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L'emergere di un Popolo Mondo
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Appartenenza, singolarità e divenire collettivo
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Il manifesto - martedì 30 gennaio 2001
La costituzione di forme di cittadinanza mondiale legate alla circolazione dei migranti e alla nascita di spazi transnazionali. Un volume del sociologo Philippe Zarifian che non sempre fa i conti con le insidie del pensiero localista e anticosmopolita
di AGOSTINO PETRILLO
L' idea del cosmopolitismo periodicamente riaffiora nella storia, fino a rappresentare, come ha sottolineato Derek Heater (World Citizenship and Government: Cosmopolitan Ideas in the History of Western Political Thought, New York 1996), una delle grandi correnti che attraversano il pensiero politico occidentale. Nello scenario del tutto nuovo apertosi dopo l'89 si è avuta una ripresa del dibattito sulla cittadinanza mondiale, sotto l'incalzare da una parte dei processi di relativo indebolimento dei poteri degli stati nazionali, dall'altra della tendenza sempre più accelerata ad un'integrazione produttiva, commerciale e finanziaria dell'intero pianeta. Molto si è dissertato anche su tecnologie comunicative e flussi migratori, che farebbero ulteriormente vacillare i fondamenti nazionali della cittadinanza, dischiudendo prospettive inedite. Basti pensare al libro di Peter Coulmas sulla storia del concetto di Weltbürgerschaft, alle polemiche seguite alla pubblicazione di alcuni testi di Jürgen Habermas, accusato di dialogare in maniera troppo stretta con il Kant utopista del Progetto per la pace perpetua, o all'ultima produzione di Ulrich Beck. Nel dibattito attuale sul cosmopolitismo si mescolano però più piani. Da una parte vi è la speranza che un rafforzamento dei grandi organismi internazionali possa rappresentare la premessa a un governo mondiale, dall'altra vi è l'intuizione di una ripresa di partecipazione politica e di una rinnovata aspirazione alla giustizia che si fa strada su scala planetaria. Sono in circolazione sia ipotesi di una cittadinanza mondiale che si realizzerebbe per lenta edificazione istituzionale, come costruzione dall'alto di un legame tra il singolo e un livello di governo planetario; sia un'idea di cosmopolitismo dal basso, che si disegna come risultante ultima della "epoca delle migrazioni" e delle conseguenti lotte per i diritti. Cittadinanza quindi come grande utopia mondiale di riferimento, e insieme come obiettivo da perseguirsi per rendere più efficace l'azione politica dei popoli esclusi dalle grandi correnti della globalizzazione e dei movimenti antisistemici che trovano per la prima volta momenti di azione comune.
In questo panorama si inserisce il volume del sociologo del lavoro e delle organizzazioni Philippe Zarifian - (L'emergere di un popolo-mondo. Appartenenza, singolarità e divenire collettivo, edizioni Ombre corte, traduzione di Gianfranco Morosato, pp. 197, L. . 24.000) - che si distacca dalle tematiche a lui più congeniali per addentrarsi nel merito di una questione spesso abbozzata negli ultimi anni nella sociologia delle migrazioni francese (si pensi ai lavori di Alain Tarrius e del gruppo di Migrinter), del costituirsi cioè di forme di cittadinanza mondiale "de facto", legate alla circolazione dei migranti e alla nascita di spazi transnazionali. Si tratta di ciò che l'autore definisce il profilarsi di un "popolo-mondo", e cioè l'emergere di un'appartenenza mondiale che poco o nulla ha da spartire con le vecchie forme di appartenenza nazionale o etnica. Il volume ha i suoi momenti più felici nella descrizione dei principali aspetti del farsi mondo dell'umanità che caratterizza l'epoca attuale. E' la pervasività degli spostamenti, l'uniformazione tendenziale degli stili di vita, la disintegrazione dei riferimenti delle identità locali a disegnare un orizzonte nuovo. La riflessione di Zarifian sulle ambivalenze tra il locale e il globale, tra il tempo mondializzato dalla circolazione dell'informazione e il tempo di vita umano, sfocia in un'ipotesi politica: la costruzione di una umanità nuova a partire da attori divisi e al contempo "meticciati", da individualità che entrano in rapporto. Una posizione che l'autore supporta con riferimenti filosofici alti, e che rimane sospesa a metà tra il cosmopolitismo affettivo e simpatetico del sofista Ippia, e quello "naturalistico" di Antifonte: se importante è l'idea di "parentela", di sym-pathia, di relazione tra gli uomini, che permette la caduta di vecchie appartenenze, decisiva è pura la questione della "giustizia naturale", dell'uguaglianza secondo natura. L'abbattimento delle frontiere è premessa e fattore indispensabile del ristabilimento di un ordine e di una eguaglianza animale, naturale, tra individualità libere. Ma il testo risulta poco convincente lì dove non evidenzia gli ostacoli (enormi) che a questa ipotesi del divenire-mondo dell'umanità ancora si frappongono. Si pensi al moltiplicarsi delle differenze che in questo planetarizzarsi e universalizzarsi dell'esperienza umana si riproducono, all'inasprirsi dei vincoli che alla circolazione libera delle persone vengono frapposti, alla nascita anche nei paesi più "avanzati" di forme di disuguaglianza che colpiscono chi fino a poco prima poteva ancora essere considerato come un eguale, al restringersi dei diritti, all'esclusione dai servizi di tutta una fetta di popolazione persino nella civile Europa, per non parlare degli Usa.
Secondo l'accezione più nobile del termine, si è cittadini del mondo quando si ha il senso di appartenere all'umanità intera, come ribadisce la grande tradizione stoico-cinica. L'uomo riconosce i suoi simili come tali al di là delle barriere di tipo sociale, culturale, politico e religioso. I questo senso "cosmopolitismo" appartiene al vocabolario essenziale del pathos politico, è concetto forte, gravato di una tensione utopica, prevede un salto, una modificazione delle coscienze che permetta all'estraneo, allo straniero di non essere più considerato tale. E' una prospettiva di ribaltamento violento, per cui non ci sono più né Barbari né Elleni. Certo l'epoca attuale può sembrare quella della più agevole diffusione di una mentalità cosmopolita in questo senso forte antico. Ma sono però proprio condizioni e modalità del procedere della globalizzazione quelle che rafforzano il pensiero localista e delineano una difficile congiuntura per le posizioni cosmopolite. Le difficoltà in cui versano le finanze statali costringono i governi a concentrarsi sulla difesa dei livelli di vita all'interno dei singoli stati e a pensare perciò l'economia e la politica in termini di stato nazionale, con la fissazione su categorie che esaltano proprio l'importanza di quei confini che l'avanzare dell'integrazione mondiale starebbe rendendo obsoleti. Quest'orientamento dei governi è inoltre supportato da una produzione culturale che riscopre il nazionalismo e che cerca di recuperare l'idea di appartenenza nazionale con accenti a volte grotteschi. E mentre si moltiplicano le opportunità in tutt'altra direzione gli individui vengono invece risospinti ad identificarsi con raggruppamenti di tipo etnico, sessuale, linguistico, razziale o religioso. Si gioca su paure vecchie e nuove per battere il tasto di identità, radici e origini. A livello dei singoli stati la cittadinanza diviene un bene che separa, discriminando, individui che convivono sullo stesso territorio.
Difficile non concordare con Zarifian sul fatto che il compito che ci sta davanti è quello di lavorare alla nascita di una nuova cultura politica nel mondo "globalizzato", al rilancio di movimenti che abbiano il compito di rivendicare delle forme il più allargate possibile di cittadinanza, di inventare delle appartenenze che lascino dietro di sé quelle ancorate al "sangue e alla terra", e che superino i limiti di legittimità degli stati, ma una cittadinanza mondiale o nascerà da un'epoca di rivoluzioni e di cambiamenti radicali o non si farà mai.
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