Ilaria Possenti
Flessibilità
Politiche e retoriche di una condizione contemporanea
 
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Recensione di Teresa Di Martino

"La divisione patriarcale del lavoro si è basata, presso le classi lavoratrici moderne, non sull'assegnazione del lavoro domestico alla donna e del lavoro fuori casa all'uomo, ma sull'assegnazione alla donna di lavori flessibili, spesso giocati in un continuo 'vai-e-vieni' dentro e fuori casa, e all'uomo di lavori esterni maggiormente standardizzati" (p. 134). Inizio con quest'assunto a raccontare un libro - Flessibilità - che è un percorso, un percorso storico, sociale, filosofico e politico che mette in discussione, si interroga, smonta, propone. A partire dalla critica alla teoria baumaniana della modernità liquida come liberazione, dove al rischio e all'incertezza del postmoderno si accompagna - secondo Zigmunt Bauman - "un terreno fertile per la costruzione di una società più autonoma, basata sull'assunzione di responsabilità gli uni verso gli altri e sulla reciproca protezione" (p.34), in uno scambio tra sicurezza e libertà che sta alla base della saggezza postmoderna. L'incertezza che diventa fonte di libertà, il cambiamento come condizione permanente, la rinuncia ad una forma soggettiva per essere pieni cittadini della liquefazione del mondo. "Che ne sarebbe di noi se il nostro sé e il nostro mondo non prendessero mai una forma durevole, e cioè una forma rivedibile, di cui poter dubitare, ma in cui poter al tempo stesso confidare" (p. 39), si chiede l'autrice.
In altri termini, che fine fa il soggetto se alla crisi delle grandi narrazioni si accompagna la crescita di una società privatizzata il cui abitante ideale non è un animale sociale ma un animale che lavora, "tanto impegnato a produrre e consumare da non fare altro che divorare le cose con la stessa rapidità con cui le produce"? (p. 59).
Per dirla in termini arendtiani, nelle democrazie occidentali del secondo dopoguerra si valorizza al massimo l'animal laborans, marginalizzando l'homo faber - la cui opera rappresenta il momento creativo insito in un fare produttivo e sapiente - e lo zoon politikon - la cui azione rappresenta la dimensione comunicativa insita in ogni attività umana che si svolge sempre in un mondo comune. ?Se, nella teoria di Hannah Arendt, il soggetto è innanzitutto relazionale e diviene tale solo se la partecipazione tiene in vita uno spazio pubblico, negare quest'ultimo equivale a negare il soggetto.
E il soggetto - nell'era della flessibilità come dispositivo di libertà soggettiva - non è più il lavoratore fordista che abitava la sfera pubblica e il conflitto nei luoghi fisici del lavoro di fabbrica e in serie, ma è un lavoratore a tempo determinato o a progetto, senza spazi e tempi definiti, senza diritti e nessuna certezza, un lavoratore precario, dalla radice "*prek" del verbo pregare. "Si tratta di un termine, osserva Gallino, che rinvia alla possibilità di fare qualcosa solo 'in base a un'autorizzazione revocabile, poiché è stato ottenuto non già per diritto, bensì tramite una preghiera'. Nessun altro termine, da questo punto di vista, potrebbe rendere meglio l'idea della stretta connessione tra l'arretramento odierno della cittadinanza e il dispositivo di flessibilità. Una volta assoggettato a esigenze estranee e instabili, il lavoro si presta ogni giorno di più al lessico della concessione e della buona sorte, e sempre meno a quello della dignità dei soggetti; così, mentre il lavoro perde valore sociale e formativo, chi lavora arretra nel proprio status di cittadino" (p. 154).
Siamo di fronte ad un soggetto per niente nuovo alla storia sociale e politica, ma che acquista importanza e vigore perché coinvolge gli uomini. Le donne hanno sempre vissuto tale condizione di cittadine marginali di uno stato di diritto pensato sul lavoratore maschio, tanto che si parla di femminilizzazione del lavoro proprio quando, con il postfordismo, lavoro creativo e lavoro precario giungono a ibridarsi entro un unico dispositivo, dando vita a quel "mito seducente" che è riuscito ad incantare anche alcune scuole femministe degli anni Novanta. Oggi, con l'affermazione delle politiche neoliberiste, la "flessibilità" è diventata il modo di lavorare più richiesto non solo alle donne ma anche agli uomini, con costi elevati "non solo per i singoli, ma anche per la società nel suo insieme: il lavoro flessibile disperde i lavoratori e le lavoratrici rendendo estremamente complicati i processi di comunicazione, partecipazione e conflitto, intesi come percorsi di cittadinanza dentro e fuori i luoghi di lavoro" (p. 151).



L'Unità, 25 febbraio 2013

Perché il precario diventa Zelig L'analisi

di Luca Baccelli

l"Una brutta campagna elettorale", si è sentito dire da molti. In realtà qualche forza politica ha provato a parlare dei problemi e delle proposte per superarli, ma evidentemente il nostro sistema dell'informazione non ha superato la dipendenza dalla politica spettacolarizzata e personalizzata. Particolarmente grave che sia stata trascurata la condizione dei giovani, che si divide fra il 40% di disoccupati e i precari appesi alla scadenza dei contratti: hanno fatto più notizia le peregrinazioni di Pietro Ichino che il merito delle proposte di politica economica e sulla legislazione del lavoro. E colpisce anche che i protagonisti/ prime vittime non abbiano avuto voce, sia stato l'oscuramento dei media oppure una più o meno consapevole, lucida o disperata scelta del silenzio. Va in controtendenza la pubblicazione presso Ombre Corte di Flessibilità. Retoriche e politiche di una condizione contemporanea. Perché l'autrice, Ilaria Possenti, è una ricercatrice precaria e dichiara esplicitamente che la riflessione parte dalla sua condizione e dalle discussioni con i colleghi "flessibili" loro malgrado. E soprattutto perché guadagna un punto di vista radicalmente innovativo. Da tempo ci siamo abituati a distinguere fra una flessibilità "buona" e una precarietà "cattiva". Il pensiero unico liberista ha annunciato le magnifiche sorti e progressive della deregulation nel diritto del lavoro, fino al capolavoro sacconiano dell'art. 8 del D.L. 138/2011. Nelle politiche europee del lavoro non si parla di diritto al lavoro ma di "occupabilità" e di competizione dei lavoratori sul mercato e la tesi non dimostrata che l'occupazione aumenterebbe se diminuissero le tutele di stabilità del posto di lavoro viene assunta come un dogma. Da parte progressista si è risposto sostenendo che una maggiore flessibilità deve essere accompagnata da un rafforzamento nella tutela dei diritti universali e dalla riforma degli ammortizzatori sociali, sulla via della flexicurity. Ma non solo: la flessibilità è stata vista anche come un'opportunità che a determinate condizioni può arricchire l'esperienza individuale. Zygmunt Bauman un autore non sospettabile di neoliberismo e attento alle human consequences della globalizzazione ha enfatizzato la libertà di sperimentare il cambiamento aperta ai giovani postmoderni. Li ha esortati a "evitare ogni fissazione", a "sbarazzarsi di vecchie abitudini" senza "preoccuparsi di costruire modelli". Se la disastrosa insicurezza personale fosse scongiurata attraverso forme di protezione sociale, come il reddito minimo garantito, l'incertezza si rivelerebbe una condizione benefica ed emancipatrice. In effetti la retorica della flessibilità ha contagiato profondamente la riflessione sulla formazione, nonostante l'enfasi sulla "società della conoscenza". Dagli anni novanta rapporti, libri bianchi e verdi, raccomandazioni e documenti normativi dell'Ue raccomandano un lifelong learning che si risolve in offerte formative a "pacchetti", funzionali all' "adattabilità" dei lavoratori alle esigenze produttive. La generazione dei 30-40enni ha imparato come questo si traduca nella concreta esperienza quotidiana: reddito ai limiti della povertà, inaccessibilità del credito, impossibilità di progettare un futuro. E il lavoro flessibile si dimostra estraniato quanto e più di quello fordista, mentre si elaborano nuove forme di sfruttamento. Ma Possenti dice qualcosa di più: il "dispositivo" della flessibilità mette a repentaglio la possibilità stessa di divenire soggetti consapevoli, capaci di orientarsi nella complessità del mondo e di agire consapevolmente nella società. Il punto è che non si deve confondere la flessibilità con quello che in pedagogia si chiama "plasticità". La flessibilità postmoderna non solo è contrabbandata per plasticità, ma in realtà mette a repentaglio la plasticità e così inibisce la formazione del carattere. Le mansioni dei lavoratori flessibili cambiano continuamente, ma tale cambiamento si risolve nell'adattamento a differenti routines, non permette di apprendere a fare una cosa in modo migliore, di "lavorare sul cambiamento". E l'esposizione a continue interruzioni del processo lavorativo produce "ferite dell'esistenza" e "perdita di futuro" che si risolvono in fragilità del sé, mentre il destino dei lavoratori flessibili sembra quello di eterni apprendisti. Se il protagonista di Tempi moderni di Charlie Chaplin ha rappresentato l'icona del lavoratore taylorista e del cittadino fordista, lo Zelig di Woody Allen rischia di impersonare l'uomo flessibile postmoderno: tanto capace di adattarsi ad ogni situazione da essere incapace di sviluppare un proprio carattere. Questo non riguarda esclusivamente i giovani precari, perché la flessibilità "non mina solo le basi materiali e sociali, ma mina anche le basi cognitive e formative della cittadinanza". E dunque "può liberare l'economia di mercato dall'intralcio di una democrazia sostanziale, che ha bisogno del nostro divenire soggetti nello spazio dell'interazione sociale". Vale la pena di rifletterci.






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