Ranajit Guha
Gayatri Chakravorty Spivak
Subaltern Studies
Modernità e (post)colonialismo
 
il manifesto, 12 dicembre 2002

I CODICI SVELATI DEL COLONIALISMO
La ricerca affannosa e dagli esiti incerti di soggettività collettive affrancate dal peso del colonialismo al bivio tra rivolta e assimilazione. Pubblicati per la prima volta in Italia nel volume collettivo "Subaltern Studies. Modernità e postcolonialismo" alcuni dei saggi che hanno dato nuovo impulso agli innovativi studi sui gruppi subalterni

di TONI NEGRI

ISubaltern Studies stanno alla storiografia proletaria contemporanea come i Quaderni Rossi stanno alle scienze sociali insurrezionali: è questo il senso della lettura che molti, in Europa e nel mondo, hanno fatto di Subaltern Studies e di Quaderni Rossi. Ma vediamo la cosa più specificamente. Il volume Subaltern Studies. Modernità e postcolonialismo (Ombre Corte, pp.144, € 12,50) che qui discutiamo, comprende una presentazione di Sandro Mezzadra, un'introduzione di Edward Said, un breve testo programmatico di Ranajit Guha, due testi fondamentali dello stesso Guha (A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell'India coloniale e La prosa della contro insurrezione), nonché un saggio di Gyatri Chakravorty Spivak (Subaltern Studies: decostruire la storiografia). Questo saggio della Spivak, così come il bellissimo intervento di Said, stavano anche nel primo volume di Selected Subaltern Studies, pubblicato dalla Oxford University Press nel 1988, e davano il segno della straordinaria ricezione che gli studi della scuola storica indiana avrebbero ottenuto nel mondo universitario americano. Forse, se fosse stato possibile pubblicare qualcun'altro degli scritti contenuti nel volume dell'88, e in particolare quelli di Partha Chatterjee e di Dipesh Chakrabarty, si sarebbe fatta cosa molto utile. Grazie comunque all'editore di Ombre Corte e al curatore Sandro Mezzadra, per aver offerto al pubblico italiano questo grosso aperitivo di un'opera storica ormai divenuta fondamentale, centrale, negli studi storici postcoloniali nell'area anglosassone (e non solo).
Si diceva inizialmente che i Subaltern Studies hanno un'importanza fondativa negli studi storici postcoloniali: in effetti il concetto storico e il programma politico di Guha sono compresi nell'affermazione che i soggetti subalterni (ovvero quello che lui chiama popolo, noi moltitudine) producono la storia reale, costituiscono le res gestae, ovvero sono la chiave dinamica della società.
Inserite questa affermazione dentro la storia coloniale costruita dall'"Indian Office" londinese e dagli Istituti di Cambridge e di Oxford che ne seguivano docilmente gli ordini, e avrete il senso di cosa voglia dire rivoluzionare la storiografia per rivoltare il mondo! "Il progetto di Subaltern Studies rappresenta un attraversamento di confini, una sorta di contrabbando incontrollato di idee al di là delle linee, una provocazione intellettuale e, come sempre, politica", così introduce Edward Said il metodo di Guha. E subito aggiunge che qui è evidente l'influenza di E. P. Thompson e di Eric Hobsbawm. Avrebbe potuto aggiungere, ma evidentemente non se la sentiva, l'influenza dei molti "storici scalzi" che hanno documentato, dal basso, le lotte operaie, contadine e proletarie, come costitutive della "historia rerum gestarum". Jacques Rancière ha ampiamente mostrato l'importanza di questo secondo strato del lavoro storico, di questo motore profondo.
Il fatto è che il programma di Guha non è semplicemente un programma storiografico. La storia deve costruire, e sistemarsi dentro, un processo di soggettivazione. Le rivolte dentro l'impero indiano, schiacciate dalla violenza dei vice-re, sono la vita della storia.
La storiografia ufficiale è la falsità: essa, anche soprattutto quando sono degli indiani a farla, è la rappresentazione del punto di vista di coloro che hanno tradito il popolo (le classi, la moltitudine) per interessi coloniali, politici e sociali. Esiste di contro uno spazio autonomo popolare, nel quale è costruito il punto di vista della rivolta: è a esso che lo storico deve arrivare per cogliere nello stesso momento ciò che è avvenuto e i processi causali che si sono determinati. Sono le lotte che fanno la storia, sono i movimenti di base che prefigurano, rovesciati, e maledicono i vertici del potere. In terzo luogo, c'è anche una resa dei conti da operare, secondo Guha: è la denuncia (più gramsciana non potrebbe essere) del fallimento della borghesia indiana nella costruzione della nazione, della sua storiografia come delle sue istituzioni, della sua cultura come dell'emancipazione dei poveri. Di contro, allora, la storiografia deve diventare un processo di soggettivazione politica, uno strumento di liberazione delle masse.
Ma come muoversi, dal punto di vista del metodo, delle pratiche storiografiche, nella situazione data dagli studi coloniali e nell'opacità storica che questi hanno determinato? Guha fa osservare che, diversamente da quanto avvenuto in Europa per le locali lotte di classe, nei regimi coloniali non ci sono più documenti sulle lotte proletarie e di liberazione, e che quanto restava di questi è stato definitivamente falsificato dalla storiografia coloniale nella sua duplice figura imperiale (nelle Università inglesi e nelle scuole della borghesia indiana). Come riconquistare le fonti? Come ritrovare quella soggettività indipendente e potente che sta alla base dei movimenti di lotta proletaria indigena?
Il problema del recupero delle fonti storiche, perché esse ci possano offrire la chiave dello sviluppo e introdurre a un'altra "storia", è assolutamente fondamentale nella scuola "subalterna". Il discorso coloniale è sempre un discorso contro-insurrezionale: come districarsi dal codice della contro-insurrezione? Come rompere la connessione tra potere e storiografia? Come mettere in dubbio il talento impiegato per sostenerla? Come dare figura al ribelle dentro una storia che nega ogni spazio al soggetto della ribellione? Guha ci introduce a un'analisi semantica e a un rovesciamento metodologico delle relazioni linguistiche estremamente raffinati. Tutte le tecniche semiologiche elaborate in Europa da Barthes in poi, sono qui convocate per ridare voce alla personalità storica e reale dell'insurrezione, per riappropriare la realtà alla produzione di una soggettività rivoltata. E non importa che queste voci nascoste, attorno alle quali si lavora per permetterne l'ascolto, siano talora tanto mistificate (da motivazioni religiose, ad esempio) da essere rese quasi inaudibili: quel che è importante è coglierle nella loro pienezza di espressione e di vita. Più che Thompson, io sento qui operare Bachtin, delle voci che rappresentano ventri, delle esperienze di liberazione che traversano la crudeltà del colonizzatore.
D'altra parte, già in America Latina, a partire da Haiti, l'eteronomia delle fonti diviene fondamentale per ogni storiografia della liberazione. Con una radicalità eccezionale: si tratta infatti di comprendere che l'accusa coloniale di inumanità e di selvatichezza rivolta all'indigeno in rivolta è sempre fuorviante perché non costituisce mai un rispecchiamento invertito, ma semplicemente una radicale mistificazione. Non c'è, ci dice Guha, un discorso che si possa porre come terzo, a mediare tra la prosa coloniale della contro-insurrezione e la violenza, le ideologie, le passioni, gli errori e le sconfitte dei ribelli. Bisogna assumere interamente il punto di vista dei ribelli, anche nella loro miseria.
Contro questo punto di vista, sorge, in questo stesso libro, la critica simpatetica e tragica della Spivak. Spivak vorrebbe seguire Guha. È lei che lo pubblica in America e gli da risonanza accademica. È lei che mette a disposizione di Guha l'apparato della decostruzione di Jacques Derrida e alla diffusione degli "studi subalterni" il cerchio del pensiero postmoderno. Ma dentro questo quadro Spivak non riesce a cogliere la violenza politica del progetto di Guha: ne denuncia quindi il relativo fallimento cognitivo quando Guha intende tagliare, con una mannaia, le relazioni di rispecchiamento tra linguaggio colonialista della contro-insurrezione e esperienze reali della ribellione. La coscienza subalterna è, in effetti, dice Spivak, introvabile. Talora è assente, come nel caso delle donne, queste storie di ribellione non le comprendono affatto, talora la voce è inaudibile. Come spesso accade nell'ambito della filosofia negativa, la critica di una metodologia per raggiungere l'insurrezione non nega l'insurrezione, ma la rende liminare, oggetto e soggetto di esperienza mistica.No, non siamo d'accordo con Spivak.
Mezzadra, nella sua introduzione, coglie la positività del discorso degli "studi subalterni", ne coglie la passione per la ricerca della soggettivazione. Non si pronuncia sul problema dell'accesso diretto alla voce dei "subalterni", ma si chiede se le pratiche di contatto e di costituzione della figura emblematica del nuovo "subalterno", nel tempo della globalizzazione, cioè dell'immigrato, non ci permettano di cogliere, al di là di ogni ingenuità, una nuova soggettivazione. Anche noi crediamo che questo spazio di ricerca sia oggi importante e che permetta di riattualizzare aspetti e tendenze della ricerca "subalterna", dirigendola contro le nuove mistificazioni del nazionalismo e del fondamentalismo. Come la "conricerca" dei Quaderni Rossi ha ritrovato attualità dentro la nuova composizione della moltitudine postmoderna, così allora i Subaltern Studies si muovono per dar conto della nuova presa di coscienza antagonista nella globalizzazione.


Le Monde diplomatique - Gennaio 2003

di Stefano Liberti

Riunito a partire dagli anni '80 intorno allo storico e economista Ranajit Guha, il collettivo dei Subaltern Studies ha cercato di apportare una rivoluzione copernicana nel modo di pensare e scrivere la storia nel subcontinente indiano. L'obiettivo principale del gruppo - che in qualche modo agisce nel solco o in parallelo con gli storici sociali occidentali, come Eric Hobsbawm e Carlo Ginzburg - consiste nel mettere in evidenza come la storia dell'India non sia il frutto di un semplice rapporto di potere tra i rappresentanti coloniali britannici e le élite locali, ma investa anche le masse degli esclusi e dei diseredati - i subalterni appunto - in un tessuto di alleanze, scontri, interrelazioni di rara complessità. Per restituire tuttavia ai subalterni il loro ruolo attivo e per scrivere una storia alternativa che non si limitasse alla mera decostruzione della versione ufficiale, gli studiosi raccolti attorno al progetto di Guha si sono scontrati fin dall'inizio con un problema epistemologico di non facile risoluzione. Non bastava infatti svelare il substrato neo-coloniale e elitario utilizzato dagli storici ufficali (come già aveva fatto in un contesto simile Edward Said in Orientalismo), ma bisognava necessariamente proporre fonti alternative, ricostruire la memoria popolare, analizzare il discorso orale. Un compito tutt'altro che semplice, che talvolta ha dato risultati brillanti, talaltra ha dovuto invece arrendersi di fronte alla consapevolezza che i dominanti hanno una voce più imponente dei subalterni. Una consapevolezza che, per quanto brutale, in qualche modo giustifica tuttavia l'approccio stesso dei Subaltern Studies. Perché, come sottolinea Said nell'introduzione di questa raccolta di saggi, «l'opera storiografica è una scrittura e non la realtà, e la storia e le fonti dei subalterni, proprio in quanto subalterni, sono necessariamente nelle mani di altri».


Liberazione, 18 febbraio 2005

A Trieste un convegno su colonialismo e classi subalterne. Presenti l'economista Ranajit Guha e Gayatri Spivak, femminista ed esperta di studi postcoloniali Gramsci si fa strada in India

di Tonino Bucci

Per una curiosa vicissitudine di scambi culturali, a distanza di decenni e in tutt'altro luogo, il nome di Gramsci appare negli anni '80 in India. A fare riferimento a una delle categorie più note del lessico gramsciano - quella di "subalterno" - è un collettivo di studiosi, raccolto attorno allo storico ed economista Ranajit Guha, i quali scelgono di dare come nome al proprio orientamento teorico la dizione, appunto, di subaltern studies. Di questo gruppo fa parte Gayatri Chakravorty Spivak, bengalese di nascita, oggi residente negli Stati Uniti e docente alla Columbia University di New York. Negli Usa è considerata una delle più affermate teoriche del femminismo e degli studi postcoloniali, il filone nato sull'onda dei Subaltern studies. Sarà lei, oggi, ad aprire il convegno "Culture planetarie? Prospettive e limiti dell'analisi culturale nella contemporaneità", un appuntamento inusuale nel panorama italiano solo di recente attraversato da questo filone di studi, grazie anche alla pubblicazione dell'ultimo lavoro della stessa Spivak, Critica della ragione postcoloniale (Meltemi, pp. 480, euro 28,00). L'incontro - organizzato dall'Istituto Gramsci del Friuli Venezia Giulia (i lavori si svolgono a Trieste nell'aula magna Sslmit in via Filzi 14) - sarà l'occasione per un confronto tra l'apporto internazionale degli studi postcoloniali, subalterni e culturali, da un lato, e la tradizione degli studi gramsciani italiani, dall'altro.
Il percorso di Spivak inizia appunto negli anni '80, dal collettivo dei Subaltern studies e dalla questione allora centrale nell'elaborazione del gruppo: mettere in discussione il modo in cui fino allora era stata pensata e scritta la storia del subcontinente indiano. Gli studiosi della "subalternità" comprendono che la vicenda del proprio paese, l'India, non è tutta inscritta nella dialettica fra il potere coloniale britannico e l'élite locale, la quale spesso è costretta a immaginare le proprie strategie politiche ricalcando i modelli e le ideologie dei paesi occidentali dominanti. In questa rappresentazione c'è un grande assente, mai nominato e mai preso in considerazione come soggetto storico specifico e autonomo: le classi subalterne. Sono le masse degli esclusi e dei diseredati che rischiano di restare ai margini dello scontro tra colonizzatori ed élite locale.
Il primo passo è riscrivere una storia alternativa, restituire voce e passato alle classi subalterne.
Agli studiosi raccolti attorno al progetto di Guha si presenta il problema non solo di mettere allo scoperto la natura colonialista ed elitaria degli storici ufficiali - questo tipo di critica era stata inaugurata da Edward Said. Si tratta anche di rintracciare fonti alternative, ricostruire la memoria popolare, analizzare il discorso orale. Niente di più naturale e spontaneo appare ai loro occhi che riprendere in considerazione quanto Gramsci aveva scritto cinquant'anni prima in carcere, in Italia, in tutt'altro scenario politico e storico. Eppure vale ancora il riferimento alla storia come dialettica tra classi dominanti e classi subalterne, tra ideologie egemoniche e visioni alternative, latenti, depositate nel folclore, nella letteratura d'appendice, nella saggezza popolare, nella memoria orale. Ma questo lavoro di scavo, di ricerca e di scrittura di una storia non ufficiale è tutt'altro che semplice: «l'opera storiografica - come scrisse Said nell'introduzione alla raccolta di saggi Subaltern Studies Modernità e (post) colonialismo di Ranajit Guha e di Gayatri Chakravorty Spivak (Ombre Corte, 2002, 12,50 euro) - è una scrittura e non la realtà, e la storia e le fonti dei subalterni, proprio in quanto subalterni, sono necessariamente nelle mani di altri».
Da allora fino ad oggi Spivak ha affrontato questo lavoro studiando le letterature del mondo, senza alcuna remora di fronte ai confini tra le discipline e agli steccati accademici. Nel suo saggio Morte di una disciplina - il primo a essere tradotto in italiano - dichiarava il tramonto della letteratura comparata, troppo viziata a suo giudizio dall'eurocentrismo e dal prevalere dei canoni ideologici dell'Occidente ogni volta che gli studiosi ufficiali si siano cimentati con l'analisi delle culture marginali nel pianeta. Rovesciare questa impostazione significa anche abbattere e ridisegnare la mappa delle discipline, l'interazione dei loro metodi. E l'apporto più significativo a questo progetto può venire, secondo Spivak, proprio dalle discipline umanistiche. E' questo il punto di contatto più ravvicinato con il tema del convegno triestino: quali modelli teorici, quali chiavi interpretative possono essere applicate allo scenario della società globalizzata.
Il problema, ovviamente, non è solo teorico, ma riguarda anche i comportamenti e le strategie da seguire all'interno delle università: come è possibile, ad esempio, salvaguardare la molteplicità e la differenza tra le lingue e le letterature all'interno degli orientamenti dei nostri atenei? Sono in grado le discipline umanistiche - a differenza dei vecchi studi comparativi - di restituire un'immagine dei linguaggi e delle letterature delle minoranze africane, asiatiche e ispaniche non offuscata, non alterata, non piegata alla rappresentazione di sé che l'Occidente ha, come è accaduto nella storia del colonialismo e dell'imperialismo? All'interno di questa storia - economica, politica e culturale - si collocano i rapporti di potere tra primo e terzo mondo, ancora oggi immutati nella divisione internazionale del lavoro su scala planetaria. Non resta che affrontare una paziente, laboriosa opera di scavo nella memoria dei subalterni - che nell'ultimo studio di Spivak, Critica della ragione postcoloniale si identificano sempre di più con il soggetto femminile sessuato - memoria rimossa, negata, cancellata, «forclusa». «Mentre il Nord - scrive - continua apparentemente ad "aiutare" il Sud - così come in precedenza l'imperialismo "civilizzava" il Nuovo Mondo - l'apporto cruciale del Sud nel sostenere lo stile di vita del Nord, famelico di risorse, è forcluso per sempre. Nei pori di questo libro indicherò che il modello dell'informante nativo attualmente forcluso sia la più povera donna del Sud».


JURA GENTIUM - Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale

di CLELIA BARTOLI

I Subaltern Studies sono una corrente di studi prevalentemente storici, sorta in India esattamente vent'anni fa e che ha avuto una straordinaria diffusione in numerose parti del mondo. Grazie alla cura di Sandro Mezzadra, è ora possibile consultare in italiano alcuni dei saggi, ormai classici, prodotti da tale esperienza di ricerca.
Ma prima di addentrarci nella valutazione del volume, sarà forse proficuo tracciare le linee essenziali del progetto storiografico che fa capo agli studi della subalternità; come spiega Said, nella sua introduzione, tali studi muovono dalla constatazione che la storia indiana sia stata scritta da un punto di vista colonialista ed elitario, sebbene gli attori principali siano stati i ceti subalterni. Da ciò proviene la necessità di una nuova narrazione del passato che offra lo spazio e l'importanza dovuta agli esclusi dalla storia ufficiale. La relativa semplicità del punto di partenza e, in fondo, la non assoluta novità del proposito (si ricordi l'ideale storiografico manzoniano) non devono far sottovalutare né la difficoltà esecutiva di tale progetto, né le sue peculiarità. È vero, infatti, che cospicui sono i prestiti intellettuali di cui si avvalgono i nostri studiosi: la maggior parte di loro proviene, infatti, da un ripensamento critico del marxismo; da Gramsci traggono molta della terminologia, nonché lo stesso concetto di subalternità; riprendono l'esempio di storici quali E.P. Thomson, E. Hobsbwam e E. Wolf; si confrontano con gli autori dello strutturalismo classico e del post-strutturalismo derridaniano; ripensano e fanno propri i topoi degli studi post-coloniali ecc. Ma è pur vero che è possibile cogliere alcune caratteristiche decisamente innovative e promettenti, esclusive dell'esperienza di ricerca dei Subaltern Studies, alcune delle quali proverò, qui di seguito, a evidenziare.
1. La subalternità di cui si parla è una subalternità almeno doppia: quella di soggetti svantaggiati in un paese sottomesso a un governo straniero, elementi emarginati, minoritari o oppressi dall'alleanza tra dominatori britannici ed élite indiane. L'approccio a una tale materia richiede un rigoroso esame di casi particolari e circoscritti, ma contemporaneamente la capacità di proiettarli nella più ampia considerazione dei rapporti di forza internazionali.
2. L'analisi marxista, la produzione femminista, gli studi culturali e tutte quelle ricerche che hanno dato rilievo ai nessi tra potere e cultura, immaginario e dominio, vengono inscritte all'interno di una cornice più ampia; ossia in un sistema mondo trasformato dall'esperienza coloniale, in cui le categorie epistemiche che vinti e vincitori, vittime e oppressori, coloni e colonizzati impiegano per apprendere la realtà e descriverla partecipano di una stessa natura che va esplicitata.
3. L'operazione di restituire la parola ai subalterni non è assunta come facile e immediata. I titoli inquisitivi di vari articoli evidenziano il problema: Who Speaks for "Indian" Pasts? (di D. Chakrabarty), Can the Subaltern Speak? (di Spivak), When will the Subaltern Speak? (di S.M. Shamsul Alam), What Happens When the Subaltern Speaks (di J. Beverley). E la questione non è solo se dalle fonti storiche disponibili, ossia quasi esclusivamente quelle prodotte dai gruppi dominanti, si possano ricavare indizi della visione del mondo dei soggetti subalterni, come da un calco si ricostruisce la forma dell'assente; ma i nostri giungono a chiedersi se esista una coscienza subalterna da riesumare, in che misura si possa assegnare una volontà a un soggetto collettivo e se il lavoro di costruzione di un'identità subalterna, operato artificialmente dallo storico, non sia un'ennesima oggettivazione velleitaria e costringente per coloro che ricadano sotto tale appellativo. Delineato questo breve profilo, sarà più agevole condividere una valutazione del volume in questione. L'edizione italiana è una traduzione parziale di un'antologia di scritti sulla subalternità che molto ha contribuito alla notorietà del gruppo anche oltre i confini indiani. Mezzadra ha ripreso dal testo originale l'introduzione di Said (che, occupandosi della produzione intellettuale coloniale in merito alla cultura islamica e mediorientale, è pervenuto a ipotesi e conclusioni analoghe a quelle dei colleghi indiani), ripubblica interamente la sezione sulla metodologia dei Subaltern Studies ad opera di Guha (considerato il fondatore del gruppo) e inserisce in conclusione un articolo di Spivak (famosa femminista e traduttrice di Derrida; esterna, ma attenta agli studi della subalternità). Sono esclusi i saggi che rappresentano l'effettivo lavoro di ricostruzione storica e che costituiscono la parte più cospicua del testo originale, nonché, in generale, il contenuto consueto dei lavori pubblicati da questo gruppo.
L'operazione di Mezzadra di selezionare, ordinare e presentare questa concisa collezione di scritti sembra quella di voler costruire a posteriori una sorta di manifesto dei Subaltern Studies, aggiungendo in conclusione l'acuta e benigna provocazione di Spivak. Inoltre, invertendo l'ordine degli articoli, rispetto alla versione inglese, il testo italiano assume un'impronta più dialettica. Difatti il testo originale si apre con il saggio inquisitivo della studiosa a cui seguono, quasi in risposta, i contributi degli appartenenti alla scuola; nella versione italiana, invece, la riflessione problematizzante di Spivak è posta alla fine, in tal modo il volume si congeda lasciando sospese alcune domande e un appello. L'appello dell'autrice auspica che il decostruzionismo venga adottato dai nostri studiosi come loro modello storiografico, ma il suo intento di fondo mi pare sia quello di proporre a tale impresa culturale una finalità trasformativa del mondo. Infatti, decostruzionismo, per Spivak, significa "Mettere in discussione l'autorità del soggetto della ricerca senza paralizzarlo, trasformando continuamente le condizioni di impossibilità in possibilità", esso si compie nel disarticolare la grammatica delle relazioni di dominio, sovvertendo e ricomponendo la catena di segni che ordiscono il testo-mondo, dando così luogo a un discorso che sia in ultimo azione.
Con queste e altre sollecitazioni Spivak scompiglia e arricchisce di nuovi spunti la scuola. Non è però la sola: Sumit Sarkar, in diversa sede, ha provocato un ulteriore scossone, proprio polemizzando con la corrente che ha seguito la scia post-strutturalista agognata dalla studiosa; diversi autori hanno poi esportato l'impostazione dei Subaltern Studies in differenti ambiti disciplinari, come ha fatto Upendra Baxi nel campo della Legge e dei diritti umani. Altri studiosi ancora hanno provato invece una trasposizione geografica, testando l'approccio e la metodologia impiegati in contesto indiano in altri paesi che sono stati soggetti alla colonizzazione.
Menzionando l'arricchimento di questi studi scaturito dalla loro diffusione, non mi resta che augurare al presente volume di suscitare un congruo interesse pur in Italia, e che anche qui l'invito di Guha possa trovare degli operosi uditori: "Noi speriamo, perciò, che altri studiosi si uniscano a noi in questa avventura, pubblicando da soli o con altri le loro ricerche sul tema della subalternità, dando espressione alla critica dell'elitismo che domina le loro rispettive discipline e, in generale, apportando le loro critiche e i loro suggerimenti a questo e al prossimo volume dei Subaltern Studies".




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