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Deleuze
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Una filosofia dell'evento
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Il manifesto - 28 lugio 1998
PRODURRE LA REALTA' CON LO SPLENDIDO ESERCIZIO DEL PENSIERO
Dalla critica dell'idea di fine allo spostamento del legame tra pensiero e verità.
Il percorso teorico di Deleuze nel commento non agiografico di François Zourabichvili
di JUDIT REVEL
C'è uno strano paradosso che colpisce la letteratura filosofica attuale: mentre non si è mai stati così sprovveduti di riflessioni forti, mentre la necessità di pensare un cambiamento epocale che sta violentemente spostando tutti i punti di riferimento - dall'apparato critico-filosofico alla lettura sociologica del mondo, dalle analisi economiche alla formulazione etica dei nostri smarrimenti - ci trova sempre più muti e impreparati, fioriscono quantità di commenti dedicati a quelli che dovremmo forse considerare - cosìci dicono le quarte di copertina - gli ultimi maestri di una modernità che non finisce mai di morire. Ora, che la scomparsa di Foucault, di Guattari, di Deleuze o di Lyotard abbia segnato un vuoto allo stesso tempo affettivo e intellettuale per un'intera generazione è piuttosto ovvio; ma non c'è dubbio che gli stessi Foucault, Guattari, Deleuze e Lyotard, al di là delle loro differenze, sarebbero stati orrificati da questa glorificazione postuma.
L'omologazione - cioè la riduzione e l'impoverimento - del pensiero passa spesso attraverso la creazione di categorie di quel tipo: "maestri" vengono chiamati ormai quelli che volevano soltanto essere delle scatole di attrezzi aperte; e le loro ricerche che si svolgevano ai margini del pensiero accademico e che rifiutavano le limitazioni disciplinari, hanno ormai l'obbligo di presentarsi come delle opere.
L'assurdità del paradosso, oltre a far ridere, non si limita a coinvolgere nos chers disparus, i nostri cari defunti: basti pensare per esempio che non si scrive più un libro su Derrida che non sia scritto alla maniera di Derrida, e che l'appiattimento attuale del commento filosofico è tale da esigere ambigue relazioni parentali (si è autorizzati a commentare un autore solo perché si è figli spirituali dell'autore) e effetti di mimetismo retorico invece di affrontare il difficile travaglio dei concetti.
L'omaggio si rovescia in apologia, il lavoro di comprensione diventa monumento funebre, i vivi sono già sepolti: la filosofia assomiglia alla necrologia, e l'entusiasmo critico scompare in un grande festino di metalinguaggi e di autoriferimenti. Da questo punto di vista Deleuze. Una filosofia dell'evento, il libro che François Zourabichvili dedica a Gilles Deleuze - un libro scritto nel 1994, quando Deleuze era ancora vivo -, e che esce oggi in italiano per i tipi di Ombre Corte, è più che un ottimo libro: è anche uno dei pochissimi commenti filosofici non agiografici che siano anche splendidi esercizi del pensiero. Riguardando Deleuze, non si poteva immaginare più bel omaggio: perché Deleuze stesso era riuscito a dare ai suoi commenti filosofici (si pensi ai lavori su Spinoza, su Bergson, su Leibniz, su Kant, o sullo stesso Foucault) la dignità di un filosofare in prima persona, e perché, come ricorda Zourabichvili, in quei libri "appare l'uso non convenzionale del discorso libero indiretto che caratterizzerà molti libri posteriori, prima di diventare esso stesso un tema: un modo di prestare la propria voce alla parola d'altri, che giunge a confondersi con il suo inverso - parlare per conto proprio prendendo a prestito la parola d'altri".
Cercare di pensare il percorso filosofico di Deleuze come la lente e complessa impostazione di una filosofia dell'evento consente allora di ripercorrere in modo non lineare - non era forse Deleuze che raccomandava di prendere le cose "par le milieu"? - tutti i nodi problematici articolati intorno al rifiuto di una filosofia concepita come filosofia della storia: dalla critica violenta dell'idea di fine (alla quale si contrappone, appunto, il concetto stesso d'evento) allo spostamento del legame tra pensiero e verità dall'attacco portato contro i dogmatismi all'affermazione della ricchezza del molteplice; dalla messa in causa del relativismo soggettivo all'elaborazione di uno statuto produttivo e assolutamente positivo per le stesse soggettività.
Forse, quello che più colpisce in queste pagine è la formidabile rivalutazione della posizione soggettiva: l'idea che l'argomento tradizionalmente opposto al pensiero francese del secondo dopoguerra (e in particolare a Foucault e Deleuze; ma basti pensare anche a una certa storiografia francese braudeliana o post-braudeliana), cioè il rischio di perdere ogni punto di riferimento e di dissolvere in una relatività abissale il concetto di verità, può benissimo essere capovolto in un meccanismo d'invenzione della verità a partire dal riconoscimento della posizione soggettiva - non più la relatività del vero ma la verità del relativo -, dando allora al molteplice, all'eterogeneo, al diverso, al differente, un ruolo fondamentale.
Una soggettività isolata è relativa. Due soggettività che confrontano il loro punto di vista creano dell'eterogeneo: ed è precisamente in questa dimensione dell'incrocio, del rapporto, della diversità che può nascere qualcosa come una verità una verità che fa evento, una verità che afferma la sua potenza d'invenzione e d'innovazione, una verità che è autoproduzione di sè a partire da una nuova individuazione del soggetto su fondo di differenza.
Un evento è scomodo: non assomiglia a niente di conosciuto, ed è precisamente la sua forza. Mentre la storia descrive ciò che è successo (Qu'est-ce qui s'est passé era il titolo dell'ottavo piano di Mille Piani), l'evento appare come il segno di ciò che non é successo, ne delimita lo spazio vuoto; ma così facendo, riempie già il vuoto, ne fa un pieno, produce, apre, rende possibile: afferma il flusso del divenire contro le tappe della storia. Una formula, ricorda Zourabichvili, torna spesso in Deleuze, ed è una frase presa in prestito ad Heidegger: "Non pensiamo ancora". Forse è in quel "non ancora" che si trova l'evento del pensiero di Gilles Deleuze, la sua potenza: perché lungi dal voler ottenere un posto nel pantheon dei maestri in nome di un "già pensato", il "non ancora" riafferma senza tregua la necessità di spostare in avanti, più fuori, il nostro legame con il mondo: un "non ancora" in forma di linea di fuga per una filosofia dell'evento in divenire perpetuo, dove ogni incontro, ogni incrocio, ogni piega è, di per sé, invenzione di verità, vale a dire di realtà.
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