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Il governo dell'eccedenza
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Postfordismo e controllo della moltitudine
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il manifesto - 15 giugno2002
Oltre i confini della società del controllo
Un nuovo modello di regolazione della penalità dove il nemico interno è rappresentato da soggettività e comportamenti sociali che disturbano la società del lavoro. L'ultimo libro del giovane studioso Alessandro De Giorgi
di TONI NEGRI
Il ragionamento è assolutamente lineare: si tratta di comprendere come la «ragione penale» insegua e si trasformi a misura delle mutazioni del contesto sociale. Per dirlo brutalmente: si tratta di capire come la «giustizia» dello stato si impegni nel costituire l'ordine sociale. Delineando storicamente il rapporto tra regime disciplinare capitalista e proletariato fordista, Alessandro De Giorgi comincia, nel suo ultimo libro Governo dell'eccedenza (Ombrecorte, pp. 141, 11,50 euro), col ricostruire lo sfondo della mutazione attuale. Non si tratta di una trasformazione di poco conto: quando all'inizio degli anni Settanta ci troveremo, davanti al superamento di situazione fordista, la crisi della penalità fordista si accompagnerà pesantemente a quella dell'economia politica. Si tratterà di un salto di qualità: l'economia politica della penalità fordista, a partire dagli anni Settanta, si rivelerà così del tutto inadeguata a descrivere le forme di produzione di soggettività che si delineano nell'orizzonte del controllo sociale postfordista. Le analisi della penalità fordista trascuravano infatti i processi di trasformazione del lavoro, limitandosi all'osservazione del trattamento penale della disoccupazione e del «non lavoro». Last not least, su questo snodo va in crisi l'impostazione marxista classica della critica della penalità, così come Rusche e Kirchheimer l'avevano proposta per l'età moderna. Ora siamo oltre quella soglia. Partendo dall'esaurimento del modello industriale fordista, De Giorgi si muove seguendo le tracce che devono portarlo alla definizione di un modello di regolazione postfordista della penalità. Il suo ragionamento definisce la transizione dal fordismo al postfordismo come il passaggio da un regime produttivo caratterizzato dalla carenza (e dal dispiegamento di un complesso di strategie orientate al disciplinamento della carenza) a un regime produttivo definito dall'eccedenza (e quindi dall'emergere di strategie orientate al controllo dell'eccedenza). E' questo un capitolo di critica non più solo della penalità ma delle trasformazioni del lavoro. Ed è molto interessante vedere come dal punto di vista della critica della penalità possano essere arricchite le intuizioni e i linguaggi che riguardano la critica del lavoro: già Marx ci aveva appreso a lavorare su questo punto! Di fatto viviamo un mondo paradossale. Il primo paradosso che incontriamo sta nel fatto che il venir meno dell'«impiego» non equivale affatto alla «scomparsa del lavoro». Anzi, nel postfordismo il lavoro, inteso come complesso di azioni, performances, prestazioni comunque produttive, si estende sempre più, fino ad investire l'intera esistenza sociale. Nel postfordismo il primo contorno del lavoro è dunque qualificato come regime dell'eccedenza, sviluppato sull'intero orizzonte della vita. Così comincia a configurarsi la biopolitica.
In secondo luogo si tratterà di capire come l'eccedenza si articoli nel quadro di quella trasformazione della contraddizione sociale che il passaggio dal fordismo al postfordismo determina. L'eccedenza va letta in maniera duplice. «L'eccedenza negativa si rappresenta come un complesso di soggettività che eccedono la logica `governamentale' in quanto esasperano la contraddizione fra una cittadinanza sociale ancora fondata sul lavoro e una sfera produttiva che di lavoro vivo ha sempre meno bisogno. L'eccedenza positiva si definisce d'altra parte come insieme di soggettività che eccedono la razionalità capitalistica perché esasperano la contraddizione fra una potenzialità produttiva illimitata e cooperativa e un assetto dei rapporti di produzione che ne ostacola l'autonomia dal comando capitalistico, imponendole una valorizzazione fondata sulla competizione».
La separazione fra disciplinarità e biopolitica è qui dunque completamente fissata. Il problema del governo della penalità sarà ora quello del governo dell'eccedenza. Tre sono le modalità fondamentali secondo le quali si sviluppa questo governo. La prima è, nel sommario di De Giorgi, «il rischio imprigionato». E' la nuova invenzione di classi pericolose, è l'imprigionamento preventivo di tutte le persone a rischio. Le nuove strategie penali si caratterizzano cioè sempre più come dispositivi di gestione del rischio e di repressione preventiva delle popolazioni che ne sono considerate portatrici. Il reclutamento della popolazione carceraria avviene sulla base dell'identificazione di classi di soggetti considerate potenzialmente devianti e pericolose per l'ordine costituito. E' una popolazione eccedente che si tratta ormai, fuori da qualsiasi finalità rieducativa, di stoccare in carcere.
La seconda modalità di separazione tra disciplina e biopolitica si rivela nella costruzione della «metropoli punitiva». Qui è la «tolleranza zero» che è completamente sviluppata. Le strade della città diventano percorsi del controllo, si costruisce una sorta di nuovo panottico e il controllo dello spazio diventa continuo. La città delle classi pericolose è percorsa da una serie di strumenti di controllo che operano come pura inibizione dei processi di interazione sociale: il governo rinuncia qui a qualsiasi funzione positiva, produttiva o trasformativa. Così arriviamo ad un terzo e definitivo quadro delle modalità di controllo. De Giorgi la chiama «la rete imbrigliata». Sono nuove forme di controllo all'altezza delle trasformazioni che hanno attraversato la produzione immateriale. «Emerge dunque progressivamente un controllo preventivo, perché a differenza della ricchezza materiale la ricchezza immateriale non può essere recuperata una volta che qualcuno se ne sia appropriato e ne abbia fato uso; un controllo diffuso, perché a differenza di quelle materiali le risorse immateriali non si localizzano in uno spazio determinato, ma si costruiscono come flusso, rete, etere; un controllo attuariale, perché a differenza dei soggetti della produzione materiale, situabili e organizzabili disciplinarmente in uno spazio produttivo definito, la moltitudine postfordista è un'entità irriducibile alle forme di singolarizzazione tipiche della produzione fordista e alle categorie concettuali che su essa si basano. La produttività fondata sul sapere dei molti eccede, infine, il dominio fondato sul non-sapere del potere.»
De Giorgi ci aveva già mostrato, nel suo precedente libro - Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo (DeriveApprodi -, l'importanza dell'approccio attuariale nelle nuove teorie del potere penale. Qui, in questo nuovo libro, l'analisi si estende e si arricchisce di una fortissima fenomenologia del contesto sociale. La conclusione di De Giorgi, a partire da quegli elementi forti di sociologia del diritto penale, è che il controllo si apre (nella società postfordista della produzione immateriale) a modalità sempre più intense di pura distruzione. Sappiamo che De Giorgi sta allargando il suo punto di vista fino ad identificare la guerra come ultima e più perfezionata forma del controllo. Siamo convinti che questa strada nell'approfondimento dell'analisi sia corretta: resta il problema di costruire forme di resistenza adeguate. Queste ultime potranno emergere solo se teniamo presente un'ultima osservazione di De Giorgi: «Oggi la conservazione dell'ordine sociale sembra invocare insistentemente il dispiegamento di una strategia di controllo in grado di disarticolare proprio quelle forme di socializzazione e cooperazione sociale che prima era stato necessario alimentare in quanto costituivano il fondamento della produttività fordista. Questo perché oggi quelle forme di cooperazione sfuggono costantemente al controllo, si sottraggono a qualsiasi cartografia disciplinare e assumono la fisionomia di eventi rischiosi da prevenire con ogni mezzo».
JURA GENTIUM - Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Recensione
di LUCIA RE
Ne Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine Alessandro De Giorgi prosegue l'indagine sulle strategie contemporanee di controllo sociale che aveva iniziato con il precedente saggio Zero Tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo (DeriveApprodi, Roma 2000).
L'autore approfondisce l'analisi delle cause dei mutamenti del controllo sociale in epoca postfordista, assumendo come modello di riferimento lo studio classico di Rusche e Kirchheimer sulla relazione fra pena e struttura sociale. Secondo De Giorgi i mutamenti strutturali avvenuti con la fine del fordismo hanno determinato una nuova configurazione del campo politico e quindi anche di quello penale. Il postfordismo vede infatti il sorgere di un nuovo assetto di potere che segna la fine della società disciplinare descritta da Michel Foucault in Sorvegliare e punire e determina l'avvento di nuove forme di controllo. Oggetto del controllo sociale non sono più i singoli individui che il fordismo voleva assoggettare alle esigenze della produzione, ma la moltitudine, nuovo soggetto della produzione postfordista.
Il postfordismo è per De Giorgi un "regime dell'eccedenza". Dal punto di vista quantitativo, esso è un regime di "eccedenza negativa", in quanto la dinamica produttiva contemporanea "eccede continuamente i dispositivi istituzionali di attribuzione, riconoscimento e garanzia della cittadinanza sociale". In altri termini, le nuove modalità di produzione hanno trasformato a tal punto il lavoro, rendendolo in gran parte immateriale e richiedendo una quantità sempre più ridotta di forza lavoro direttamente impiegata nel processo produttivo, da rendere obsolete le categorie su cui è fondata la cittadinanza fordista ed escludere da questa un numero sempre più grande di persone. Dal punto di vista qualitativo, il postfordismo si presenta invece come un "regime di eccedenza positiva": il lavoro tende infatti a dematerializzarsi e a divenire "performance comunicativa", destrutturando i tempi e i luoghi che nella società fordista separavano la sfera della produzione da quella della riproduzione. Alla classe operaia si sostituisce così una "umanità al lavoro", definibile in termini di "moltitudine". La forza lavoro postfordista esprime infatti la propria produttività "nell'indistinzione fra produzione e riproduzione, occupazione e disoccupazione, lavoro e linguaggio".
Il capitalismo contemporaneo non può disciplinare la moltitudine, non può reprimerne le capacità creative e ostacolare quella cooperazione sociale di cui esso stesso ha bisogno per produrre. Il suo dominio diviene così solo esterno e consiste nella predisposizione di "apparati di cattura in grado di controllare i flussi di produttività sociale che attraversano la moltitudine".
Il controllo sociale assume così un carattere "attuariale": esso non è più finalizzato alla produzione di corpi docili e utili alla fabbrica, ma mira alla incapacitazione di intere classi di soggetti considerati a priori come portatori di rischio sociale. Il governo dell'eccedenza negativa viene esercitato grazie alla predisposizione di zone d'attesa, luoghi di annientamento, nei quali i soggetti non devono più essere foucaultianamente "prodotti", ma, più semplicemente, devono essere distrutti. Il carcere incapacitante, la metropoli suddivisa in ghetti, e il controllo dell'accesso alla rete sono per De Giorgi i nuovi apparati del controllo sociale in epoca postfordista. Finita l'era della disciplina, il governo biopolitico della moltitudine assume per De Giorgi un volto radicalmente nuovo, dando vita nel contempo a forme inedite di resistenza.
L'analisi di De Giorgi affronta alcune delle questioni più complesse della teoria politica contemporanea. Muovendo da una prospettiva marxista, l'autore se ne distacca per accogliere alcune delle categorie interpretative emerse nella riflessione filosofica e politica di questi ultimi anni. Forse gran parte dei temi affrontati avrebbero meritato uno sviluppo più ampio. La ricchezza degli spunti offerti da De Giorgi costringe infatti l'autore ad una sintesi che spesso rischia di fare apparire riduttivo il suo punto di vista. Così spiace la riduzione di Foucault ad analista del fordismo, fondata in gran parte sulla lettura 'marxista' della sua nozione di disciplina. Inoltre, terminata la lettura del saggio, rimangono alcune domande, cui ci piacerebbe che De Giorgi avesse fornito risposte più analitiche. Ad esempio: siamo davvero certi che le nuove strategie del controllo attuariale abbiano del tutto sostituito la società disciplinare?
L'autore esclude a priori che la disciplina (anche nella sua nuova veste seduttiva) e il controllo attuariale possano convivere, che esistano meccanismi di controllo differenziati per fasce diverse della popolazione, e tende a trasformare la nozione di moltitudine, che ben si presta a rappresentare l'idea della forza lavoro postfordista, in una nozione esaustiva di ogni soggettività politica contemporanea. La recente riflessione politica (penso in particolare a Impero di Hardt e Negri) ha fornito strumenti importanti per la comprensione del presente, tuttavia, quando si passa dal grande affresco dell'impero allo studio dettagliato dei meccanismi di controllo sociale, si dovrebbero affinare gli strumenti di analisi.
Nonostante l'eccessiva sintesi, il lavoro di De Giorgi è uno studio molto ricco delle attuali strategie di controllo, che ha il merito di mettere a nudo il rapporto strettissimo che queste intrattengono con i grandi mutamenti strutturali. Da segnalare inoltre la 'discussione' di Dario Melossi, che introduce il saggio, nella quale emerge tutta la vivacità del dibattito in corso intorno alla nozione di postfordismo e all'attualità del pensiero marxiano.
WIF - Sito Web Italiano per la Filosofia
Recensione di MARCO ENRICO GIACOMELLI (20/11/2002)
1. Premesse. L'obiettivo di questo libro è ambizioso: "Descrivere alcuni mutamenti intervenuti nelle forme del controllo a partire dall’emergere di una nuova articolazione dei rapporti di produzione" (p. 33).
La criminologia è una disciplina che, soprattutto in alcuni ambienti, suscita comprensibile ritrosìa. Si rende dunque necessaria una premessa: sino alla metà del XIX secolo, l'indagine penale era connotata in maniera tecnocratica, a tal punto da renderla una Polizeiwissenschaft. Attraverso un percorso che si snoda lungo le tappe cruciali della criminologia critica – dalla labelling theory alla sociologia criminale marxista, per giungere alla fondazione della critica materialistica della penalità –, De Giorgi mostra come la ricerca sia molto più sfaccettata di quanto sembri. La direzione di lavoro si rivela quanto mai interessante: situare “i dispositivi di controllo sociale nel contesto delle trasformazioni economiche che attraversano la società capitalistica e delle contraddizioni che ne derivano” (p. 39).
Tuttavia, il legame fra struttura economica e istituzione punitiva non va concepito in maniera deterministica: al contrario, va acquisita un’ottica storica e attenta alla complessità dei rapporti. L’A. richiama il testo di Rusche e Kirchheimer, Punishment and Social Structure (1939), ove si sostengono la deterrenza selettiva (ovvero l’applicazione nei riguardi delle classi subordinate) dei sistemi repressivi e la relazione tra le modalità della deterrenza e il mercato del lavoro. Un principio rimane comunque assiomatico, a prescindere da ogni ‘riforma’ del sistema penale: la less eligibility, la minor preferibilità della pena rispetto alla situazione di non-repressione. Dunque, secondo l’ipotesi del legame tra pena e mercato del lavoro, in periodi di surplus di forza-lavoro, le pene vengono inasprite e viceversa.
2. “Il grande internamento”. Per rendere meno categorici i legami suddetti è necessario il vaglio storico. Secondo la nota tesi foucaultiana, tra il XVII e il XVIII secolo si verifica il passaggio da un regime sovrano a uno disciplinare: col ‘grande internamento’ si delinea la transizione da una funzione negativa delle strategie del controllo a una ‘positiva’, volta alla normalizzazione della devianza e alla sua trasformazione in forza-lavoro (su questo tema, per l’Italia, si veda il classico studio di Ricci e Salierno, in particolare la sezione IV (Il lavoro dei detenuti), 1971: 151-180).
Col disciplinamento nasce anche la biopolitica: la “gestione razionale delle forze produttive” (p. 29) costituisce un modello in vigore sino all’apice del capitalismo fordista, mediante la triade fabbrica-welfare state-carcere ‘correzionale’. La prigione diviene dunque un “dispositivo orientato alla produzione e alla riproduzione di una soggettività proletaria” (p. 49): ovvero, uno strumento economico-ideologico al servizio dei rapporti di produzione capitalistici. Secondo le parole di Rusche: “Ogni modo di produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai propri rapporti di produzione” (cit. a p. 61).
3. Il postfordismo. Più controversa è la seconda transizione individuata da De Giorgi: lo scenario è quello in fieri del postfordismo, ove il “grande progetto disciplinare della modernità capitalistica” (p. 30) cede il passo al modello preventivo della Zero Tolerance. L’A. non cela problemi di ordine concettuale e metodologico, ma non esita a parlare di un “secondo grande internamento” (ibid.) scevro da sedicenti utopie disciplinari ed esteso non solo alle istituzioni penali, ma all’intero contesto urbano e globale. Si assiste a una frattura tra biopolitica e disciplinarità: se sussiste un controllo dei flussi della forza-lavoro globale, vengono a mancare “quelle tecnologie di soggettivazione che perseguivano l’obbiettivo di trasformare gli individui attraverso un controllo individualizzato” (p. 31). Negli Stati Uniti, sul finire degli anni Settanta, si sviluppa una surplus population eccedente il mercato del lavoro e al contempo i tassi di incarcerazione cominciano a incrementare. Tuttavia, si rischia un fatale determinismo, smentito parzialmente dai fatti, connettendo immediatamente incarcerazione e disoccupazione. L’A. riprende e sviluppa “interpretazioni più articolate del rapporto fra economia e penalità”, prestando maggiore attenzione agli aspetti “qualitativi” (pp. 56-57). Per sopperire ai limiti dell’economia politica della penalità, occorre dotarsi di una prospettiva a più ampio spettro, cercando di interpretare i mutamenti che investono l’intera struttura sociale e il complesso delle strategie di controllo. Il rapporto tra questi ultimi è dinamico, complesso e tendenziale, e non va sottovalutata la ‘mediazione’ ideologica tra fattori economici e politiche repressive.
4. La carenza capitalistica. De Giorgi si colloca tra i sostenitori più equilibrati delle tesi inerenti il postfordismo: fine del paradigma taylorista (relativo all’organizzazione del lavoro), del fordismo (regolazione della dinamica salariale), del keynesismo (ammortizzazione politica in economia) e ridefinizione globale della geografia produttiva – da cui conseguono i corollari concernenti la disoccupazione strutturale, l’informatizzazione dell’economia, la caratteristica cognitivo-immateriale del lavoro, la decentralizzazione della figura operaia in favore di una moltitudine cooperante.
La formulazione dell’A. è però inedita e stimolante: “La transizione dal fordismo al postfordismo [si configura] come passaggio da un regime produttivo caratterizzato dalla carenza (e dal dispiegamento di un complesso di strategie orientate al disciplinamento della carenza) a un regime produttivo definito dall’eccedenza (e quindi dall’emergere di strategie orientate al controllo dell’eccedenza)” (p. 75).
La parola chiave è dunque eccedenza. Nello scenario postfordista, la disoccupazione indica non tanto la mancanza di un lavoro, quanto di un impiego: il lavoro tende a “investire l’intera esistenza sociale” (p. 78) e la disoccupazione diviene il “margine di eccedenza della produttività sociale”. L’ipotesi è nota, sebbene non in questi termini: mentre nel fordismo è il capitale a eccedere sulla forza lavoro, nel postfordismo il rapporto s’inverte, dando luogo a fenomeni di carenza capitalistica nei confronti della moltitudine. Ciò si concretizza, per gran parte di questa moltitudine, nella violenta esclusione dai diritti di cittadinanza dettata dall’inadeguatezza al nuovo paradigma del rapporto di produzione capitalistico. De Giorgi parla conseguentemente di eccedenza negativa, in quanto comporta un’attitudine violenta da parte del capitale, ma soprattutto poiché “in questo processo il dominio del capitale risulta potenzialmente negato” (p. 81).
Se è vero che il lavoro tende a divenire essenzialmente un fatto linguistico, ‘saltano’ una serie di distinzioni classiche dell’economia politica: non solo quella tra (tempo di) lavoro e (tempo di) non-lavoro, ma anche tra produzione e riproduzione, fra struttura materiale della società e sovrastruttura. In questo contesto, la cooperazione della moltitudine invalida la marxiana ‘legge del valore’ e il dominio imprenditoriale si caratterizza per la propria esternalità, ostacolando lo sviluppo del general intellect. La sintesi di Hardt e Negri è netta: “La funzione progressiva del capitale è terminata” (1994, cit. a p. 86). L’eccedenza è dunque positiva perché la forza-lavoro sociale “allude costantemente alla possibilità di superare il parassistismo del capitale” (p. 87).
5. Controlli preventivi. Potrebbe sembrare che queste due eccedenze siano in reciproco conflitto. In questo nodo s’inserisce il concetto di moltitudine – eredità di Hobbes, Machiavelli e Spinoza –: essa viene prima “ontologicamente” rispetto al comando capitalistico e “a questo potenzialmente si sottrae” (p. 91). È dunque antecedente rispetto alle distinzioni che portano a individuare un’eccedenza negativa e una positiva. Inoltre, data questa conformazione, la moltitudine non può più essere soggetta a controlli di tipo disciplinare: emerge un “dominio imperiale [ridotto a puro comando] che si costruisce sul controllo biopolitico” (p. 92). Dunque, un double bind vige tra il passaggio dal fordismo al postfordismo e la transizione dal disciplinamento della carenza al governo dell’eccedenza: a un potere-sapere che rende produttiva la forza-lavoro e ne disciplina il ruolo all’interno dei rapporti di produzione e riproduzione, subentra un regime di “non-sapere” (p. 106) costretto a limitarsi a un controllo ‘esterno’ e ‘negativo’. L’utopia disciplinare panottica si esaurisce e non è più possibile sostenere che “la rieducazione è, tecnicamente, la più avanzata delle funzioni tipiche della pena” (De Cataldo 1992: 115).
Alessandro De Giorgi analizza tre territori nei quali si dispiegano con maggior evidenza le nuove strategie di controllo: il carcere attuariale, la metropoli punitiva e la rete. Per quanto riguarda il primo, il dato rilevante è l’atteggiamento preventivo modellato sulla gestione del rischio nei confronti di segmenti di forza-lavoro: “(...) Intere categorie di individui cessano virtualmente di commettere crimini per diventarlo esse stesse” (p. 114. Il riferimento va esemplarmente ai migranti, eccedenza negativa incarcerata nei centri di detenzione). La metropoli punitiva si modella secondo assunti similari: la città diviene un dispositivo di controllo post-disciplinare, segmentata secondo una geografia sociale che a priori segrega intere classi di individui e ne regolamenta i flussi. La cooperazione è inibita e la frattura tra eccedenza negativa ed eccedenza positiva è costruita erigendo barriere materiali e simboliche (l’A. parla di “ecologia della paura”, p. 121). Infine, la rete: anche in questo caso il paradigma è quello assicurativo della prevenzione del rischio derivante da un potenziale accesso indiscriminato.
Il ritratto del potere assume tinte ansiogene: la rincorsa a un controllo totale rivela l’incapacità a imbrigliare la moltitudine e la testimonianza di ciò risiede nel fatto che le strategie di controllo contemporanee non producono più soggettività, al contrario la distruggono.
6. Il dibattito a seguire. Il testo è assai ben documentato e ha il merito, tra gli altri, di ricchi riferimenti bibliografici, in gran parte di area anglosassone.
Tuttavia va affrontata la questione dell’analisi tendenziale: essa non manca di stimolare la comprensione del reale e dei suoi possibili sviluppi, ma resta un grande margine di incertezza e di critica. L’A. è comunque attento a non sfociare in previsioni azzardate, contrariamente a tanti altri intellettuali di area italiana e francese: spesso ricorda al lettore che si tratta di scenari incompiuti e parziali (cfr. per es. pp. 73, 96 e 107) e dà spazio a punti di vista divergenti (cfr. pp. 88-90). In questo modo si crea un’area per un dibattito propositivo e costruttivo, ove discutere numerosi temi e premesse: ci si può chiedere per esempio se la “transizione al postfordismo (...) ridisegna complessivamente la struttura materiale della produzione” (p. 61, c.m. Cfr. pure pp. 32, 66, 72-73); oppure se la successione classe-moltitudine possa essere risolta senza ulteriori approfondimenti (cfr. p. 33).
Queste sono alcune delle questioni che richiedono un confronto approfondito e serrato, al di là delle diatribe lessicali che spesso riducono il dibattito politico a schermaglia ideologica.
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