Jacques Sapir
Bisogna uscire dall'euro?
 
il manifesto - 22 maggio 2012

Il bilancio in rosso di un continente

di Christian Marazzi

L'economista Jacques Sapir risponde positivamente al provocatorio titolo del suo ultimo saggio «Bisogna uscire dall'euro?» e denuncia i rapporti di forza a favore dell'economia tedesca presenti nell'Unione Europea

Le elezioni francesi e greche hanno aggiunto nuovi fattori di instabilità ad una Unione monetaria europea già economicamente e socialmente insostenibile. D'ora in poi l'alternativa si riduce a questo: o i Paesi forti dell'Europa accettano di finanziare i Paesi deboli o di garantirne i debiti, oppure la spaccatura dell'euro diventa inevitabile. In entrambi i casi è in gioco la definizione del piano della sovranità, della possibilità o meno di governare l'uscita dalla crisi con politiche di crescita declinate su scala nazionale o sovranazionale. In mezzo ci sta l'euro, la sua architettura, la sua «natura». Analizzarla criticamente, come ha fatto Jacques Sapir nel suo Bisogna uscire dall'euro? (ombre corte, pp. 158, euro 16) diventa sempre più urgente, specie a fronte della falsa idea secondo cui la spaccatura dell'euro significherebbe la fine dell'Europa, della sua stessa possibilità. Diciamo subito, prima di entrare nel merito delle tesi di Sapir, che l'idea di un Patto per la crescita lanciata dal presidente della Bce, Mario Draghi, per rabbonire François Hollande, così come l'idea di un Piano Marshall di 200 miliardi di euro consistente in investimenti infrastrutturali finanziati da una «Banca Europea per gli Investimenti» (Bei), per non parlare dell'idea di rinviare di un anno gli obiettivi di risanamento dei conti dei Paesi in difficoltà, non hanno alcuna possibilità di frenare la caduta in recessione sempre più grave di Paesi come l'Italia o la Spagna. Il patto per la crescita proposto da Draghi non è nient'altro che una proposta di riforme tese a liberalizzare ulteriormente il mercato del lavoro per accrescere la competitività delle economie europee, mentre il Piano Marshall europeo consisterebbe nell'apertura di cantieri infrastrutturali per rilanciare «keynesianamente» la crescita. In entrambi i casi si tratta di misure di medio e lungo termine che nulla possono contro il precipitare della situazione, in particolare l'aumento dei debiti pubblici indotto dalla recessione e la conseguente necessità di proseguire con altre misure di austerità. Dicendo subito no alla domanda di fine dell'austerità uscita dalle urne francesi e greche, il governo della signora Merkel ha di fatto vanificato qualsiasi «Patto per la crescita», dato che in tal caso la Germania sarebbe sicuramente chiamata a farsi di nuovo carico dei debiti dei Paesi deboli (ha già speso oltre 200 miliardi per salvare l'euro).

Il peccato originale

E allora, che fare? Chiedere alla Bce di monetizzare direttamente i debiti pubblici dei Paesi deboli? Lanciare gli eurobond per mutualizzare gli stessi debiti dei Paesi dell'eurozona? Trasformare l'Unione europea in una Transfer Union nel nome del federalismo europeo? Mettersi a spendere all'interno dei singoli Stati, salvo poi farsi bastonare dai mercati finanziari? Continuare, come sicuramente faranno, con la politica dei cerotti per cercare di guadagnare tempo, ma a costi sempre più elevati e correndo il rischio che la situazione scappi di mano? È a questo punto che l'analisi dell'economista francese - è ricercatore presso l'« Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales» e animatore del «Centre d'Etude des Modes d'Industrialisation» - Jacques Sapir si rivela particolarmente preziosa. In primo luogo, Sapir dimostra come l'euro sia stato concepito sin dall'inizio come una moneta del tutto funzionale agli interessi economici tedeschi e come questo sia stato possibile grazie ad una serie di precauzioni di ordine costituzionale che a tutt'oggi restringono qualsiasi margine di manovra economico-monetaria. Il «compromesso originale» iscritto nel Trattato di Maastricht del 1993 assicura infatti alla Germania il diritto d'accesso senza restrizioni (tariffarie o monetarie) dei prodotti tedeschi ai principali mercati dei paesi vicini, e questo in cambio di un allineamento verso il basso dei tassi d'interesse. «In altre parole, se la Germania otteneva un libero accesso ai mercati dei suoi vicini, in cambio offriva loro la possibilità di indebitarsi a buon mercato per ... acquistare i prodotti tedeschi!». D'altra parte, il Tribunale costituzionale di Karlsruhe precisa, sin dalla ratifica del Trattato di Maastricht, che il passaggio alla moneta unica deve avvenire nel quadro di una comunità di stabilità monetaria (che diventa il fondamento della legge tedesca), il che esclude sia la monetizzazione diretta dei debiti sovrani da parte della Bce, sia la creazione degli eurobond tanto di moda di questi tempi. Nel primo caso, come si è visto in occasione della «Long Term Refinancing Operation» che ha visto la Bce iniettare mille miliardi di euro nelle banche commerciali per acquistare obbligazioni pubbliche e così ridurre temporaneamente gli spreads di Italia e Spagna, l'obiettivo della stabilità non solo ha rivelato quanto poco la Bce sia una banca centrale (è, di fatto, una banca privata), ma anche come tale operazione sia stata di breve durata e del tutto inefficace. Per quanto riguarda gli eurobond, va detto che la mutualizzazione dei debiti sovrani non comporterebbe necessariamente una forte riduzione dei tassi d'interesse a vantaggio dei paesi indebitati (i mercati finanziari non ragionano in termini di medie, bensì di rischi!), ma certamente aumenterebbe quelli tedeschi, il che spiega il deciso rifuto degli eurobonds da parte del Governo tedesco.

Il pieno impiego precario

Ma il punto decisivo dell'analisi di Sapir è quello che dimostra quanto la costruzione monetaria europea sulla falsariga della teoria neoclassica della moneta (di una moneta-velo che in regime di mobilità perfetta dei capitali esclude la necessità di una politica monetaria nazionale) non sia tanto il frutto dell'ideologia dell'austerità, quanto il riflesso di un vincolo demografico strutturale interno alla Germania. La «responsabilità di bilancio» di ogni singolo Stato membro, che è la negazione di un bilancio comune europeo, ha sempre avuto quale obiettivo quello di evitare ogni prelievo esterno del risparmio accumulato e capitalizzato all'interno di un paese che già alla fine degli anni Ottanta conosce un forte calo demografico e che si trova così confrontato con il problema del pagamento delle pensioni. Bisognava insomma mettere in sicurezza il valore patrimoniale di ciò che i tedeschi avrebbero dovuto risparmiare. «A tal fine, i governanti della Germania non videro mezzo migliore di quello di piegarsi ancora di più alla logica dei mercati finanziari». È evidente che la «Transfer Union», l'unione di trasferimento del risparmio dalla Germania ai paesi in difficoltà, è impensabile all'interno di questi vincoli strutturali, con buona pace dell'ipotesi federalista e dei suoi sostenitori. La moneta unica è quindi intimamente legata ad un «modello tedesco» in cui la capitalizzazione del risparmio, le contro-riforme del mercato del lavoro (Hartz IV) del Governo rosso-verde dei primi anni 2000, che hanno generato un «pieno impiego precario» fatto di bassi salari e di austerità assistenziale, la forte specializzazione delle industrie d'esportazione, per la quale era e resta necessaria l'impossibilità di ricorrere alla svalutazione monetaria da parte dei Paesi membri concorrenti, hanno trasformato l'euro in un veicolo di approfondimento degli squilibri interni all'area europea. L'unificazione monetaria non ha affatto prodotto un'unificazione dei meccanismi economici dei diversi paesi, anzi le bilance commerciali non hanno smesso di divaricarsi, consolidando a tal punto l'asimmetria tra paesi esportatori e paesi importatori che neppure un aumento della domanda interna alla Germania, come il ministro delle finanze Schäuble sembra oggi riconoscere come «auspicabile», permetterebbe alla Germania di fungere da locomotiva dell'economia europea.

L'equivalente universale del nemico

A ciò si aggiunga il fatto, come ricorda l'economista Sergio Rossi, che malgrado le apparenze, in realtà i paesi che formano la zona euro hanno dei sistemi di pagamento separati (chiamato «Target 2») in quanto manca un meccanismo attraverso cui garantire che le importazioni di qualsiasi genere siano pagate realmente e non solo nominalmente. Nonostante abbiano tutte lo stesso nome e che i governi nazionali abbiano ceduto la loro sovranità monetaria alla Bce, i paesi membri continuano di fatto ad avere delle monete eterogenee. Manca cioè una moneta sovranazionale (un «eurobancor», se si vuole) che funzioni da reale veicolo di poteri d'acquisto tra paesi che hanno relazioni di scambio. Ciò comporta l'accumulo di posizioni creditizie da parte della Germania (oltre 500 miliardi di euro) che nel caso di una dissoluzione della zona euro o del fallimento di uno Stato «periferico», comporterebbe una perdita monumentale, a maggior ragione se si persiste con l'attuale sistema dei pagamenti interni alla Unione europea «In effetti - scrive Sapir - ci si può chiedere se il calcolo fatto dai governanti di Berlino, ossia che il mantenimento dell'eurozona costa loro più caro del suo scioglimento, non sia una buona scusa per porvi fine, o almeno per provocare una grave crisi al fine di riconfigurarla secondo i loro desideri, vale a dire senza i Paesi "a rischio"». Bisogna quindi uscire dall'euro? Secondo Sapir sì, in tutti i casi bisogna uscire da questo euro, perché non si lotta contro il capitalismo finanziario senza lottare contro la sua espressione monetaria, ossia contro l'euro. L'idea è quella di passare dalla moneta unica alla moneta comune , che secondo Sapir dovrebbe essere un sistema monetario basato sulle monete nazionali, tra loro legate da parità fisse ma aggiustabili, al quale si aggiunge una moneta sovranazionale che garantisce tutte le transazioni commerciali e finanziarie con i paesi «fuori zona», ciò che implica anche un accordo collettivo sulle limitazioni dei movimenti di capitali e delle operazioni di mercato. Comunque la si valuti, la questione della moneta comune è posta, bisogna lavorare per articolarla su scala sovranazionale, partendo da quel «comune» che sta alla base della nostra Europa.









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