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Oltre il pubblico e il privato
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Per un diritto dei beni comuni
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Altramente.info
di Roberto Musacchio
Oltre il pubblico e il privato è il titolo di un bel libro collettaneo curato da Maria Rosaria Marella, ordinaria di Diritto privato all'Università di Perugia. Per un diritto dei beni comuni è il sottotitolo. Parto da qui per presentarlo in quanto proprio sul titolo si sviluppa una discussione interna al volume stesso che raccoglie i materiali di 4 seminari organizzati dalla facoltà giuridica di Perugia.
La discussione, proposta da uno degli autori dei saggi, riguarda proprio il rapporto tra beni comuni e pubblico. Che i beni comuni non siano precisamente la riedizione del pubblico è questione che emerge con ricchezza di argomentazioni dai tanti contributi che il libro raccoglie risultando perciò prezioso e immancabile.
D'altronde se i beni comuni sono diventati punto di riferimento di un pensiero e di una pratica che si diffondono sempre più è perché contengono elementi decisivi per reagire al riduzionismo mercificatorio e tecnocratico di questa fase del capitalismo finanzia rizzato e di questa Europa. Il volume in questo senso è una vera e propria miniera di materiali, riflessioni, esperienze e punti di vista.
Spazia dalla filosofia alla giurisprudenza, dall'urbanistica al lavoro articolandosi in 4 grandi temi che riguardano i beni comuni e la proprietà individuale, l'esplosione dei beni comuni dall'acqua all'immateriale, lo spazio urbano come commons e il lavoro come bene comune? dove il punto interrogativo è l'elemento centrale della riflessione.
Il tutto aperto da una introduzione della curatrice e da una postfazione di Stefano Rodotà. Un libro complesso, articolato, ricco, frutto di una pratica che valorizza l'Università come bene comune. Dei beni comuni, o del bene comune, la discussione è aperta, c'è bisogno in un'epoca in cui la privatizzazione e la mercificazione attraversano tutto, il pubblico come il privato.
Un privato che non è neanche più proprietà di qualcuno ma ormai dimensione alienata alla potestà di un potere sempre più predatorio. E un pubblico che viene non solo privatizzato nella natura giuridica ma anch'esso posto al servizio del medesimo potere totalizzante. Di contro la nuova consapevolezza di genere e di specie può consentire una dimensione nuova dello stesso approccio pubblico dotandolo di senso, di democrazia, di riproducibilità e di attenzione alle differenze.
Altramente consiglia vivamente la lettura di questo testo edito da Ombre Corte al prezzo di 25 euro per 335 pagine.
La furia dei cervelli
Oltre il pubblico e il privato: le istituzioni dell'autogoverno
di Giuseppe Allegri
Il volume curato e introdotto da Maria Rosaria Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, con postfazione di Stefano Rodotà (Ombre Corte, Verona, 2012, pp. 335, 25), è un esempio formidabile di come una comunità plurale, interdisciplinare e intergenerazionale di studiose, ricercatori e intellettuali indipendenti, sapientemente guidati da una curatrice - che è anche anima e coordinatrice di seminari, incontri, convegni, assemblee, discussioni - riesca a restituire tutta la complessità e ricchezza del dibattito intorno alle possibili vie di un "diritto dei beni comuni", evitando scorciatoie semplicistiche e/o le vuote ripetizioni di stanchi ritornelli, che sembrano diventare mainstream.
L'intera ricerca è articolata in quattro sezioni, che vanno dalle "ideologie e genealogie dei beni comuni", all'esplosione culturale, politica e sociale dei beni comuni - dall'acqua all'immateriale - per attraversare lo "spazio urbano come commons" e chiudere su un'equivalenza sospesa su di un punto interrogativo "lavoro=bene comune?". Interrogativo al quale chiariamo immediatamente che ci sentiamo di rispondere con le considerazioni finali dell'intervento di Adalgiso Amendola (Il lavoro è un bene comune?, pp. 258-276): "il lavoro non è un bene comune da difendere, ma uno spazio di conflitti per il comune", declinato al singolare e inteso come "continua produzione di soggettività", dimostrazione del diffondersi della "produzione contemporanea sull'intero spazio sociale e su tutto il tempo di vita", che incide "sul piano delle trasformazioni dell'ordine politico", evidenziando "il deperimento della tradizionale architettura pubblico/privato".
Bastano queste poche note per esplicitare quanto gli studi raccolti da Marella non si assestino su una semplicistica e olistica digressione intorno a una concezione vasta e indistinta di beni comuni, ma aggrediscano le possibili connessioni costituenti tra i movimenti dell'autorganizzazione sociale, che mettono in tensione gli statuti proprietari predatori esistenti (che siano della rendita privata, piuttosto che della burocratica corruzione dell'amministrazione statuale), e le trasformazioni di un pensiero giuridico, filosofico, politico che accetta la sfida di non rimpiangere, malinconicamente, il mondo (poco) incantato di ieri, ma si attrezza per pensare e praticare altrimenti il presente.
Per questo tra i molti e irriducibili sentieri di lettura ci piace individuare quello che in modo più potente ragiona sul come pensare e praticare regole di condotta e comportamento che possano essere, non solo condivise, ma permanentemente aperte a meccanismi di autotrasformazione collettiva nel divenire diritto del comune. E in questo sottile filo rosso non c'è tanto l'aspirazione a leggere in modo progressivo alcuni precetti costituzionali.
Una tendenza che invero ci porterebbe a un'interpretazione a ritroso della nostra Assemblea Costituente, con faticose disamine delle intenzioni di Amintore Fanfani, piuttosto che di Paolo Emilio Taviani nei lavoratori preparatori intorno all'art. 43 Cost., nonché alla sua successiva attuazione politica - e mentre scrivo mi rendo conto di essere davvero vecchio, poiché oramai quasi nessuno immagina neanche lontanamente l'aurea che c'è dietro questi nomi sconosciuti, o dimenticati, ai più!, quanto la possibilità di interrogare i modi di produzione di un inedito diritto comune, a partire dalla creazione di nuove istituzioni, e non dal "momento sovrano" delle fonti del diritto, piuttosto che dell'accordo tra privati, riducibile nel contratto. Perché l'invenzione istituzionale è il contrario di pensare il diritto dentro le gabbie sacrificali del rapporto tra comando e obbedienza, tra servitù volontaria e condanna alla subordinazione.
È l'intuizione di Gilles Deleuze, che percepiva dei movimenti - nelle istituzioni - che non si possono identificare né con la legge (le fonti del diritto pubblico), né con il contratto (rapporto tra privati, nel diritto civile). Così il bell'intervento di Luca Nivarra (Alcune riflessioni sul rapporto tra pubblico e comune, pp. 69-87), ruota intorno a questa assai condivisibile affermazione:
"Si tratta, in altri termini, di immaginare assetti istituzionali e regole operative nei quali trovino espressione e si rispecchino i bisogni e gli interessi non del popolo sovrano o del consumatore sovrano (travolti, l'uno dal declino dello Stato, l'altro dal virulento esplodere della irrazionalità dell'economia politica capitalistica), ma di coloro per i quali la sorte dei commons risulti davvero cruciale. Dunque, comunità di utilizzatori del "comune" anche significativamente estese (si rammenti l'ottavo principio progettuale della Ostrom), ma protette da un sistema di autogoverno efficiente delle risorsa che le metta al riparo dalle pulsioni predatorie e parimenti distruttive tanto del "pubblico", quanto del "privato", ai quali, semmai, in questa ottica centrata sull'autogoverno degli utilizzatori, potrebbe chiedersi di cooperare nei modi volta per volta ritenuti più opportuni" (p. 86).
Perdonerete l'ampia citazione, ma in questo passaggio viene sapientemente esplicitata l'urgenza di pensare e creare degli assetti istituzionali e delle regole di condotta per far sì che la dimensione dell'autogoverno collettivo sia l'utopia concreta di nuove forme del vivere associato e di tutela, affermazione e valorizzazione dei commons.
Evidentemente questa consapevolezza è anche un modo - indiretto - per rispondere alle critiche di chi intravede in un certo discorso intorno ai beni comuni il rischio di "soddisfare i bisogni dei semplificatori e degli antipolitici irriflessivi", insistendo su di un'alternativa che ha il pericoloso sapore di presentarsi come una "proposta chiaramente populista", secondo la cruda analisi di Carlo Donolo, Qualche chiarimento in tema di beni comuni.
In questo senso la sfida di pensare ai movimenti della società che si autorganizza come nuove istituzioni nascenti dell'autogoverno comune diviene un modo per far sì che "la condivisione collettiva di una cultura delle regole e di cooperazione, sia sociale che interistituzionale" (ancora Carlo Donolo), non sia da intendersi come un semplice "ritorno all'ordine istituzionale", quanto una possibile tensione costituente tra "passaggi riformisti" e affermazione dal basso di nuove domande di giustizia, in cui lo spazio metropolitano diviene la dimensione dove la "relazione tra pubblico e privato sembra completamente ricreata non più in termini oppositivi, ma in termini di godimento comune delle singolarità" (per riprendere l'assai condivisibile recensione al volume fatta da Toni Negri, Il recinto dei beni comuni, in il manifesto, 14 aprile 2012).
Sembra essere questa la scommessa all'ordine del giorno di quei sapienti movimenti sociali che da Roma a Palermo, da Catania a Milano, da Napoli a Venezia si pongono l'urgenza di creazione dal basso di nuove istituzioni dell'autogoverno sociale, con la consapevolezza di far saltare i vecchi e falsi steccati tra riformismo, conservazione e rivoluzione, soprattutto tra le mentalità che ancora li leggono secondo quei paradigmi.
Perché come dice un sempreverde slogan del quale non ricordo la fonte: si auspica sempre la formazione di un qualche ordine, per far sì che alla sua ombra si possa contribuire a far nascere una nuova eresia...
"Micropolis. Mensile umbro di politica, economia e curltura", maggio 2012 - Anno XVII - numero 5
Intervista a Maria Rosaria Marella
Beni comuni: diritto e pratiche di lotta
di Alessandra Caraffa
E' stato da poco pubblicato il volume Oltre il pubblico e il privato. Per un
diritto dei beni comuni (Ombre corte). Il testo, che vuole individuare gli strumenti
che il diritto offre a difesa dei cosiddetti beni comuni, è il prodotto di
una serie di seminari tenuti lo scorso anno all'Università degli Studi di
Perugia dalla curatrice del volume, Maria Rosaria Marella, ordinaria di
Diritto privato presso lo stesso ateneo. Si propone una rielaborazione in senso
multidisciplinare della nozione di commons che - seppure in divenire - è già in
grado di segnare una svolta significativa nel dibattito sulla questione dei beni
comuni, che si impone con forza sempre crescente nell'agenda politica dei
movimenti.
Centro dell'argomentazione è il
superamento della dicotomia pubblico/
privato; si legge nell'introduzione
"l'enfasi sul comune [...] non è l'auspicio
di un ritorno al pubblico ai danni
del privato, ma piuttosto la tensione verso
un'alternativa in termini sociali, economici
ed istituzionali, che si ponga oltre la contrapposizione
pubblico/privato". Che cosa
significa commons, nel momento in cui il
concetto di comune supera quello di pubblico?
Comune è ciò che viene prodotto collettivamente.
Rispetto a questo, pubblico e privato
sono equivalenti funzionali, poiché entrambi
spossessano la collettività del "comune",
cioè del prodotto della cooperazione sociale.
Il pubblico fa questo in nome dell'interesse
generale ed in questo senso differisce certamente
dal privato, che persegue il proprio
fine individuale. Ma ciò non vale ad assimilare
il pubblico al comune, né rende il pubblico
garante del comune. Tralasciando lo
screditamento che connota oggi l'azione
pubblica in questo paese, per via della crisi
morale che attraversa il ceto politico-amministrativo
nazionale e locale, l'emersione del
discorso sui beni comuni mette in luce una
tensione fra pubblico e comune dovuta
anche ad alcuni dati storico-giuridici strutturali.
Ne metto in luce tre: 1) nella modernità,
l'esclusione definitiva delle comunità
dalla gestione delle risorse comuni, dopo che
il primo movimento delle enclosures aveva
portato alla privatizzazione di gran parte di
esse, è dovuta proprio all'azione dello Stato,
che si erige a unico interprete dell'interesse
generale e di ogni politica redistributiva trasformando
in pubblico ciò che resta del
comune; 2) con ciò lo Stato provvede alle
esigenze primarie dei cittadini predisponendo
dei servizi pubblici che programma e
gestisce nell'esercizio della propria sovranità,
nell'ambito di un rapporto in cui il cittadino
è suddito; 3) ora quella stessa sovranità
appare ridimensionata dalle dinamiche che
segnano l'attuale fase di globalizzazione economica
e giuridica: gli stati obbediscono alle
politiche decise da organismi transnazionali
come la World Bank o il Fondo Monetario
Internazionale e non si fanno più carico
autonomamente di progetti di equità sociale.
L'esito è quello di realizzare, di concerto
con le istituzioni della globalizzazione,
nuove forme di spossessamento del comune
su scala planetaria: il land grabbing (l'accaparramento
di vaste aree agricole nei paesi in
via di sviluppo da parte di governi e aziende
multinazionali) ne è un esempio lampante.
Da più parti si parla di beni comuni, riferendo
l'espressione ad una vastità di fenomeni
tale da indurre ad una certa confusione:
le risorse naturali, la democrazia, il
genoma, il lavoro sono stati definiti beni
comuni. La costruzione di uno statuto giuridico
del comune, laddove il commons sia
individuato come qualcosa di "necessario
alla realizzazione dei diritti fondamentali
degli individui", può essere uno strumento
utile nella delimitazione concettuale di uno
spettro tanto ampio di significati?
Il giurista distingue e classifica. Ed elabora
un linguaggio tecnico volto a garantire la
chiarezza delle classificazioni su cui lavora e
la certezza delle regole che ad esse si applicano.
Quest'opera può essere utile per discriminare
fra usi propri e soprattutto utili, e usi
impropri o ultronei. Se identifico i beni
comuni come quelle risorse strettamente
correlate alla comunità di riferimento, che
devono essere gestite collettivamente, o
quanto meno in modo partecipato, a prescindere
dal titolo di appartenenza formale
(proprietà pubblica o privata), posso escludere
dal novero il sistema dell'informazione
o la democrazia, senza nulla togliere ai diritti
costituzionalmente garantiti che all'informazione
o alla democrazia si ricollegano. Il
dilagare dell'espressione "bene comune" è
positiva: indica un cambiamento culturale
che giudico favorevolmente. Ma il suo uso
in alcuni casi non ha senso pregnante, non
aggiunge nulla rispetto a quanto è già riconosciuto
come un diritto fondamentale
inviolabile.
In altri casi la questione è prima di tutto
politica: definire il lavoro un bene comune
vuol dire santificarlo, occultando la sua ineludibile
componente di sfruttamento. Per
questo nel libro il tema del lavoro è
approfondito in senso critico. In ogni caso il
tentativo di costruire uno statuto giuridico
per i beni comuni va al di là di una mera esigenza
di classificazione: risponde piuttosto
alla necessità di dare legittimazione qui e ora
alle rivendicazioni di chi lotta per riappropriarsi
del comune, individuando i presupposti
del riconoscimento e gli strumenti di
tutela giuridica. Non propongo affatto una
visione pangiuridica, ne sono anzi alquanto
distante, ma registro nelle recenti esperienze
italiane di occupazione di teatri, cinema - e
non solo - una crescente domanda di diritto
ispirata dalla consapevolezza di lavorare sulla
frontiera di un nuovo modello di società.
Lo scorso 7 maggio si è tenuto a Perugia -
sempre nell'ambito di un ciclo di incontri
universitari - un seminario sullo spazio
urbano, tema che si inserisce a pieno titolo
nel dibattito attuale sui beni comuni. Quali
sono gli aspetti che rendono la città un
vero e proprio bene comune, che prescinda
dall'appartenenza? In che senso la città
influisce sui rapporti sociali e di genere?
Il tema dello spazio urbano come commons è
assolutamente cruciale nella prospettiva
della costruzione di un'alternativa al presente
modello di società. La città non è un
insieme di proprietà pubbliche e private: è
molto di più, è il prodotto delle comunità
che ci vivono, delle relazioni e dei conflitti
che nella città si consumano. Ma la sua
struttura e le dinamiche che la attraversano
sono a loro volta fattori di costruzione di
relazioni sociali e di identità individuali e di
gruppo, e di costruzione degli stessi corpi.
Emblematica l'influenza dei diversi ambienti
urbani sulla costruzione delle identità femminili
e degli stessi corpi delle donne: corpi
terrorizzati e in pericolo, ovvero "equivoci" o
"cattivi", se in transito o residenti in quartieri
e luoghi "a rischio", corpi "al sicuro", tranquilli
e "materni'" se ubicati in luoghi protetti,
come i centri commerciali, oppure nei
quartieri dove abita la gente "per bene". Le
operazioni di riqualificazione urbana che
costringono i poveri a spostarsi verso le periferie,
la cementificazione che spossessa i cittadini
del verde, la progettazione dello sviluppo
urbano che privilegia gli interessi
commerciali a scapito dei legami sociali, del
benessere e della felicità degli abitanti sono
tutte pratiche di sottrazione del comune cui
siamo quotidianamente soggette.
Ancora in riferimento allo spazio urbano,
nella prefazione del volume si ammette che
"il tema del controllo sulle relazioni e sui
corpi tende ad emergere come filo rosso dei
contributi presentati": il caso delle 37
denunce recapitate a chi - nel corso di una
manifestazione contro la riforma Gelmini
nel dicembre 2010 - ha occupato i binari
della stazione Fontivegge può risultare ironicamente
dimostrativo di quanto la macchina
del pubblico sia in contrasto con l'idea
di comune...
Alla base della protesta c'era un'idea forte di
università come bene comune che studenti,
ricercatori e precari in mobilitazione per
mesi hanno cercato di difendere contro l'approvazione
di una legge che aziendalizza l'università,
precarizza i giovani che ci lavorano
e mortifica la libertà di ricerca. Abbiamo
contrapposto la difesa del comune alla
volontà di una maggioranza politica screditata
esercitando il diritto al libero dissenso, il
quale, come dice Ferrajoli, è la vera concessione
riconosciuta ai cittadini dai sistemi di
democrazia rappresentativa.
Molti interventi pubblicati nel volume
derivano da esperienze dirette di studenti,
operai e precari - mi riferisco ai picchetti,
alle occupazioni, alle autoinchieste, alla
stessa manifestazione di cui sopra. Quale
ruolo hanno avuto queste pratiche nella
stesura di un testo che tenta di sistematizzare
il discorso - ancora in divenire - sul
"comune"?
Un ruolo fondamentale che, da una parte,
dà conto del fatto che lo spossamento, come
la difesa e la riappropriazione del comune
non si riducono a meri schemi giuridici, ma
sono costantemente segnati da pratiche di
lotta e di resistenza; e che, dall'altra, si lega
fortemente all'idea di università come bene
comune, luogo dove la conoscenza più qualificata
che un Paese è capace di mettere in
campo, è collettivamente prodotta da tutti
coloro che nelle università vivono e lavorano,
dagli studenti ai professori.
Non a caso gli autori e le autrici del libro
esemplificano tutti i ruoli attraverso cui si
articola il lavoro
il manifesto - 14 aprile 2012
Il recinto dei beni comuni
di Toni Negri
Il volume «Oltre il pubblico e il privato» affronta le contraddizioni del diritto proprietario e la necessità del suo superamento. Pone cioè il tema della produzione di nuove istituzioni espressione di una pratica del comune La mille forme di resistenza presenti nelle metropoli e negli atelier della produzione esprimono tendenze che possono rompere i recinti dello status quo e diventare egemoni
Il libro curato da Maria Rosaria Marella (Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, pp. 332, euro 25) raccoglie in quattro parti (I: Beni comuni vs. proprietà individuale; II: L'esplosione dei beni comuni; III: Lo spazio urbano come commons; IV: Lavoro = bene comune?) un insieme articolato di contributi, singolarmente coerenti - troppo ricco perché di ognuno di questi contributi si possa dar conto. È invece alla loro coerenza che va data la parola, meglio, allo schema che dispone una figura del comune sul terreno giuridico e politico - fra riconoscimento del comune e sua produzione. Ciò significa che questo libro comincia già (assumendo la maturità della discussione in corso, almeno negli Usa e in Italia) a spostare il discorso dalla definizione concettuale del comune alla sua affermazione come istituzione. Dice bene Marella: «in questa fase è dunque strategico fare emergere la tensione fra individualismo e solidarietà, fra esclusivo e comune, che pervade l'intero sistema giuridico fin dentro alle strutture del mercato, poiché a partire da essa è possibile sin da ora pensare la costruzione di uno statuto giuridico del comune».
Passaggi riformisti
Questo significa che parlare dell'istituzione del comune, e delle tattiche che possano assicurare quel risultato strategico, impone (qui si contemplano tre esempi): 1) di procedere caso per caso nell'affermare la natura di commons di una risorsa; 2) di ridefinire il concetto di soggetto giuridico non come un'identità autocentrata bensì come punto di incrocio di un fascio di rapporti sociali; 3) infine, di affermare il criterio di gestione collettiva e/o partecipata nell'amministrazione del comune. In questo modo si potrà anche cominciare a pensare praticamente ad un'estensione progressiva dell'uso comune dei beni comuni e, nello stesso tempo, all'affermazione di una nuova titolarità, molteplice piuttosto che individuale, dei medesimi. E in questo modo si potrà anche cominciare ad organizzare i soggetti che a quella legittimità comune aspirano, attraverso un processo costitutivo forte - un divenire nuovo del soggetto, un divenire «soggetto comune».
Marella, a fronte di altri punti di vista, sembra qui aderire alla proposta della commissione Rodotà: «la categoria dei beni comuni è disegnata a prescindere dall'appartenenza, ciò dalla titolarità della proprietà sul bene, che può essere pubblica o privata. Il bene comune è piuttosto individuato in quanto necessario alla realizzazione dei diritti fondamentali degli individui». Che questo passaggio tattico e questo modello possano essere decisivi, muovendo dalla retorica dei diritti fondamentali e dando legittimità universale alla pretesa di ciascuno ad agire in giudizio, intervenendo sulla gestione del bene comune contro chi ne è formalmente il titolare, è decisione più o meno apprezzabile. A me sembra che essa contraddica quella via, paradossalmente «privatistica» (o, se si vuole, «egoistica») al comune che non esige «traduzioni» del/dal «pubblico» e neppure riferimento ai diritti fondamentali (sempre sporcati dalla tutela statale) - ma fa piuttosto di tale riferimento, un'implicita sollecitazione ad un passionale rifiuto della solitudine ed alla ricerca di incontro con i molti nel comune.
Un diritto del comune mi sembra infatti poter solo sorgere da un non semplice ma diretto sforzo all'organizzazione dei claims e dal riconoscimento delle condizioni comuni della produzione (cooperazione sociale, linguaggi comuni, ecc.). La tattica proposta da Marella ha comunque il vantaggio di permettere da subito una pratica del comune, sia pure su spazi interstiziali. Esempi forti possono essere letti nell'opposizione (anche «cattiva») praticata dalle popolazioni dei quartieri berlinesi contro la «gentrificazione»"; oppure dalle pratiche - antiegemoniche, antiproprietarie e antimonopoliste - messe in atto dagli hackers contro le codificazioni sulla proprietà intellettuale.
Si ritengono deboli queste indicazioni di una prassi costitutiva - ma forse semplicemente espressiva - del comune? Si ritiene che questo percorso transitivo - nell'ambito del diritto vigente - sia insufficiente all'espressione di una categoria del comune? Ed al suo mantenimento nel tempo - meglio, nella durata? Certo, ci troviamo davanti ad esperienze di un vigoroso riformismo giuridico, e per chi poco gusti le salse riformiste (come mi capita), il ritrarsene parrebbe ovvio. Ma nel libro di Marella (e negli interventi da lei introdotti per collegare le singole parti in un discorso, come si diceva, coerenti) sono espresse forti esperienze che ci aiutano ad aderire a queste proposte piuttosto che a rifiutarle. Mi riferisco in particolare agli interventi della stessa Marella e di Agostino Petrillo a difesa dello spazio urbano come commons ed all'intervento di Adalgiso Amendola sulla questione: se il lavoro sia un bene comune?
I primi interventi procedono dall'analisi delle sempre più feroci privatizzazioni dello spazio pubblico metropolitano e dalle modalità di spossessamento e di creazione di nuove marginalità urbane. Dentro questo fosco quadro, si chiedono, se si possano cogliere - oltre la crisi della città neoliberaleed il trionfo della rendita immobiliare - linee di ricomposizione di un comune, agito dagli incontri dei cittadini e dalla forte pressione dei loro bisogni (e linguaggi e desideri) nel senso della creazione non solo di un generale diritto di accesso nello spazio urbano ma anche di un gioioso rinnovamento di un comune metropolitano. Certo, queste linee non sono ancora politicamente soggettivate, ma concretamente presupposte, ovvero poste in essere - ormai - nello smascheramento e nell'isolamento delle ideologie e degli interessi che sono dietro la «gentrificazione». Ma, andando più a fondo su quel terreno che Spinoza chiamava «immaginazione», Marx «tendenza» e Foucault «dispositivo» (scusatemi il florilegio filosofico): non vi sembra che si assista ormai nella metropoli all'emergenza di una continua tensione ed a un gioco politico fra vecchie e nuove forme di proprietà collettiva, di nuove fonti di produzione di regole nella gestione del territorio e degli spazi comuni, tali che la relazione fra pubblico e privato sembra completamente ricreata non più in termini oppositivi ma in termini di godimento comune delle singolarità? La metropoli è il grande terreno di sperimentazione del comune.
L'ingovernabile eccedenza
Il secondo intervento, quello di Amendola, assumendo la cooperazione sociale della forza lavoro nella metropoli in una dinamica di valorizzazione ormai indistricabile dalla vita quotidiana, mette in luce con forza come la produzione di soggettività legata alla cooperazione nel General Intellect, contraddica e si ponga come «eccedente» rispetto alle strutture di cattura del capitale finanziario. Certo, parlare di «lavoro come bene comune» è uno sporco scherzo che solo umoristi inglesi del diciottesimo secolo, alla Jonathan Swift, potevano permettersi. Ciò riconosciuto, non è tuttavia impossibile pensare ad uno statuto comune della forza-lavoro (ancora un passaggio riformista) che, sul riconoscimento della capacità produttiva della cooperazione sociale, fondi un reddito incondizionato di cittadinanza. Un passo in avanti nella definizione di un diritto non più privato, non più pubblico ma singolare, del comune - dove finalmente il lavoro, distruggendo comando e sfruttamento, si presenti come attività comune. Se non ora, quando? Davvero non si capisce di che cosa parlino - quando dicono «beni comuni» - ecologisti e preti, amministratori e politici se non pensano ad un reddito garantito per tutti, che la produzione sociale ormai impone.
La lunga marcia di una politica costituente
di Ugo Mattei
La pubblicazione di una ricca raccolta di riflessioni prodotte nell'ambito di un seminario presso l'Università di Perugia coordinato dalla docente di diritto privato Maria Rosaria Marella offre un'occasione per riflettere sul senso di alcune obiezioni al pensiero «benecomunista» che ricompaiono anche nell' introduzione (Marella) e nella postfazione (Stefano Rodotà) del libro. Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni (ombre corte) si propone di far compiere passi avanti teorici alla nozione giuridica dei «beni comuni» interrogandola, in un dialogo genuinamente contro-disciplinare. Colgo l'occasione per affrontare alcuni nodi teorici tenendo conto della loro ricaduta politica oggi, che intorno alla prassi «benecomunista» un nuovo soggetto politico nuovo cerca alleanze ampie. Tre sono le critiche principali: 1) la nozione di «beni comuni», così come emersa nella prassi conflittuale dell'Italia post-referendaria, è vaga. Se tutto è un «bene comune», allora nulla è un «bene comune»; 2) la nozione di «beni comuni», evocando un «nuovo medioevo» costituisce una critica alla modernità fondata su nostalgia per il passato e sul mito del buon selvaggio; 3) la nozione di «beni comuni» non traccia in modo sufficientemente chiaro i suoi confini con la «comunità» da un lato e il «comunismo» dall'altro, mettendo a rischio le conquiste del liberalismo illuminista.
Non stupisce che la preoccupazione per la vaghezza concettuale emerga soprattutto fra i giuristi (non solo i curatori ma anche nel saggio di Luca Nivarra). In effetti, la precisione terminologica e concettuale costituisce uno dei claims più convincenti attraverso il quale i giuristi portano avanti il loro «progetto professionale» cercando prestigio sociale e legittimazione nella produzione di concetti precisi e dunque potenzialmente produttivi di certezza del diritto.
Interpretazioni costituzionali
Risponderò in due modi: a) il potenziale evocativo dei beni comuni si sostanzia principalmente nella loro capacità di mobilitare e di connettere fra loro vertenze single issue che, per loro tramite, scoprono una cifra politica condivisa. Che cosa condivide la lotta di una comunità montanara contro la Tav con quella dei lavoratori dello spettacolo raccolti in un teatro occupato? In questa fase storica di potere tecnocratico illegittimo e corrotto, saper collegare fra loro le centinaia e centinaia di vertenze che dalla base sfidano il pensiero unico è un contributo politico inestimabile che va riconosciuto al «benecomunismo». b) La storia trasformativa del diritto civile è fatta di nozioni non meno vaghe di quella di «beni comuni» che fanno evolvere le sue categorie riflettendo nuove sensibilità politiche e socialie rigettando l'immobilismo (o la trasformazione arbitraria) prodotto dalla forma e dal concettualismo. Si pensi alla vicenda dell'abuso del diritto, a quella della funzione sociale della proprietà, alla buona fede o più in generale all'interpretazione «costituzionalmente orientata».
Il nuovo medioevo in cui emergea livello globale tanto il neoliberismo quanto il «benecomunismo», non è categoria assiologica o normativa. Essa piuttosto descrive la fine della sovranitàpubblica sotto i colpi dei poteri privati transnazionali ormai più forti degli Stati, e smaschera definitivamente le mitologie giuridiche della modernità (per dirla con Paolo Grossi). Poiché tuttavia la mera descrizione non esiste se non nell'ambito di un paradigma positivistico screditato, bisogna dire chiaro che i «benecomunisti» non sono perfettamente equidistanti fra pubblico e privato (e qui ha ragione Tullio Seppilli a protestare contro il titolo del volume). Possiamo dunque rammaricarci per la sconfitta della sovranità pubblica (alla quale consegue l'estrema difficoltà tanto del riformismo quanto delle ricette keynesiane) e al contempo rallegrarci per la fine delle mitologie giuridiche (tanto positivistiche quanto naturalistiche) che hanno imposto un costo salatissimo alla cultura giuridica in termini di capacità critica. Respingere la rozza antropologia di Hobbes e di Locke, rifiutando le origini e perseguendo la genealogia (come fa Coccoli nel suo bellissimo saggio) non significa sposare acriticamente Rousseau ma semplicemente chiamare l'ideologia liberale (e gia
L'indice - 23 0ttobre 2012
Prosegue il dibattito sui beni comuni, già oggetto di numerosi interventi comparsi sull'Indice e qui sul blog, nella sezione Indice allungato. Qui di seguito la recensione di Paolo Napoli al saggio Oltre il pubblico e il privato, curato e introdotto da Maria Rosaria Marella per Ombre Corte (2012, postfazione di Stefano Rodotà).
Una categoria ibrida tra filosofia e diritto, teoria politica e prassi sociale
di Paolo Napoli
Dopo essere stata portata in auge dalla sociologia di fine Ottocento (si veda Comunità e società di Ferdinand Tönnies, recentemente riedito in italiano), la categoria della comunità ha sollecitato l'attenzione dei filosofi nell'ultimo scorcio del secolo scorso, basti pensare a Jean-Luc Nancy, Giorgio Agamben, Roberto Esposito, che hanno dedicato alla comunità saggi importanti. In tempi più recenti, sullo slancio di movimenti rivendicativi su scala planetaria, si è scavato ancora più in profondità in quella categoria per riflettere sull'aggettivo sostantivato che ne è la radice: il comune. Se la filosofia politica ha cercato di dilatarne i confini oltre il perimetro delle cose (Michael Hardt e Antonio Negri), spetta al diritto il compito di riordinarlo secondo criteri empirici più controllabili: i "beni comuni". La riappropriazione giuridica del comune attraverso i beni comuni - da non confondere con il "bene comune" aristotelico e tomistico - significa restituire alla collettività l'accesso alla gestione delle risorse materiali e immateriali quali l'acqua, il paesaggio naturale e archeologico, la conoscenza prodotta in rete, il patrimonio genetico ecc., poiché tali beni esistono grazie alla cooperazione sociale che necessariamente li riproduce.
E questa cooperazione sociale, osserva Maria Rosaria Marella nella sua incisiva introduzione a una recente raccolta di studi sul tema, dal potere pubblico "non vuole concessioni, ma pretende riconoscimento". Ecco la sfida di un libro polifonico, immune dagli squilibri tipici dei collettanei grazie alla sapienza sartoriale della curatrice, che ha animato un seminario biennale all'Università di Perugia dove insegna. Il titolo ha un sapore hegeliano, Oltre il pubblico e il privato: l'opposizione classica tra pubblico e privato non si supera riacutizzando la loro alterità, ma introducendo un terzo spazio, il comune, che il libro visualizza attraverso le testimonianze più diverse: a quella dominante dei giuristi si affiancano quelle di storici, filosofi, antropologi, sociologi, urbanisti ed esperti in tematiche di genere, lavoro ed emigrazione. Due nuclei problematici emergono con chiarezza: la questione della storia di questi beni comuni e della loro origine; il rapporto tra il "comune" e quel modello "pubblico" che, almeno in Italia, non ha mai offerto le migliori prestazioni in termini di welfare.
Per quanto riguarda il primo aspetto, Lorenzo Coccoli sottolinea giustamente le insidie di una ricerca dell'origine travestita da analisi storica. A questa trasformazione di una verità ideologica in verità di fatto non si sottraggono né gli apologeti né i contestatori della proprietà privata. Da entrambi i versanti, infatti, i discorsi poggiano su una presunzione non problematica: individuare l'origine significa aggrapparsi a una matrice in grado di spiegare gli sviluppi successivi del fenomeno analizzato. Così l'ipotesi di un'iniziale proprietà comune dei beni permette di ricostruire la nascita e lo sviluppo della proprietà privata, esaltata per la sua produttività ed efficienza, e di squalificare la proprietà comune in quanto improduttiva e votata alla miseria. Si capisce allora che alla ripresa del tema dei beni comuni non giova l'argomento dell'appartenenza collettiva originaria, non solo perché rappresenterebbe un'ingenua variante di quelle che Marx chiamava "robinsonate", ma soprattutto perché impiegherebbe lo stesso criterio fallace di chi, da parte opposta, intende destituire il comune quale cifra ottimale dei rapporti tra persone e cose.
Questa precauzione teorica e metodologica vale a maggior ragione quando il problema dell'origine se lo pongono gli storici del diritto. È ciò che mette bene in evidenza Emanuele Conte nella sua ricostruzione del germanismo giuridico di metà Ottocento, un movimento che fa un preciso uso della storia, inventando un medioevo germanico plasmato sul mito della proprietà collettiva, al fine di giustificare posizioni socialiste e nazionali di stampo conservatore. Per quanto smascherata come epoca più immaginata che esistita, il medioevo dei germanisti produce una rappresentazione dei fatti non priva di conseguenze concrete. Un istituto come il condominium iuris germanici, per esempio, viene letto più come un fenomeno specifico alla vicenda etnica della comunità che come una variabile del complesso assetto economico e giuridico dei beni in epoca medievale, quasi che il rapporto con le cose non facesse che riflettere lo spirito del popolo.
Appurato tutto ciò, è consigliabile tuttavia non restare prigionieri di una visione allo stesso tempo scientista e moralistica della storia. Difficilmente un discorso sui beni comuni potrebbe rinunciare al monopolio del proprio "archivio" che, come lo ricordava Foucault nell'Archéologie du savoir, non è tanto un contenitore di documenti quanto un "sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati".
Di certo non è dai medievalismi dei germanisti che un discorso sui beni comuni può trarre ispirazione. Semmai assai più utili sarebbero gli studi di chi, come Yan Thomas, ha demolito lo stereotipo della concezione individualistica del diritto romano. In questo caso l'uso della storia si combinerebbe con il massimo rigore filologico, il che conferirebbe un'inestimabile robustezza alle tante posizioni militanti in lotta sulla pelle dei "commons" (soprattutto in Italia). Immune da simili derive, Marella fa bene a denunciare le ambiguità del dibattito contemporaneo, in particolare sul soggetto cui il "comune" allude.
L'idea della comunità di riferimento è troppo generica per individuare portatori precisi, che addirittura possono oscillare nelle direzioni più diverse: da una platea assai ristretta corrispondente a una somma di interessi privati, come avviene per comunità ipostatizzate nell'immemoriale, nell'etnico o addirittura nello ctonico (non è un caso che tra Lega Nord e "ben-comunisti" scatti a volte un feeling sospetto), il "comune" può fluttuare in direzione opposta, verso l'interesse pubblico. Ed è proprio il rapporto tra pubblico e comune a rappresentare una crux interpretum.
Secondo Luca Nivarra, i due assi classici per allocare la ricchezza, la sovranità e il mercato non sono in grado di garantire, il primo, "quella domanda di democrazia e autogestione che si accompagna al governo ideale dei beni comuni", il secondo, la protezione dei beni comuni dall'accumulazione capitalistica che ne pregiudica la fruizione collettiva. Si pone quindi l'esigenza di un assetto istituzionale alternativo, fermo restando il principio per il quale in tema di beni comuni non conta la proprietà ma la garanzia dell'accesso, secondo quanto suggerito dalla commissione Rodotà che nel 2007 era stata incaricata di riformare la classificazione dei beni nel Codice civile. Ma a quali strumenti affidare la realizzazione di queste utilità collettive? Qui, a nostro avviso, il dibattito deve impegnarsi in un salto di qualità e chiedersi se per i beni comuni possa ancora valere il modello glorioso grazie al quale, da fine Ottocento, l'Europa continentale ha concepito la prestazione di benefici collettivi: il servizio pubblico. I segnali di concorrenza e perciò di distinzione tra beni comuni e servizi pubblici appaiono in realtà già nell'articolo 43 della Costituzione italiana, dove si parla di "servizi pubblici essenziali" (quelli che la legge 146/1990 avrebbe associato ai beni della persona costituzionalmente tutelati: vita, sicurezza, salute, libertà, circolazione, assistenza e previdenza sociale, istruzione e libertà di comunicazione) da poter affidare a comunità di lavoratori e utenti, secondo una logica di coinvolgimento dal basso dei soggetti interessati.
A questa distinzione nel merito se ne accompagna una anche nella teoria. Infatti, il concetto e la messa in opera del servizio pubblico scontano, sin dalle origini francesi tardo- ottocentesche, un'ipoteca teologico-pastorale di cui il lessico è di per sé un indizio trasparente: "servizio" e "concessione" sono infatti i termini spia di una trascendenza sovrana che non riesce a immaginare diversamente il ruolo di quello che, non a caso, un giurista insigne come Maurice Hauriou chiamava il "milieu degli amministrabili": cooperazione con il potere pubblico, ma non autopromozione dal basso. Questo paternalismo del servizio pubblico sarebbe entrato in clamoroso conflitto con la tutela delle risorse naturali - bene comune per eccellenza - quando si pensi che nel 1932 Georges Scelle non trovava di meglio che definire "servizio pubblico internazionale" l'intervento presso "le collettività primitive che monopolizzano una regione del globo senza saperne sfruttare le possibilità e che per questo devono essere amministrate (...) da governi internazionali in grado di guidarle sulla via del progresso e della solidarietà umana" (Précis du droit des gens). In nome del servizio pubblico la produzione dell'utilità collettiva può coincidere con l'asservimento dell'individuo su scala globale!
La lettura di questo libro invita infine a una riflessione più ampia. Se in tema di "commons" l'accesso al godimento va separato dalla proprietà del bene, a essere rimesso in causa è quell'autentico esistenziale del diritto privato moderno che è la nozione di "disponibilità", cioè la sovranità del soggetto solitario nel suo potere utendi et abutendi. Con il ritorno dei beni comuni sull'agenda internazionale assistiamo al ribaltamento culturale e mentale di questo schema: l'indisponibile è un moltiplicatore di possibilità e non un fattore d'impotenza soggettiva. Per la classica visione liberale, maggioritaria anche tra i giuristi, l'indisponibile è il momento negativo della volontà e della libertà e, come tale, merita di essere relegato tra i beni fuori commercio. Non sbaglia Marella quando, con spirito genuinamente anti-ideologico, mette in guardia dall'escludere dal mercato i beni comuni, di cui occorre semmai tutelare un uso sganciato dalla concorrenza e dal profitto. L'indisponibile non designa allora semplicemente l'extracommercialità, ma il requisito materiale e culturale dell'inclusione collettiva che il godimento dei diritti comuni collegati a quei beni suppone. In definitiva, nessuna natura tiene insieme l'oggetto "beni" e il qualificativo "comuni", ma una condizione di indisponibilità proprietaria che solo una prassi condivisa è in grado di istituire.
P. Napoli è directeur d'études allo EHESS di Parigi sui beni culturali
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