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Esercizi di esodo
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Linguaggio e azione politica
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il manifesto, 3 dicembre 2002
Occasioni di eresia all'ordine dei sensi
Diario di bordo per orientarsi nel presente: da Ombrecorte, i saggi di Paolo Virno, riuniti in "Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica". Una lettura dei nuovi conformismi generati dalla sconfitta dei movimenti, dopo gli anni `70
di STEFANO CATUCCI
Interrogarsi sulla natura, la forma e le prerogative del "saggio", in opposizione alle architetture del pensiero sistematico, è stato un esercizio ampiamente praticato a partire dai primi del Novecento. In quegli anni, la via del saggio sembrava offrire una feconda alternativa alle strade battute dalla filosofia accademica, era l'indicazione di un cammino irregolare e frammentario, forse più affine all'esperienza dell'arte che non a quella della scienza, ma proprio per questo più vicino al terreno concreto della vita, al continuo mutamento dei suoi processi e alle sue contingenze irriducibili. Viste dalla prospettiva del saggio, queste ultime non diventano mai "oggetti" di ricerca, ma si presentano piuttosto come "pretesti", occasioni intorno alle quali, o a partire dalle quali, il pensiero esercita la sua critica. Quando già il dibattito aveva dietro di sé una lunga storia, Adorno è tornato sull'argomento scrivendo che "il saggio si immerge nei fenomeni culturali come in una seconda natura, una seconda immediatezza, per distruggere, con tenacia, le loro illusioni". Al monopolio del sapere organizzato, il saggio oppone perciò una scelta di libertà e di rigore le cui armi sono l'autonomia nella scelta dei temi, il dinamismo delle argomentazioni, la presa comunicativa dell'esposizione, l'ironia capace di smascherare le ortodossie invisibili di cui sono tessute le nostre convinzioni. Per questo, concludeva Adorno, "la legge formale più intima del saggio è l'eresia", e solo saggi autenticamente eretici possono mantenere nel tempo il carattere di "sfida" che è stato loro al momento in cui vennero concepiti. Cinquant'anni sono passati da queste parole di Adorno, ma non se ne trovano di migliori per introdurre gli interventi scritti nel corso di un decennio e ora riuniti da Paolo Virno nel volume Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica (Ombrecorte, pp. 229, euro 13,50). Il carattere eminentemente saggistico di questi scritti, nel senso appena indicato, emerge fin dalla parola scelta per intitolare la raccolta: "esercizi", termine che suggerisce il lavoro del pensiero su un materiale vivo, su singoli casi il cui rilievo esemplare dipende di volta in volta dalla direzione dello sguardo, da come il pensiero e la scrittura riusciranno a coglierne e a configurarne il senso. "Esodo", d'altra parte, è uno dei nomi con i quali possiamo indicare l'eresia, e più in particolare l'esigenza di mettere in gioco, oggi, le opportunità offerte dalla proliferazione dei saperi e delle competenze per agire e pensare "diversamente", per tentare di "modificare le condizioni" entro cui si svolgono i conflitti del presente anziché limitarsi a "subirle" nel momento in cui vi prendiamo parte.
Il sottotitolo del libro, "Linguaggio e azione politica", disegna a sua volta una linea di intervento più precisa e sottrae indeterminatezza all'impianto saggistico del libro. Le condizioni della vita contemporanea, suggerisce Virno, non solo si specchiano nel linguaggio, ma prendono letteralmente corpo in "un dedalo di enunciati, metafore, nomi propri, funzioni proposizionali, tempi e modi verbali, disgiunzioni, implicazioni", cosicché l'habitat dell'agire sociale appare come "un ambiente costituito innanzitutto da discorsi oggettivati, codici appariscenti, grammatiche materializzate". Due dimensioni di ricerca, allora, si intrecciano e si sorreggono reciprocamente in questi saggi: da un lato la riflessione teorica sui temi del linguaggio, dall'altro il loro emergere come altrettanti sintomi della trasformazioni della vita sociale. Così, un tema classico della filosofia del linguaggio del Novecento, l'afasia, può diventare il rivelatore delle forme di "sottomissione e adattamento" ai codici convenzionali di cui si nutrono, oggi, i nostri sistemi di comunicazione, e d'altra parte un uso linguistico apparentemente del tutto marginale, come il ritorno della parola "fidanzato" per indicare la persona amata, diviene il segnale di un modo di difendersi dall'impermanenza delle forme di vita attuali tramite il recupero di un lessico antiquato che evoca, sia pure con ironia e leggerezza, la stabilità sempre "a venire" di una struttura familiare.
Scritti a partire dal 1988, i saggi di Esercizi di esodo si collocano nell'epoca di maggiore disorientamento culturale della sinistra, ma rovesciano il luogo comune della sua "crisi" nella percezione positiva delle nuove opportunità aperte al pensiero critico. Quasi fossero un "diario di bordo" degli anni che attraversano, le pagine di Paolo Virno delineano un'agenda delle questioni all'ordine del giorno, ricostruiscono le linee di una genealogia del materialismo alla quale appartiene una costellazione di autori estremamente differenziata, da Wittgenstein a Ernesto De Martino, da Benveniste a Galvano Della Volpe, da Foucault e Guy Debord a Sebastiano Timpanaro. Al tempo stesso, e come primo compito di una riflessione sul presente, proprio gli scritti meno recenti, quelli del 1988, evidenziano la necessità di combattere il meccanismo che ha provocato la rimozione del significato sociale e politico della "sconfitta" dei movimenti degli anni Settanta e ha sostituito nuovi conformismi a vecchi schemi, facendo sì che una fenomenologia di destini personali, "un mesto corteo di sbagli e di allucinazioni" da confessare con periodici mea culpa, evitasse il necessario confronto con il reale mutamento dei rapporti di forza verificatosi in quegli anni. Il pieno riconoscimento della "sconfitta sociale" di allora, consumatasi con una "rivoluzione dall'alto dei modi di produrre" e con un'alterazione "del paesaggio in cui il conflitto si inscriveva", è la premessa dalla quale muovono i tentativi compiuti da Paolo Virno per ridefinire gli spazi dell'eresia possibile all'interno delle nuove relazioni di potere. Se "linguaggio e azione politica" sono i due termini inscindibili di questa operazione teorica, è perché entrambi sono al cuore delle nuove forme di dominio, perché la "connessione fra sapere e produzione" è diventata il nucleo di quel processo di erosione delle libertà il cui movimento si può invertire solo sciogliendone i nodi alla radice, solo individuando i luoghi sensibili nei quali si istituiscono i legami fra le risorse cognitive degli individui e l'organizzazione del sistema produttivo.
A prima vista, gli Esercizi di esodo si presentano come il riepilogo di una fase di transizione, la messa a punto di un insieme di riferimenti teorici che in parte si sono consolidati nel corso degli anni, come nel caso degli strumenti concettuali impiegati per descrivere l'avvento del cosiddetto "postfordismo", in parte sono dispersi nelle singole occasioni saggistiche da cui gli scritti prendono spunto, siano esse un fatto di cronaca o l'uscita di un libro, una discussione fra amici o la lettura di un testo filosofico. Questa prima impressione, tuttavia, non renderebbe giustizia all'attualità non effimera di questi saggi, alla loro capacità di stimolo, al loro richiamo verso il bisogno, per non dire il dovere, di una comprensione filosofica della realtà in cui viviamo. Nel carattere dell'"esercizio" suona già implicito un invito al kantiano "pensare da sé", a proseguire, dunque, sulla via del pensiero critico in autonomia. Nella libertà dell'impianto saggistico, d'altra parte, si avverte anche l'eco di un'altra indicazione, quella di una responsabilità nei confronti del proprio tempo alla quale più volte, nelle pagine di questi scritti, viene affiancato il nome classico dell'etica.
NOTIZIARIO della Fondazione San Carlo, 568, 2003
Recensione
di GEROLAMO DE MICHELE
Il più filosofico tra gli animali è per Rabelais il cane, per la tenacia con la quale serra l'osso tra le mascelle per poterne infine estrarre il midollo. Questa immagine può risultare presente al lettore del libro di Virno, che si fonda sul reiterato intento di "identificare un midollo sociale nelle più rarefatte discussioni logico-linguistiche": un'affermazione che espone al lettore la giuntura tra l'impianto materialistico della ricerca filosofica che l'Autore ha dispiegato a partire dagli anni Ottanta e i classici, quegli "imprevisti arsenali teorici" dai quali possiamo trarre strumenti interpretativi ben più attrezzati di tante estemporanee mode filosofiche o di certi pensatori che appaiono à la page. Strumenti che Virno coniuga con quell'essenziale scaffale del pensiero "sovversivo" rappresentato da Krahl e Sohn-Rethel, Negri e De Martino, Debord e Foucault, Deleuze-Guattari e il Marx dei Grundrisse, un catalogo attraverso cui si rende possibile la comprensione e la critica dell'attuale dispiegamento delle forze produttive e superamento del lavoro salariato non nelle forme di una felice eutanasia del capitalismo, ma secondo le forme stesse del lavoro salariato. Basti questo confronto tra due delle modalità di tale superamento: se per un verso la metropoli è il luogo dove nulla è necessario e tutto è contingentemente possibile (come Virno dimostra con una spericolata traversata dei topoi della filosofia del linguaggio), dall'altro "la distruzione della sfera lavorativa in quanto ambito privilegiato della socializzazione e luogo di acquisizione dell'identità politica" crea quel vuoto nel quale si insedia il nuovo clima politico europeo, di tendenza autoritaria. Di questo (e altro ancora) tratta Virno in questa silloge che, coprendo un ventennio di impegno politico-filosofico, svela gli spunti di partenza dei suoi più 'distesi' libri, da Convenzione e materialismo sino a Grammatiche della moltitudine. Una scelta di testi disposti in ordine non cronologico, ma tematico, e che vale leggere dapprima senza verificarne le date di pubblicazione (ma facendo attenzione al nesso tra autobiografia politica e libertà di critica nella sezione Pro domo nostra), per scoprire quanto suoni attuale la "vecchia" critica operaista al lavoro salariato o all'astrattezza formale del diritto: una sorta di genealogia, di tradizione a posteriori del pensiero No-Global. Un cantiere a cielo aperto nel quale, attraverso temi a volte impensati (dalla linguistica di Jakobson e Saussure alla passione per il cinema, dalla riflessione platonica sul non-essere come diverso alla scomparsa dell'operaio di linea), un'astrazione filosofica può trasformarsi in uno strumento col quale percuotere e perforare il muro del potere.
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