallizzazioni specialistiche tenendo assieme campi del sapere assai diversi - dalla sociologia alla critica letteraria - per «rendere conto in dettaglio della mistificazione che trasforma la cultura piccolo-borghese in natura universale». E bisognava farlo a partire da una decodificazione dei segni e delle immagini che ogni società produce per potersi rappresentare. Sempre seguendo Barthes si potrebbe dire che qualsiasi immagine o simbolo, se letti così, possono avere un senso ovvio - dettato dalle circostanze del luogo comune stereotipato -, ed un senso ottuso - un terzo senso sfuggente che solo un sapere critico può riuscire a tradurre. Poi sono arrivati, sempre in Francia, i magistrali lavori di Pierre Bourdieu sulla televisione, sullo statuto dei saperi, sulla miseria del mondo, anche se questa volta, rispetto agli anni `50, qualcosa è cambiato. Non si tratta più di decostruire e criticare i codici estetici del boom economico e della società del benessere. La posta in gioco è molto più alta e passa attraverso le guerre globali, la morte come fatto generalizzato, l'eclissi del welfare state, l'uso del terrore collettivo come arma di ricatto politico. Il senso ottuso, insomma, diviene sempre più complesso da tradurre perché crescono a vista d'occhio i dispositivi di potere che tentano di nasconderlo.
E' sotto questo segno che prende corpo l'ultimo lavoro di Philippe Mesnard appena edito da Ombre Corte (Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza, pp. 124, € 11). L'autore riesce, brillantemente, a dare conto delle mutazioni socio-politiche del presente proprio a partire da un'analisi semiologica di un dispositivo assai comune: la rappresentazione collettiva dell'umanitario e del suo capro espiatorio per eccellenza, la vittima. Come un serpente che si morde la coda, la vittima delle guerre globali e del neo-liberismo viene prodotta, costruita e, una volta divenuta rappresentazione collettiva stereotipata, viene utilizzata in modo diverso da più attori sociali. Qui, l'autore, fa l'esempio di alcune associazioni umanitarie che operano a livello globale, le quali salvo qualche eccezione (Mesnard cita solo due casi francesi che vanno contro-corrente: Médecins sans frontières e Aux captifs, la libération, ma in realtà ce ne potrebbero essere molti altri, alcuni dei quali direttamente impegnati a gestire le contraddizioni del presente stando dalla parte dei movimenti pacifisti), fanno dell'immagine della vittima un dispositivo di potere. In questo caso l'immagine della vittima, affiancata dal logo del suo protettore e salvatore diventa funzionale al sistema capitalistico e al suo spirito filantropico. Si pensi, per esempio, al lavoro umanitario direttamente gestito dagli stessi stati che producono guerre, massacri di massa e forme di neo-colonialismo.
La rappresentazione della vittima solitamente ha un valore singolare ed uno universale. La singolarità, però, se usata e stumentalizzata così «paga il prezzo della propria negazione dal momento che le vittime diventano pressoché intercambiabili», mentre dei diritti universali vengono sostituiti da iniziative legate all'assistenzialismo. Le vittime, infatti, non hanno diritto di parola se non attraverso la parola dei loro salvatori. Sono solo lì a testimoniare che qualcosa, nel mondo, non funziona anche se c'è sempre qualcuno disposto ad immolarsi per loro: quelle stesse persone che li hanno indotti a divenire vittime.
L'immagine è quasi sempre affiancata da una produzione discorsiva la quale - come ci dice Mesnard - attiva sullo spettatore due livelli di produzione di senso. Uno culturale, legato al potenziamento del senso di colpa ed uno competitivo: spesso si crea un vero e proprio mercato concorrenziale tra i «lavoratori umanitari» rispetto alle frasi d'effetto da usare, al logo, all'immagine scelta e, di conseguenza, anche una competitività nell'utenza. La rappresentazione della vittima assume, quindi, le sembianze di un dispositivo stigmatizzante su scala globale che, in quanto tale, legittima la funzione regolatrice e normalizzante dell'umanitario. Anche se, va detto, parte del lavoro umanitario di oggi si differenzia fortemente dallo spirito filantropico messo in discussione da Marx proprio perché è costretto a gestire le «troppe» contraddizioni del presente assumendosi, tra l'altro, tutti i rischi di una militanza complessa e controversa, come dimostra il rapimento delle due Simona e dei due operatori iracheni della cooperazione internazionale.
L'autore, a questo punto, si interroga sul contesto entro cui si delinea il lavoro umanitario più legato alla «ragion di Stato» cercando di capire se lo si può pensare come un sostituto della politica o semplicemente come un suo prolungamento. Ricorrendo più volte alle analisi di Foucault sulla polizia secondo cui essa «ingloba tutto», perché oltre ad essere una «tecnica di governo propria dello Stato», si interessa al modo di vivere degli individui, ai loro gusti letterari e al loro modo di stare al mondo - innescando meccanismi sia preventivi che repressivi basati su un moralismo di maniera - l'autore sostiene che l'umanitario, qualora sostituisca i servizi sociali e quindi lo Stato, può arrivare ad avere le stesse prerogative. In questo caso l'umanitario non sostituisce la politica che, invece, decide le guerre, ma ne è il suo prolungamento, andando ad assolvere funzioni diplomatiche altrimenti impraticabili. E non solo perché in molti casi la collaborazione tra militare e umanitario è sotto gli occhi di tutti (basta entrare in un campo profughi o in un Cpt) ma anche e soprattutto perché, sia la polizia che le forze militari assumono sempre più le sembianze di un dispositivo «redentore». La funzione civilizzatrice delle ultime guerre, siano esse direttamente appellate come «umanitarie» o denominate come «guerre al terrorismo», con annessi «eserciti della salvezza», cosa è se non una rappresentazione collettiva del bene e del male? Idem si potrebbe dire per i fautori dell'ideologia «sicuritaria» la quale ha portato Mesnard, mutando una vecchia tesi di Foucault (che a sua volta rovescia la tesi di Clausewitz), a dire che «la polizia è la continuazione della guerra e della politica con altri mezzi». E tra i mezzi, per l'autore, c'è anche quella parte dell'umanitario che stigmatizza a suo uso e consumo la vittima senza interrogarsi mai sulle cause che l'hanno prodotta.
Sono passati cinquant'anni dalle analisi di Barthes, un ventennio dalle analisi di Foucault, qualche anno dalle analisi di Bourdieu, qualche settimana dall'uscita del libro di Mesnard. Quest'ultimo, quando ha dovuto mettere un punto alle sue ricerche, probabilmente non aveva ancora visto le immagini delle soldatesse sadiche nel carcere di Abu Ghraib. Immagini lontanissime da quelle dell'esercito della salvezza eppure esplicative al punto tale da invitare l'autore a cominciare una ricerca «sull'attualità del carneficie» e sulla «rappresentazione perversa del risentimento». Qui, però, non si potrebbe più mettere in discussione il moralismo che sottende l'umanitario, semmai bisognerebbe ripensare un'etica globale.
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