Alessandro Dal Lago
Polizia globale
Guerra e conflitti dopo l'11 settembre
 
Liberazione, 1 luglio 2003

Guerra e conflitti nell'era del mercato-mondo. L'analisi di Alessandro Dal Lago

Globalizzazione in divisa

di Guido Caldiron

Dalla prima guerra del Golfo alle giornate genovesi del luglio 2001, dalla legislazione speciale post-11 settembre all'ideologia della "guerra permanente". Il quadro che Alessandro Dal Lago delinea nel suo Polizia globale, appena pubblicato dall'editore veronese Ombre Corte, (pp. 134, euro 10,00), mette insieme i diversi elementi di quello che è in realtà un solo orizzonte, vale a dire ciò che si potrebbe definire come la dimensione armata dei processi di globalizzazione. Un orizzonte nel quale emergono certamente fratture e contraddizioni, si pensi a quella enorme che ha preso forma tra Europa e Stati Uniti in occasione dell'attacco all'Iraq, ma del quale non è certo prevedibile annunciare la messa in discussione, per non parlare di una autentica, possibile, crisi. Perché, in ogni caso, da queste fratture riemerge costantemente il ruolo di primo piano che svolgono gli Usa, e in particolare l'attuale amministrazione di Washington, nel definire una nuova attitudine aggressiva che trova nella minaccia della guerra una delle sue principali caratteristiche. In questo senso, spiega Dal Lago, «con "polizia globale" intendo la capacità americana di intervenire in qualsiasi situazione in cui gli equilibri strategici locali favorevoli agli Usa (politici, ma anche economici ed energetici) siano minacciati o sovvertiti. Una capacità che non prevede esclusivamente l'intervento militare, ma lo presuppone costitutivamente».
All'interno dei processi di globalizzazione mondiale si è infatti messo in moto un meccanismo, quello che Michael Hardt ha definito come "golpe nell'Impero", o meglio, ha assunto nuova visibilità un dato tradizionale della politica di quel paese, che assegna agli Stati Uniti un ruolo da gendarme del pianeta, concentrato più che mai a tutelare e difendere con ogni mezzo i propri interessi. Una caratteristica che, secondo Dal Lago, sarebbe divenuta in particolare visibile nel 1991, in occasione della prima guerra del Golfo. All'epoca, spiega il sociologo dell'università di Genova, «mentre gli europei sognavano una sorta di stato mondiale occidentale, i think tank americani elaboravano le implicazioni strategiche della vittoria nel Golfo: ridimensionamento della Nato, accerchiamento della Russia e sorveglianza della Cina, ristrutturazione di tutta l'area medio-orientale per controllare le risorse petrolifere, resa dei conti con Iraq, Siria e Iran, sostegno senza eccezioni a Israele. Gli americani pensavano sì all'ordine mondiale, ma americano. Dodici anni dopo, durante i preparativi per la "decapitazione" di Saddam, i media europei hanno scoperto che i relativi piani risalivano all'epoca della guerra del 1991 ed erano stati preparati proprio da quelli che sarebbero diventati gli uomini di Bush Jr: Paul Wolfowitz, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell, Richard Perle ecc.». «Il fatto è - conclude Dal Lago - che ben pochi in Europa si erano presi la briga di analizzare i documenti degli strateghi americani e di studiare la trasformazione del loro apparato militare. Soprattutto, avevano dimenticato quanto sia radicata nella cultura politica americana la dottrina del ricorso alla guerra. Gli Usa si considerano (e sono) virtualmente in guerra con chiunque per i propri interessi dal momento in cui si concluse la conquista del continente americano. E' da più di un secolo, dalla guerra contro la Spagna, che gli Usa si battono per l'egemonia mondiale, con l'eccezione (relativa) dei vent'anni tra la prima e la seconda guerra mondiale».
Ma questa caratteristica della politica statunitense diviene oggi l'elemento di maggiore visibilità e pericolo di una trasformazione complessiva conosciuta in questi anni dalla stessa definizione di "guerra" e "conflitto". Gli Usa assumono in realtà un ruolo di primo in uno scenario globale che fa della soluzione militare delle controversie tra paesi una delle proprie linee di tendenza, solo che i conflitti sono posizionati altrimenti rispetto al passato, nella scala dei valori e della prassi delle società occidentali. Ricorrendo a una formula nota si potrebbe spiegare questo passaggio con la progressiva "militarizzazione" dello spazio un tempo definito dell'ordine pubblico interno a ciascun paese e nella contemporanea modifica degli interventi armati verso altre nazioni da atti di guerra in atti di "polizia internazionale". E' per questa via che le giornate genovesi del luglio del 2001 e le conseguenze, sul piano della repressione e dei diritti civili, degli attacchi terroristici dell'11 settembre, concorrono ad illustrare il medesimo clima internazionale. «Mai come in questa fase - scrive infatti l'autore di Polizia globale - la "libertà" dell'Occidente è stata considerata il bene simbolico supremo da difendere contro una folla di nemici dal contorno indefinibile, o meglio definibile in termini più che altro culturali (il terrorista, l'arabo, il fondamentalista, lo straniero, ma anche l'ecologista estremo, l'hacker e, al limite, il nemico della globalizzazione) (...) Ed è esattamente militare la cultura della sicurezza che oggi prevale in Occidente, una cultura a cui l'11 settembre ha conferito dignità strategica ufficiale, ma che a ben vedere si è affermata da almeno un decennio».




Jura Gentium - Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale

Recensione
di Vittorio Morfino

Il testo di Dal Lago si presenta come una raccolta di articoli che, pur nella loro dimensione occasionale, convergono nel tentare di definire concettualmente la fase storica che stiamo vivendo. Il titolo, Polizia globale, può essere considerato il nucleo simbolico attorno a cui l'autore tesse le trame concettuali che rendono visibile la specificità di questa fase. Qual è il senso di questa espressione? Dal Lago ritiene che essa prenda senso all'interno di una ricostruzione della storia del secolo passato che vede gli Stati Uniti battersi per l'egemonia mondiale. Lungi dunque dall'abbandonarsi alla popolare canzone della crisi degli stati nazione, la ricostruzione proposta dall'autore vede al centro della fase attuale uno Stato che attua una politica di potenza e che ha visto maturare l'occasione di controllare il mondo, a cui la povertà del progetto politico dell'unificazione europea non ha nulla da contrapporre. Gli stati nazionali non sono dunque scomparsi, ma ve ne è uno che domina la scena, mentre gli altri "o sono nemici ('stati canaglia', residui del socialismo reale, supposti santuari del terrorismo) oppure, se sono amici o alleati, hanno diritto a un ruolo analogo a quello che il regno di Pergamo e le città greche giocavano al tempo dell'espansionismo romano nel Mediterraneo" (p. 17). La questione decisiva è come sia stato possibile che un singolo Stato sia diventato il tutore dell'ordine mondiale: "Né il capitalismo, né le ragioni egemoniche, né il petrolio, né il complesso militare-industriale, né la particolare natura della democrazia americana e tanto meno la supposta religiosità di alcune élite, possono spiegare da soli l'attuale proiezione degli Usa sulla scena mondiale come super-potenza imperiale" (p. 19). Dal Lago rifiuta dunque spiegazioni unilaterali: in realtà la fase attuale è il frutto di un processo storico di lunga durata che si è aperto con la liquidazione degli imperi coloniali europei grazie alla vittoria nella seconda guerra mondiale e che è proseguito con una strategia del dominio indiretto o per procura: "nelle aree strategicamente decisive [...] gli Usa si sono sempre appoggiati a regimi locali (indipendentemente dalla loro natura autoritaria o arcaica), tollerando in certi casi l'evoluzione democratica (per esempio le Filippine o il Cile), tentando di destabilizzarli (ieri il Nicaragua e oggi il Venezuela) o di controllarli con un costante sostegno militare (Colombia), eliminandoli se divenuti pericolosi (Afghanistan, Iraq), oppure accettandone temporaneamente l'esistenza in mancanza di alternative praticabili (quasi tutti gli stati del vicino oriente, come Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Pakistan ecc.)" (pp. 19-20). Tuttavia la politica estera americana non può essere intesa come un blocco unitario: essa è profondamente influenzata dal mutare degli equilibri interni, cosa che è sotto gli occhi di tutti se si osservano le differenze tra la politica estera di Clinton e quella di Bush.
Ora, con Bush si apre una guerra al terrorismo che certamente è stata occasionata dall'11 settembre e che tuttavia non è affatto estemporanea: essa cela una politica di controllo strategico delle aree decisive per il mantenimento dell'egemonia economica e politica degli Usa. Questa nuova strategia viene sintetizzata da Dal Lago con l'espressione "polizia globale", con cui tuttavia l'autore non vuole presupporre "l'esistenza di una 'guerra civile globale', né uno scontro generalizzato tra il potere imperiale e i nuovi barbari o moltitudini che premerebbero ad portas" (p. 24): non esisterebbe infatti una dimensione omogenea delle resistenze all'egemonia Usa, esse sono differenziate e politicamente incompatibili ("varie forme di nazionalismo in Medio oriente, in Asia centrale e in estremo oriente [...] per non parlare dei movimenti popolari in vaste parti dell'america latina; [...] l'esistenza di potenze continentali come la Russia, la Cina, l'Iran"). Una declinazione in termini di "guerra civile globale" di una tale complessità significherebbe "azzerare la complessità delle sfere politiche del mondo globale" (p. 24). Cosa significa allora l'espressione "polizia globale"? La gestione americana dell'egemonia riposa precisamente sull'imperativo di non permettere alcuna sintesi di questa complessità; non vi è dunque una strategia unica che rischierebbe di produrre l'effetto di un'unificazione antiamericana, ma una situazione di disordine controllato in cui la polizia globale starebbe a significare la capacità americana di intervenire in qualsiasi situazione i cui equilibri strategici non siano favorevoli agli Usa: "L'enfasi che l'amministrazione di Bush Jr. pone sulla democrazia, l'autodeterminazione dei popoli ecc. lungi dall'avere un significato escatologico, millenarista o banalmente propagandistico è semplicemente un messaggio imperiale: non c'è compagine statale al mondo che non possa essere sovvertita se gli Usa ritengono di essere minacciati, non c'è tirannia o democrazia che non possa essere eliminata, anche se oggi alleata o in pace con gli Usa, se non si allinea sempre alle direttive americane" (p. 25).
L'espressione "polizia globale" designa dunque in estrema sintesi questa fase storica caratterizzata da una strategia di intervento in ogni angolo del mondo in cui siano minacciati gli interessi e l'egemonia americani. È tuttavia la forma stessa di questo intervento che risulta caratterizzante; Dal Lago ne analizza la specificità in quattro punti:
La guerra in questa fase non costituisce una discontinuità o una rottura simbolica rispetto al flusso delle relazioni internazionali, rottura che "nel Novecento, si esprimeva nelle dichiarazioni formali di belligeranza ai nemici, nella mobilitazione totale dei paesi in conflitto, nella (relativa) subordinazione delle istanze economiche e politiche interne alla suprema esigenza della vittoria" (p. 27). Dal '91 in Kuwait, le guerre non vengono più dichiarate, al nemico non è riconosciuta nessuna parità formale o sostanziale: "la guerra del 1991 è stata concepita come un intervento di ordine pubblico internazionale in nome dell'Onu, cioè di un'istanza mondiale [...] incommensurabile rispetto alle pretese dello stato iracheno. Un'incommensurabilità che nel 1999 si è riproposta senza legittimazione Onu [...] e nel 2003 come atto unilaterale di Usa, Gran Bretagna e pochi altri" (p. 27). Ciò significa che si è affermato il principio pratico secondo cui si può usare la forza ogni volta che alleanze guidate dagli Stati Uniti decidono di intervenire: in questa prospettiva è rilevante il fatto che l'intervento non implica una mobilitazione totale, l'intervento militare è dunque in un certo senso normalizzato, esso è sempre possibile.
Vi è una estrema varietà, flessibilità e fungibilità degli interventi militari, ossia non solo l'uso della forza è stato normalizzato, ma "non vi è soluzione di continuità tra l'uso pubblico e visibile della forza militare, l'impiego di misure paramilitari come le sanzioni economiche e interventi coperti, clandestini e indiretti di sovversione degli avversari, anche quando non sono considerati ufficialmente dei nemici" (p. 29). Apparentemente nulla di nuovo, se tutto ciò non avvenisse come normale misura di politica estera, cosa che sostanzialmente fa del mondo il "cortile di casa" degli Stati uniti.
Vi è poi una asimmetria fondamentale negli armamenti. Gli Usa cioè dispongono di forze armate superiori a qualsiasi altro Stato, nessuna reale competizione in questo campo è possibile: ciò permette di infliggere qualsiasi perdita al nemico subendone pochissime, rendendo accettabile la guerra agli occhi dell'opinione pubblica. In altre parole, nonostante l'imponenza del movimento pacifista di fronte alla guerra in Iraq, le guerre rapide e poco costose finiscono secondo dal Lago per essere accettabili per l'Occidente
Infine l'11 settembre ha sostanzialmente fornito un argomento per un interventismo permanente. Gli Usa possono intervenire contro ogni Stato che sia sospettato di appoggiare pratiche terroristiche: ciò comporta "la stessa assolutizzazione di mezzi che solitamente si impiegano contro terroristi interni o esterni [...]. Il nemico terrorista va estirpato, eliminato, cancellato. [...] Quando è un intero Stato a ricadere in questo modello, lo scopo sarà [...] quello dell'eliminazione, della decapitazione dei vertici e non della mera sconfitta militare" (p. 32). Il rovescio della medaglia di una situazione di questo genere è che se qualsiasi conflitto è declinato in termini di lotta al terrorismo, ogni opposizione alla "polizia globale", può essere tacciata di terrorismo.
Questo lo scenario mondiale. Di fronte a esso quale strategia politica è pensabile? Dal Lago ritiene che una strategia politica europea veda come primo passo necessario un ripensamento dell'idea stessa di Europa: in primo luogo "la costruzione di strutture democratiche interstatali" che permettano la "traduzione del potere economico europeo, che resta rilevante, in peso politico e soprattutto in capacità di condizionare l'assetto del mondo" (p. 120), in secondo luogo, una lotta al liberismo economico fino ad ora "ciecamente perseguito dall'Unione Europea", che proprio a partire dall'Europa contribuisca a far nascere un "movimento mondiale di governo democratico dell'economia" (p. 20); in terzo luogo una politica dei diritti civili che allontani il rischio di forme larvate di dittatura prodotto dallo stato di guerra permanente; in quarto luogo, la liquidazione della Nato "come residuo di un passato atlantico che oggi non ha più senso" a vantaggio di una politica comune di difesa europea, in cui sia posto fortemente "il problema del controllo democratico della difesa" (p. 121); infine un radicale ripensamento dei rapporti con il mondo non sviluppato che da una parte si ponga come alternativa all'espansionismo predatorio statunitense e dall'altra che preveda il riconoscimento di diritti paritari ai migranti.






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