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Diritto di fuga
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Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione
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il manifesto - 16 Gennaio 2002
La mobilità ribelle
La fuga come diritto universale di sottrazione a un ordine imperiale che in nome dell'economia di mercato nega la libertà di movimento a uomini e donne. "Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione", un volume di Sandro Mezzadra
di MARCO BASCETTA
Libertà di movimento e libertà sono sostanzialmente sinonimi. Il tratto più odioso e universalmente inviso dei regimi del socialismo reale fu appunto la negazione di questa libertà in senso spaziale e in senso sociale, incatenamento ai luoghi e alle funzioni. Imposta, per di più, nel nome di una presunta razionalità sociale che intendeva contrapporsi agli spiriti selvatici e irrazionali del capitalismo. Il quale, per parte sua, alla libertà di movimento (forse ancor più che al caleidoscopio dei consumi) affidava gran parte del suo appeal nei confronti dei reclusi d'oltre cortina. Quanto potente fosse quel messaggio, quanto insopportabile la limitazione del movimento per ogni singolo, lo avrebbe inequivocabilmente dimostrato l'89. "L'ultimo che esce spenga la luce": chi non ricorda il caustico epitaffio della Repubblica democratica tedesca, travolta da un tumultuoso esodo di massa? Al "diritto di fuga" e ai suoi martiri, la Berlino delle potenze occidentali aveva addirittura consacrato un museo a un passo dal check-point Charlie, il varco tra est ed ovest, la "porta della libertà".
Difficilmente vedremo mai sorgere un museo dedicato ai migranti affogati nel Mediterraneo, soffocati negli autotreni, surgelati nelle stive degli aerei, carbonizzati nel rogo di un "centro di accoglienza". Poichè a tutti costoro è negato l'esercizio di un "diritto di fuga", la pretesa e l'esercizio di una libertà. Non è più tempo di abbattere muri, ma di edificarne, non è più tempo di liberare gli oppressi, ma di respingere degli invasori.
La libertà di movimento, sbandierata come un valore assoluto e irrinunciabile ai tempi della guerra fredda, è stata prontamente revocata. Beninteso, la riunificazione del mondo sotto il segno del mercato, seguita all'89, non tollererebbe più muri anche solo parzialmente impermeabili alle merci e ai capitali, governati da una logica altra e ostile. E nemmeno una reclusione integrale delle braccia e delle menti. E' piuttosto un setaccio che un muro, il confine ideale sognato dai paesi ricchi e sviluppati. Un setaccio a maglie variabili, in grado di far filtrare quanto serve e solo ciò che serve alla produzione del profitto e alla riproduzione dei rapporti sociali. Non tutti, ma alcuni, non persone portatrici di aspirazioni e di diritti, ma braccia e funzioni produttive. Il setaccio capitalistico che respinge, non meno del muro socialista che tratteneva, è governato da una pretesa utilitaristica di pianificazione e da una violenza coercitiva, irrealistiche nell'un caso come nell'altro nel sottovalutare, preda di un cieco riduzionismo, la potenza sovvertitrice della soggettività,.
E' proprio questa soggettività inarginabile, invece, che un breve ma denso libro di Sandro Mezzadra, da poche settimane in libreria (Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte , pp.130, Euro 10,33 L. . 20.000), mette pienamente in campo, leggendo la storia non solo contemporanea delle migrazioni con la categoria del "diritto di fuga" e quella dello sfruttamento e del dominio come negazione pratica di questo diritto. Qui l'elemento del rifiuto, la rottura con una condizione di partenza asservita o opprimente pesa almeno quanto le promesse, sovente illusorie, del paese di Bengodi. Quel "desiderio di libertà" che i cantori dell'Occidente imputavano esclusivamente ai sudditi dell' "Impero del male", viene finalmente restituito all'umanità intera a cui appartiene, come movente delle azioni, delle scelte e dei conflitti. Sulla base di una scelta universalistica, che prende tuttavia le distanze dalla pretesa di assolutezza dell'ideologia occidentale. Con ciò il migrante cessa di confondersi con quella figura di indigenza nostalgica, patetica e molesta al tempo stesso, che sovente scaturisce perfino dalle migliori intenzioni assistenziali della morale "progressista", per rientrare a pieno titolo, o addiritura in forma esemplare, nel novero di coloro che si battono contro lo stato di cose esistente. E riavvicinarsi così a quei fenomeni di esodo, di conflitto e di rottura con tradizioni e assetti consolidati che hanno segnato la storia recente delle società più sviluppate. E' un angolo visuale, questo, che scardina, da una parte le retoriche dell'integrazione e la pretesa, che le contraddistingue, di elidere qualsivoglia dimensione conflittuale, considerando l'elargizione di diritti come il premio di una tacita obbedienza o di una adesione incondizionata alla cultura e al paese di insediamento, adesione che l'esperienza stessa della diaspora tende comunque ad escludere. Dall'altra, l'immagine di una alterità irriducibile, fondata su quell'idea compatta dell'identità etnica, tramandata dall'antropologia coloniale, che riduce la sfera delle interazioni possibili tra i "diversi" alle leggi "naturali" e perciò inoppugnabili dell'economia di mercato.
Tanto poco "naturali", in verità, da richiedere un dispiego crescente di coercizione "artificiale" per garantirne il funzionamento e la vigenza. Alla libertà di movimento delle merci, dei capitali e delle funzioni produttive incarnate nel corpo dei migranti, si affiancano un dedalo di confini e di barriere che ne respingono le persone e le aspirazioni. Tra gli stati e negli stati, tra regioni e perfino tra quartieri e comparti produttivi. Nessun automatismo, nessuna oggettiva idraulica sociale garantisce il prodursi spontaneo di equilibri funzionali che richiedono, tutt'al contrario, l'impiego sempre più diffuso di costrizioni di natura extraeconomica. Nel controllo dei migranti, nella loro "irregimentazione", nella limitazione dei loro diritti e della loro libertà, nel riaffacciarsi di molteplici forme di rapporti servili, emerge nella luce più vivida e cruda una tendenza che coinvolge il controllo dell'intera forza lavoro: dal lavoro interinale all'erosione dei diritti del lavoro dipendente, dal dispotismo della committenza al ricatto del precariato. La favola antica di una libertà di movimento governata dalla sola legge della domanda e dell'offerta si mostra infine con tutta evidenza per quella miserabile fandonia che sempre è stata. Ciò su cui il capitalismo ha fondato la sua poderosa capacità di espansione sono i vincoli che ha imposto non meno di quelli che ha travolto, la reclusione non meno dell'apertura di nuovi spazi.
Questa violenza extraeconomica e l'arbitrio che la contraddistingue riconducono prepotentemente in campo l'ideologia. Le farneticazioni sulla superiorità culturale dell'Occidente, tanto quanto la riesumazione di forme più o meno razionalizzate di razzismo, l'idetificazione senza residui tra capitalismo e modernità e il darwinismo sociale, lungi dal rappresentare un fenomeno residuale, marginale o estremo, tendono a diventare il bagaglio ordinario che accompagna i processi di globalizzazione liberista, il loro inevitabile pendant. Tanto nella versione aggressiva di un universalismo di stampo imperiale, quanto in quella, non meno sprezzante né incattivita di una ideologia identitaria delle differenze. La riunificazione del pianeta sotto il segno dell'economia di mercato e la "domesticazione" dei fenomeni migratori che la contraddistinguono vengono cosi a coincidere con una profonda regressione, con un progressivo indebolimento di quel pensiero razionale di cui l'Occidente mena vanto. Il razzismo, la definizione dell' "altro" e il suo rifiuto costituiscono da sempre un fondamento della conservazione e della difesa dei rapporti di dominio esistenti.
Fuga, esodo, diserzione, non hanno mai goduto di buona fama, invise, come sono, tanto all'ordine dello sfruttamento capitalistico quanto agli edificatori del "mondo nuovo". Non a caso il socialismo di stato e l'ideologia tradizionale del movimento operaio le hanno combattute con ogni mezzo, traducendone il significato in "rinuncia", "disfattismo", "tradimento" dell'interesse generale. L'argomento ritorna banalmente insidioso: "perché non si battono per migliorare la proprie condizioni di vita nei paesi di origine, invece di perseguire scorciatoie anarchiche e individuali nelle nostre società opulente?" Già l'interdipendenza del mondo globalizzato basterebbe a rendere insensata questa domanda, ma il diritto di fuga, la forzatura delle barriere e dei confini corrisponde anche all'esercizio di un diritto positivo e universale, alla rivendicazione di una libertà cosmopolita e, perchè no, all'affermazione di una idea di mondo, neanche tanto nuova: "nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero, ribelle in cuor ci sta", recitava una vecchia canzone anarchica decisamente fuori moda, ma adatta al coro delle singole voci della moltitudine.
Bollettino telematico di filosofia politica
Recensione di DINO COSTANTINI
DESTINO. Nel momento stesso in cui, dimostrando la Storia ancora una volta la sua libertà, i popoli colonizzati cominciano a smentire la fatalità della loro condizione, il vocabolario borghese fa il massimo uso della parola Destino. Come l'onore il destino è un mana in cui si raccolgono pudicamente i determinismi più sinistri della colonizzazione. Il Destino, per la borghesia, è il coso o l'affare della Storia. Naturalmente il Destino esiste solo sotto una forma legata. Non è stata la conquista militare ad assoggettare l'Algeria alla Francia, è stata una congiunzione operata dalla Provvidenza a unire i due destini. Il legame viene dichiarato indissolubile nel tempo anche dove si dissolve con un'evidenza che non si può nascondere.
Fraseologia: "Quanto a noi, intendiamo dare ai popoli il cui destino è legato al nostro, un'indipendenza vera nell'associazione volontaria" (Pinay all'ONU).
Roland Barthes, Miti d'oggi
Dopo aver curato insieme ad Agostino Petrillo l'ottimo volume I confini della globalizzazione (Manifestolibri, Roma, 2000), Sandro Mezzadra, docente di Storia del pensiero politico contemporaneo e di Studi coloniali e post-coloniali presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Bologna, torna sul tema delle migrazioni, questa volta seguendo un approccio più schiettamente filosofico politico. Lo fa con un libro denso ed intrigante, la cui categoria centrale è quella di diritto di fuga. Nell'interpretazione di Mezzadra questa categoria ha due possibili funzioni se applicata al tema delle migrazioni nelle società contemporanee. Da un lato quella di sottolineare l'irriducibile singolarità del migrante, capace di scelte soggettive, e incomprensibile in quanto mera espressione etnico-culturale. Dall'altro quella di illuminare l'esemplarità dell'esperienza migratoria in quanto limite dell'esperienza politica moderna. Il risultato auspicato è quello di sganciare la riflessione sui migranti e la loro condizione da ogni residuo di paternalismo, rendendo inadeguata la visione del migrante come soggetto inevitabilmente debole e bisognoso, e trovando nel contempo lo stimolo per ripensare criticamente alcuni dei paradigmi fondamentali della nostra società ed in particolare il concetto di cittadinanza. Il quadro all'interno del quale Mezzadra vuole inserire le proprie analisi è quello della globalizzazione, che viene qui intesa, sulla scia di Galli, come "sconfinamento", ovvero come processo indefinitamente (ri)costituente, capace di porre in discussione gli ordini consolidati senza però sostituirli con alcuna "globalità". Il nuovo ordine della globalizzazione non è affatto, argomenta Mezzadra, un ordine unitario, per quanto contenga al proprio interno una istanza oggettivamente cosmopolitica. La globalizzazione deve piuttosto essere pensata come un movimento internamente gerarchizzato secondo linee funzionali all'"imperativo del controllo sui movimenti del lavoro"(p. 13). Sulla scia dei lavori di Moulier Boutang è questa la linea di lettura sulla quale il libro si incammina.
Nel primo capitolo Mezzadra prende le mosse da una analisi dei lavori che il giovane Max Weber condusse negli anni '90 dell'800 per conto del "Verein fur Sozialpolitik". Il Verein commissionò a Weber una indagine sulle condizioni dei lavoratori agricoli nelle provincie prussiane orientali. L'analisi di Mezzadra procede innanzitutto collocando storicamente lo studio di Weber all'interno del nuovo corso dato alla politica sociale tedesca in seguito alla morte nel 1888 di Guglielmo I e alle dimissioni di Bismarck nel 1890. Il compromesso bismarckiano, realizzato da un lato attraverso l'erogazione di inaudite prestazioni sociali da parte dello stato e dall'altro tramite la persecuzione dei socialisti e dei cristiani, percepiti come i più pericolosi avversari politici, non aveva dato gli esiti sperati. La conflittualità sociale era cresciuta e un nuovo corso era auspicabile. Weber indaga la crisi della struttura sociale tradizionale, basata sull'istituto giuridico dell'Instverhaltnis (che legava al proprietario terriero l'intera famiglia del lavoratore in cambio di una remunerazione essenzialmente non monetaria). Tra proprietario terriero ed Instmann esisteva ancora secondo Weber una comunità di interesse possibile, che in definitiva rimandava al modello dell'oikos. La sostituzione del profitto al "sostentamento conforme al ceto", come motivazione fondamentale del lavoro agricolo ha un effetto dirompente su questo modello. In ciò Weber legge all'opera la forza "sovversiva e nichilistica del capitalismo colto nel suo farsi". Con la proletarizzazione dei lavoratori agricoli ogni vincolo comunitario è dissolto per lasciare spazio a relazioni di dominio spersonalizzate. All'analisi della crisi della società tradizionale si affianca quella della mobilità della forza lavoro. Weber, ponendo qui le basi della propria sociologia comprendente, analizza le dinamiche migratorie che attraversano in quest'epoca le campagne prussiane dal punto di vista delle motivazioni soggettive dei migranti. Weber scopre così nella soggettiva volontà di sfuggire all'oppressione paternalistica e dispotica dei proprietari terrieri la principale ragione dell'abbandono delle campagne da parte delle giovani generazioni. I tedeschi abbandonano le campagne alla ricerca della libertà; e poco importa se questa libertà si rivelerà ben presto un'illusione. Ciò che importa è la sua "magia possente", per quanto "puramente psicologica". In questa "opzione soggettiva per la condizione proletaria", in questo "individualismo proletario di massa", che Weber pone alla base della sua analisi, Mezzadra trova il primo embrione di quel diritto di fuga che il lavoro si propone di indagare.
Allo "sgretolamento della costituzione del lavoro tradizionale nelle campagne", nota Mezzadra, "si sovrappone … continuamente, negli scritti di Weber, l'immagine di una sorda guerra tra le nazionalità" tedesca e polacca. Questa sovrapposizione rende il testo weberiano da un lato assai contraddittorio metodologicamente (poiché nessuna opzione soggettiva di fuga è indagata rispetto ai movimenti dei "nomadi polacchi": i polacchi nella ricostruzione weberiana si muovono sulla base di una risposta meramente meccanico-idraulica alla pressione esercitata sui loro stomaci dai salari dei proprietari terrieri tedeschi) e dall'altro particolarmente attuale. Anche oggi assistiamo allo sgretolarsi del lavoro così come tradizionalmente conosciuto dalle generazioni precedenti e anche oggi a questo sgretolarsi corrisponde l'emergere preoccupato della tematica dell'assedio migratorio. Il ragionamento di Weber a riguardo è esemplare. Egli muove dalla preoccupazione di una possibile polonizzazione delle campagne prussiane abbandonate dai tedeschi adescati dall'illusione cittadina della libertà. Il motivo essenziale della preoccupazione weberiana sta nel fatto che il Kulturniveau (e cioè innanzitutto, non il tasso di alfabetizzazione, ma il "regime nutrizionale") dei lavoratori polacchi è inferiore a quello dei tedeschi. Ciò rende il "nomade polacco" meglio attrezzato alla concorrenza selvaggia imposta dai nuovi rapporti di produzione capitalisticamente orientati. Di fronte all'aggressione polacca, che ha nella diversa costituzione degli stomaci la sua arma più importante, il destino della superiore cultura tedesca, profetizza Weber, sarà inevitabilmente quello di soccombere a meno che concrete misure non siano poste in essere a sua difesa. Le preoccupazioni di Weber sono prontamente raccolte dal governo dell'epoca. Il generale Leo von Caprivi, successore di Bismarck al cancellierato, farà approvare l'11 Novembre del 1891 un decreto capace di impedire la polonizzazione della campagna tedesca. I metodi anticipano con inquietante precisione quelli contenuti nelle recenti normative approvate dal governo italiano (oltre che da molti altri paesi europei) in materia di immigrazione. Il fine pure: era (e continua ad essere) quello di assicurare la necessaria forza lavoro alle imprese (agricole nel caso analizzato da Weber) della regione, impedendo nel contempo una piena integrazione dei lavoratori stranieri (nel caso di Weber dei polacchi). Il risultato è duplicemente "positivo": da una lato si minimizza il rischio della "contaminazione" culturale, dall'altro si comprimono convenientemente diritti e salari. Tale scopo viene raggiunto, ora come allora, attraverso una regolazione degli accessi volta a precarizzare le condizioni di soggiorno e di esistenza degli stranieri sul territorio nazionale subordinandone rigidamente la permanenza al possesso di un contratto di lavoro.
Dopo aver utilizzato Weber per impostare i termini del problema Mezzadra si adopera nel secondo capitolo ad attualizzare il discorso individuando la tematica delle migrazioni come una "componente strategica nella storia dell'urbanizzazione e dell'industrializzazione europee degli ultimi 300 anni"(p. 50). Parallelamente al maturare delle istituzioni disciplinari tipiche dello stato nazione moderno si ha lo sviluppo di un fenomeno che Mezzadra considera della massima importanza: la diffusione di una cultura della fuga e dell'opposizione. Seguendo l'ipotesi di Moulier Boutang, Mezzadra afferma che "la fuga del lavoro dipendente, libero o non libero" deve essere inteso come "il primum mobile, come il motore e il problema fondamentale dell'accumulazione capitalistica" (p.57). Secondo questa lettura non il concetto di "lavoro salariato libero", ma il concetto di "lavoro dipendente" deve essere pensato come peculiare al processo di accumulazione capitalistica. Il lavoro libero non sarebbe che una delle forme, e storicamente neppure quella maggioritaria, prese dal lavoro dipendente all'interno del modo di produzione capitalistico. Si comprende l'importanza che un simile contesto interpretativo dovrà dare al tema delle migrazioni. Se le migrazioni corrispondono innanzitutto ad una opzione soggettiva di fuga dalle condizioni di sfruttamento del lavoro tipiche di un dato tempo e luogo (per quanto questa fuga non rappresenti, come ricordava Weber, che un'illusione), preoccupazione fondamentale per il buon funzionamento del sistema capitalistico di accumulazione sarà quella di "imbrigliare" la mobilità della forza lavoro. E la migliore briglia che si riuscirà ad escogitare sarà lo stato nazione con i suoi confini (p. 60).
L'affermarsi dello stato-nazionale contribuisce in maniera decisiva, in questo stesso lasso di tempo, a ridefinire i codici dell'inclusione vale a dire della cittadinanza. Della cittadinanza Mezzadra vuole indagare la crisi messa in moto dalla ricomposizione post-fordista della società e che trova un suo punto di massima tensione nel contatto con i migranti. Rotta la dinamica espansiva che aveva portato ad una sua crescita intensiva ed estensiva (è la nota ipotesi di Marshall), il concetto di cittadinanza pare entrato in una fase in cui sempre più evidenti appaiono i suoi caratteri escludenti. La cittadinanza, incapace di accogliere le nuove identità mobili dei migranti, rischia di divenire, secondo la pregnante espressione di Ferrajoli, "l'unico privilegio di status rimasto nel mondo contemporaneo" (L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo, La cittadinanza. Appartenenze, diritti, identità, Laterza, Roma-Bari, 1994; p. 288). I confini dello stato circoscrivono l'inclusività della cittadinanza, che a sua volta deve essere pensata come una inclusività confinata. Gli scenari di questo inizio secolo hanno portato a piena evidenza questo paradosso che viene affrontato nel terzo capitolo attraverso una vasta rassegna del dibattito internazionale. Sempre più evidente appare il carattere esclusivo della cittadinanza stessa, carattere che porta "universalismo dei diritti e particolarismo dell'appartenenza a confliggere tra loro" (p. 68). I migranti appaiono qui come "cittadini della frontiera", abitatori dei nuovi spazi transnazionali aperti dalle deterritorializzazioni e riterritorializzazioni della globalizzazione, veri "crogioli di un ordine politico sovranazionale", secondo la definizione di Appadurai (citato a p. 72). A fronte del sorgere e del moltiplicarsi di identità multiple, a fronte del nomadismo e dell'eterna incompletezza delle naturalizzazioni, del meticciato e della contaminazione tra le culture, che senso ha l'applicazione sempre più diffusa di una categoria come quella di "clandestino"? La nozione, secondo Mezzadra, è il prodotto di una costruzione giuridica (legittimata per tramite di un massiccio rinforzo mediatico), che si basa sulla logica moderna della cittadinanza e ne amplifica, nel contesto della generale crisi del welfare, la dimensione escludente. Al migrante non è concessa l'appartenenza, e dunque non è concesso l'accesso ai benefici, peraltro sempre più ridotti, che gli stati riconoscono ai propri cittadini. Ciò che è riconosciuto al migrante è solo una forma residuale e "privatistica" di cittadinanza, una denizenship sostanzialmente determinata dal contratto privato di lavoro (p. 79). Con ciò si ottiene il risultato di stratificare, gerarchizzandoli, i diritti. Questa differenziazione appare pienamente funzionale alle esigenze dell'imbrigliamento del lavoro. Ed è proprio in opposizione alle pratiche di confinamento e di imbrigliamento della forza lavoro, che i migranti trovano la propria migliore definizione: "quel che unifica, evidentemente ad un livello molto astratto, i comportamenti delle donne e degli uomini che optano per la migrazione sono la rivendicazione e l'esercizio pratico del diritto di fuga". Il diritto di fuga si precisa qui come una opzione soggettiva scatenata da fattori oggettivi.
Mezzadra si adopera poi in una sintetica quanto efficace critica del multiculturalismo. Il multiculturalismo, in questa ricostruzione, si fonda su di una immagine stereotipata dell'altro costruita attorno alle idee di identità, cultura ed etnia e alla pretesa fissità delle stesse. Esso maschera una falsa coscienza molto diffusa, per la quale la capacità di riconoscere la differenza dimostrerebbe la superiore neutralità e universalità della cultura occidentale. Il discorso di Mezzadra non è rivolto a fondare alcuna apologia dell'ibrido o del nomade. Tali apologie vengono anzi esplicitamente rifiutate dall'autore in quanto costruite su posizioni fondamentalmente estetiche. Il compito che il testo fa proprio è invece quello di riaprire la cittadinanza al suo movimento originariamente inclusivo, attraverso la posizione della necessità di un nuovo universalismo. Scrive Mezzadra: "Il linguaggio dei diritti e della cittadinanza non può essere amputato della sua tendenza all'universalizzazione senza rovesciarsi in uno strumento di difesa dello status quo e di legittimazione del dominio" (p. 87).
Nel quarto ed ultimo capitolo si mette in luce come i "movimenti migratori" siano, sin dalla seconda guerra mondiale, "legati a doppio filo al processo di decolonizzazione" (p. 94). Il colonialismo è per Mezzadra "un elemento costitutivo della progressiva costruzione, in età moderna, di una comune identità europea e occidentale" (p. 96). Contro il colonialismo, che la situazione postcoloniale non ha superato (per lo meno nei termini dell'asimmetria tra centro e periferie del sistema mondo), le migrazioni hanno sempre operato come un movimento carsico capace di opporsi a quello che Said ha definito il "principio di confinamento" (p. 103). Di questi movimenti i subaltern studies , che costituiscono in ordine di tempo l'ultimo interesse di ricerca di Mezzadra, hanno cercato di dare conto proponendo un decisivo rinnovamento della concezione della storia. La storia, in questa nuova concezione non potrà più essere pensata come il risultato univoco dell'applicazione della forza propulsiva dell'occidente su di un materiale, le colonie, tendenzialmente inerte. Essa dovrà invece il suo svolgersi concreto alle forme di resistenza periferica che, scontrandosi con essa, l'hanno ibridata. Di queste forme di resistenza ogni futuro universalismo dovrà tenere conto. Il neouniversalismo, non dovrà dunque contenere dettagliate prescrizioni normative. Esso dovrà essere la traccia, il "place holder" nelle espressione di Chakrabarty, nel segno del quale ridefinire "a un tempo le logiche del dominio e il rompicapo della liberazione" (p. 117). Un nuovo universalismo che si sostanzi non tanto in un set precostituito di valori, ma sia capace di assolvere la funzione di forma accogliente, capace di stimolare una dinamica nuovamente includente. Il libro si conclude qui, prospettando un'esigenza di ricerca che può in larga misura essere condivisa. In questa conclusione il libro ha il suo maggior pregio e il suo limite più consistente. La scrittura appare infatti tutta sbilanciata verso l'indicazione di questa esigenza; appare cioè come il risultato, allo stesso tempo ricchissimo e frammentario, di una ricerca che è ancora in corso, l'indicatore di uno stato di tensione che non si risolve in una formula, ma indica al pensiero la necessità di un cammino.
JURA GENTIUM - Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Recensione di FILIPPO DEL LUCCHESE
La retorica universalistica della libertà di movimento ha goduto di buona salute almeno fino alla caduta del muro di Berlino, cioè al crollo dell'ultimo bastione della modernità socialista. Paradossalmente, però, a partire da quel momento, la stessa retorica è stata riposta in cantina a fronte della materializzazione, nelle nostre società, di fenomeni migratori sconosciuti nei decenni precedenti. Quelle che erano considerate astrattamente le 'vittime' dei sistemi e delle società non capitalistiche si sono materializzate con la loro soggettività concreta. Si sono presentati in carne ed ossa, rivendicando la propria libertà innanzitutto come libertà di movimento. L'Occidente ha dovuto quindi fare 'marcia indietro', affiancando ad una progressiva liberazione della circolazione delle merci e dei capitali, un riarmo dei confini che niente ha da invidiare a quell'odiato muro di Berlino. Le migrazioni sono diventate, quindi, l'oggetto di politiche di controllo e prevenzione che negli ultimi anni, anche nel nostro paese, hanno abbondantemente superato la soglia di una vera e propria guerra 'a bassa intensità' contro i migranti.
In questo volume Sandro Mezzadra prosegue la riflessione avviata da alcuni anni sulle migrazioni nell'epoca della globalizzazione, rovesciando il punto di vista dominante su questo fenomeno. Il migrante, cioè, non viene considerato come l'oggetto di una politica ma come il soggetto che, attraverso il proprio comportamento, rivendica diritti, in particolare la propria libertà di movimento. Se il punto di vista prevalente è quello di ridurre il fenomeno delle migrazioni alle sue cause oggettive (economiche, demografiche, geo-politiche), l'a. intende qui prendere in considerazione innanzitutto il punto di vista soggettivo. I migranti sono innanzitutto donne e uomini che rivendicano la più antica e originaria libertà, quella - appunto - di sottrarsi a stili e condizioni di vita, in una parola di muoversi liberamente. La motivazione soggettiva, cioè, lungi dall'essere un particolare secondario, viene valorizzata come uno degli elementi principali della scelta di migrare.
La ricerca di genere sulla soggettività femminile migrante ha contribuito ha chiarire l'enorme importanza della motivazione soggettiva nella scelta della migrazione. Questo percorso porta Mezzadra a riflettere anche sul problema della cittadinanza, dell'appartenenza e su come le soggettività migranti, con le loro domande ed i loro bisogni, ci impongono di ripensare questa categoria alla luce anche dei mutamenti strutturali del mercato del lavoro.
Lo sradicamento e l'ibridazione, insieme al sempre più consistente métissage delle nostre società è una manifestazione della "globalizzazione dal basso". Questi fenomeni, tuttavia, rischiano spesso di essere oggetto di vuote apologie 'estetizzanti', dimentiche del carico di sofferenze e di dolore che i fenomeni migratori significano per milioni di persone. Partendo da questa considerazione, l'a. intraprende un percorso di valorizzazione delle soggettività migranti nelle nostre società, del rifiuto e del conflitto che queste soggettività rappresentano nel momento in cui rivendicano - nei fatti - un universale "diritto di fuga". Questo offre anche degli spunti per meglio interpretare le nostre società e per la costruzione di un pensiero critico che aiuti e promuova la costruzione "dal basso" della globalizzazione.
In particolare nei termini delle condizioni di vita e di lavoro a cui sono costretti nelle società occidentali, i migranti divengono figure paradigmatiche dell'epoca globale e post-moderna. Il loro rapporto problematico con l'appartenenza ci ricorda alcune dinamiche sociali che hanno caratterizzato gli anni '60 e '70, suggerendo la nuova centralità di questo soggetto nelle dinamiche politiche e conflittuali della nostra epoca.
Attraverso un approccio interdisciplinare (dalla storia del pensiero politico - interessante l'analisi, nel primo capitolo, del giudizio del giovane Weber sui movimenti migratori dei contadini tedeschi nel XIX secolo - alla storia economica alla sociologia) Mezzadra propone un percorso di grandissimo interesse, attraverso uno dei temi centrali che investono le nostre società nella globalizzazione.
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