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Marco Baldassari e Diego Melegari
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Populismo e democrazia radicale
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In dialogo con Ernesto Laclau
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Alfabeta 2, n. 28, aprile 2013
Populismo senza popolo.
Intorno a Ernesto Laclau
di Emanuela Fornari
Popolo o populismo? O, a segnare uno scacco ormai consumato, un populismo senza popolo? Intorno a questi interrogativi ruota Populismo e democrazia radicale. Volume che si proietta direttamente sull'attualità, a partire da due prese d'atto inaggirabili che vanno con e oltre Laclau: lo scarto tra il rilancio di una categoria "inattuale" quale quella di popolo e una politica sempre
più asservita alla logica dominante del mercato; e il concomitante emergere di insorgenze
e mobilitazioni che proprio alla ricostruzione di un immaginario "popolare" paiono oggi rimandare.
Non pochi sono i nodi presi di petto nel volume: dalla questione dello Stato al tema del - l'organizzazione, dal nesso rappresentanza/rappresentazione al rapporto con il marxismo.
Fino a quell'eccesso che sin dall'inizio dell'età moderna residua dall'"ideale" di una compatta
identità popolare: eccesso che fa segno a termini come massa, moltitudine o popolazione.
Tenendo sullo sfondo non l'ipotesi bensì l'esperienza di "costruzioni del popolo" passivizzanti:
populismi di "popoli agonizzanti" che fuoriescono in maniera plateale dall'impianto
allestito dal pensatore argentino. Meritoriamente il volume si apre con un'intervista allo stesso Laclau: dove alcuni degli interrogativi sollevati nei saggi trovano una parziale risposta. Laclau rivendica infatti la sostanziale continuità del proprio percorso teorico, all'insegna di un crescente venir meno della centralità ontologica della classe come agente del cambiamento, in favore di
un'analisi centrata su quella costitutiva eterogeneità del sociale che ne impedisce qualsiasi
ricomposizione al di fuori di pratiche articolatorie eminentemente politiche. Se la "società" cessa di essere una totalità strutturata, divenendo piuttosto una "pienezza assente", i suoi soggetti sono allo stesso modo scissi: solcati da una negatività che restituisce unicamente processi di identificazione fragili, contingenti. Che, sul piano politico, prendono letteralmente "corpo" attraverso la relazione
tra una logica differenziale (una dispersione delle domande rivolte al potere) e una logica
equivalenziale che (allineando le domande attorno a "significanti vuoti") costruisce ogni
volta di nuovo una frontiera antagonistica tra "popolo" e istituzioni. Frontiera che per Laclau diviene il nome stesso dell'antagonismo, l'unico nome del sociale quale spazio costitutivamente
interrotto: non suturabile. In senso proprio, irrappresentabile.
Ma è bene costruire un rapido contrappunto tra l'intervista e i diversi saggi che com - pongono il volume. Perché, se è vero che per Laclau la politica è "costruzione di popolo" il popolo, per converso, un costrutto discorsivo, egli non fa in questo modo che collocarsi in quella tradizione prettamente moderna che vede il "popolo" emergere come nozione eminentemente performativa: una nozione che descrivendo evoca e si rappresenta in Uno in forza di quel dispositivo di "autorizzazione" magistralmente descritto da Hobbes nel Leviatano (Preterossi).
Certo, "popolo" è anche nome di un "resto", plebs, mob, populace, a dimostrazione che il popolo affiora contemporaneamente alla sua mise en absence (Chignola). Ciò non toglie, tuttavia, che la semantica del "popolo" sia in tutto e per tutto solidale con quella logica della rappresentazione
che della modernità politica segna l'avvio e della stessa l'attuale, e consumata, crisi (Bazzicalupo).
Qui riposa uno dei nuclei duri dell'ontologia politica di Laclau, rivisitato con le armi della psicoanalisi, e dunque radicalmente destrutturato nella sua matrice apparentemente protomoderna. Nucleo che presta il fianco a una delle critiche più ricorrenti, per parte marxista, che ha a che vedere con l'indeterminazione dimostrata da Laclau rispetto alla questione dell'organizzazione politica (Melegari, Capoccetti, Romitelli). In questo caso la "vaghezza" che il filosofo argentino ritiene essere carattere ontologicamente positivo del significante "populismo", diverrebbe vaghezza
argomentativa: incapace di andare al di là di una presa d'atto dell'esaurimento delle pretese
epistemologiche e politiche della formapartito, accompagnata a un costante rimando alla forma-Stato come referente fantasmatico del "costrutto" popolo (Palano, Frosini, Brighenti, Mezzadra). Fin qui una faglia del dibattito che si snoda lungo il volume. Una seconda traiettoria si
concentra invece su altre grandi rimozioni riscontrabili nella trama teorica di Laclau, che
hanno a che vedere con l'assetto neoliberale (foucaultianamente governamentale) delle società
contemporanee. Tacciare Foucault di sociologismo, come Laclau sembra fare nell'intervista,
appare infatti - alla luce della costellazione contemporanea - un'accusa d'antan e ben poco mirata nel suo bersaglio. Soprattutto là dove omette quell'altra faccia del popolo - la popolazione - che ha a che vedere con un disciplinamento dei corpi che è al tempo stesso un loro potenziamento economico (Borrelli), con una disciplina del desi derio e dell'immaginario che fa tutt'uno con un "popolazionismo consumista" (Bottazzi) che occulta e naturalizza il vero grande rimosso delle analisi laclausiane: quel capitalismo neoliberale che del discorso, e dell'equivalenza, ha fatto il proprio punto di leva (Calzolari, Chiesa).
Sintomatiche, da questo punto di vista, le analisi che Laclau dedica al "caso italiano": nella misura in cui paiono non cogliere le nuove forme del populismo contemporaneo (Leonardi, Dominijanni). Un populismo proteiforme, che sia nella sua forma tecnocratica diretta all'"uomo indebitato" o nelle sempre rinnovate versioni massmediatiche e plebiscitarie.
Sfasatura, questa, che pare avvenire sulla scia di una riduzione dei soggetti alla loro mera individuazione linguistica. Di una riconduzione dell'ontologia (politica) a discorso. Vale a dire sulla scia di una rimozione massiva dei corpi e di quell'immaginario che ne costituisce al tempo stesso la proiezione e l'ombra. Tanto dice Laclau ridefinendo la logica egemonica sulla scorta della logica lacaniana del desiderio: una logica che funziona attraverso "investimenti radicali", investimenti
libidici diretti a oggetti parziali che si totalizzano divenendo significanti vuoti (il seno
della madre, la libertà…). E se è vero che la traiettoria laclausiana non può essere ricompresa
nell'orbita del moderno, altrettanto vero è che qui il desiderio appare de-soggettivato.
Privato della sua potenza di soggettivazione. E delle torsioni che questa potenza può subire là dove vessata da un immaginario che del "godimento" o, per altri versi, del "risentimento" fa un veicolo di de-soggettivazione.
In tempi di "populismo postedipico", dove saltano le traiettorie prestabilite della differenza (sessuale in primo luogo), la logica egemonica laclausiana rischia così di sfociare in una sorta di "isteria dell'antagonismo", di grumo nevrotico incapace di cogliere la conformazione
"psicotica" di una società che si regge su relazioni speculari, o equivalenziali (Tarizzo). E soprattutto, aggirando il grande nodo dell'immaginario neoliberale, rischia di
mancare quella "disillusione democratica" (Dominijanni) che segue alla disillusione socialista, e per la quale non è sufficiente "aggettivare" il nome democrazia, inseguendo una "democrazia radicale" sulle tracce e nel nome del "popolo", ma che domanda una critica - questa volta sì radicale - alla stessa democrazia, interrogandone senza timore le possibilità di sopravvivenza e spingendosi sul bordo di una sua reinvenzione.
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