M. Guareschi e F. Rahola
Chi decide?
Critica della ragione eccezionalista
 
il manifesto - 29 dicembre 2011

La mano oscura della governance globale

di Roberto Ciccarelli

La critica allo "Stato d'eccezione permanente" che porta allo svuotamento della sovranità nazionale e all'individuazione di un nemico ignoto e tuttavia temibile. Il terrorismo negli anni passati, il debito pubblico nei nostri giorni

Sono due gli eventi che hanno ispirato la filosofia dell'eccezionalismo: gli attacchi terroristici alle Torri Gemelle del settembre 2001 pianificati da un movimento islamico fondamentalista dall'incerta identità, Al Qaeda, e la successiva risposta della "guerra contro il terrore" voluta dall'amministrazione americana guidata da George W. Bush culminata nello scacco militare in Iraq e in Afghanistan. In un esercizio filosofico sull'epoca appena trascorsa delle global wars, delle extraordinary renditions, dell'abuso delle decretazione d'urgenza e della crudele detenzione per migranti, in Chi decide? Critica della ragione eccezionalista (Ombre Corte, pp. 201, euro 19) Massimiliano Guareschi e Federico Rahola espongono i risultati di una ricerca che decostruisce il senso comune: la lotta contro il terrorismo globale non è stata il punto più avanzato di uno "stato d'eccezione permanente" poiché tale "eccezione", semplicemente, non esiste.

Emergenza infinita

Il gesto inaugurale della ricerca, assai promettente, lascia lo spazio ad un serrato ragionamento giuridico e politico in cui viene svelata la chiave del mistero teologico che ha portato un'intera cultura critica a credere nell'esistenza di un "sovrano" assoluto (gli Stati Uniti? l'Impero? Il complesso militar-industriale?) che decide sul famoso "stato di eccezione". Sfogliando il libro questo gesto poi s'incardina in una seria argomentazione, materialistica e attenta ai rapporti di forza, sull'emergenza, cioè la condizione normale nella quale operano i poteri nello spazio pluristratificato della politica globale.
Così facendo, Rahola e Guareschi pongono le premesse per una rigorosa critica della rivoluzione dall'alto attraverso la quale oggi la banca centrale europea impone agli esecutivi del Vecchio Continente una soluzione rovinosa contro la crisi economica. I due ricercatori dimostrano come l'autonomizzazione delle politiche monetarie dalla sfera della rappresentanza statuale (e sovra-nazionale) abbia inglobato la funzione di direzione politica della vita economica e sociale, spostando il governo di uno Stato a livello della governance, lì dove si decidono le politiche monetarie necessarie al salvataggio del capitale globale, ma non della vita delle persone.
In Italia continueranno a lungo a discutere costituzionalisti e sulle modalità con le quali è stato nominato il governo Monti: trattasi di una "dittatura commissaria", oppure incarnazione delle prerogative del "custode della Costituzione"? Non sorprenderà scoprire, nella lettura del libro di Guareschi e Rahola, che il conflitto non è ormai più quello che oppose il fronte schmittiano a quello kelseniano del rispetto della "norma fondamentale", cioè quella Costituzione che verrà stravolta dall'introduzione dell'imperativo del "rigore di bilancio" imposto dall'idra a due teste, la coppia Merkel-Sarkozy: il Merkozy.
La critica alla filosofia dell'eccezionalismo, e del suo ospite indesiderato, il fantasma della sovranità e dello Stato-Nazione, dimostra infatti che nella politica globale non c'è nulla su cui decidere, ma ci sono moltissimi attori decisionali. Applicare le norme, rispettare le regole, sfidare i dettati costituzionali, poco o nulla importa quando i confini della legalità e della legittimità sono stati travolti dalle politiche dell'emergenza infinita. Per funzionare, il governo dei flussi economici, come delle istituzioni politiche, non ha bisogno di una metafisica giuridica, quella dell'eccezionalismo, che ha permeato la sovranità dello Stato-Nazione moderno e la sua crisi irreversibile.

Magia della decisione

L'affermazione di una Costituzione, oppure la sua sospensione, è solo un'illusione ottica dietro la quale si nasconde il vero problema: quale finalità sovrintende alle scelte dei governanti? L'attuale controfigura italiana di un governo, quello dei "tecnici", è solo uno snodo - forse meno arlecchinesco di quello berlusconiano - di un dispositivo di governo multi-scalare che mescola le antiche prerogative della sovranità con le più moderne logiche manageriali all'interno di "assemblaggi" tecnico-politici che combinano gerarchie e autorità diverse, impegnate nello stesso progetto di governare un'emergenza continua.
Ieri era il "pericolo terrorista", oggi è lo "spread". Ieri c'era un triste clown eletto alla presidenza del Consiglio, oggi c'è il debito pubblico. E così via, all'infinito, seguendo la più classica delle strategie della rimozione, del rinvio e dell'investimento psicotico e securitario. La terribile facilità con la quale da anni si parla di "eccezione" che giustifica qualsiasi cosa è dovuta, spiegano Guareschi e Rahola, al fatto che questa categoria giuridica è un semplice "atto illocutorio al limite del gioco di parole", che allude ad un "significato fluttuante" che i governanti, così come tutti i parlanti (i francesi dicono "truc", gli italiani "cosa"), assegnano all'oggetto più inquietante - e in fondo desiderabile - del momento.
C'è qualcosa di sacro e misterioso in questo "atto illocutorio". E non a torto Giorgio Agamben, il cui pensiero Rahola e Guareschi sottopongono ad una critica serrata, ha indicato in esso la presenza di una dimensione magica, il mana, che attribuisce a chi pratica un'eccezione rispetto alla norma le prerogative del potere assoluto. Anche quando sembra che il potere non ce l'ha nessuno, se non gli onnipresenti e fantasmatici "mercati".

Geografie del potere

La difficoltà di risalire al decisore di ultima istanza, o quella che impedisce di ristabilire l'efficacia di una decisione sovrana sull'economia, impone un salto nell'analisi che gli autori del libro definiscono "svolta geografica nell'analisi del potere". La critica del "monoteismo" della filosofia dell'eccezionalismo di Carl Schmitt, come anche quella messianica di Walter Benijamin (chi se non un "Dio", un "sovrano", decide sull'indecidibile?) è stata ampiamente svolta dalle punte più avanzate dei dibattito critico internazionale. Saskia Sassen, Aihwa Ong, David Harvey e molti altri hanno analizzato l'esistenza di una pluralità di apparati che riaggregano reti, filiere, network e assemblano nella stessa governance pezzi di Stato, organizzazioni sovranazionali, Banche centrali e agenzie di rating, spesso in conflitto tra loro.
In questa geografia "multiscalare e frattalica" sfumano le distinzioni tra pubblico e privato, tra nazionalità e sovra-nazionalità, a favore di nuove tecniche e dispositivi di controllo della mobilità, così come della stessa riproduzione della vita. Le gerarchie esistono, e sono più forti, ma sempre in corso di ridefinizione, a tutti livelli: biologici, molecolari, territoriali. L'esempio di Israele, affrontato da Guareschi e Rahola, è paradigmatico di questa situazione generale.
Quello che dunque vedremo nel prossimo anno nell'austera italietta rimpannucciata nel loden sarà la replica della commedia di uno Stato che fa rispettare una credibilità inesistente. Sembra ormai che la politica, ammesso che ne esista ancora una, non è più il patto, o la negoziazione dei diritti o tra poteri all'interno di un singolo Stato, ma il male minore imposto agli esecutivi dai dispositivi di governo che, come ha spiegato Etienne Balibar, sono protagonisti di una rivoluzione dall'alto.



Nomos. Le attualità nel diritto - 1, 2012
Quadrimestrale di teoria generale, diritto pubblico comparato e storia costituzionale

di Francesco Brancaccio

La letteratura giuridica, politologica, filosofica, lo stesso dibattito giornalistico sono attraversati, nnegli ultimi anni, da una crescente riflessione sullo "stato d'eccezione". Con questa parola- concetto si prova a racchiudere all'interno di una cornice unitaria un insieme disparato di fenomeni sfuggenti ai canoni tradizionali della scienza giuridica.
Il volume di Massimiliano Guareschi e Federico Rahola va ad inserirsi dunque all'interno di un territorio già abbastanza affollato. Come gli autori osservano in apertura del lavoro, occorre confrontarsi con un consolidato "discorso eccezionalista", che taglia trasversalmente diverse discipline accademiche e che informa, spesso in termini spettrali, lo stesso senso comune. Il lavoro di Rahola e Guareschi (entrambi docenti nella Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Genova, il primo di Sociologia dei processi culturali, il secondo di Politiche globali), risulta meritevole di interesse non solo per la apprezzabile capacità di ripercorrere i vari sentieri di questo dibattito, mostrandone le sue differenziazioni interne e le sue articolazioni, quanto per la sua capacità di sottoporne rigorosamente a critica i suoi stessi presupposti concettuali e epistemici - kantianamente, le sue "condizioni di possibilità". Il sottotitolo del volume, Critica della ragione eccezionalista, costituisce una sorta di dichiarazione di intenti, anche metodologica: "l'attenzione per le condizioni di possibilità del discorso eccezionalista come passaggio fondamentale della sua critica" (p. 15). Riprendendo un concetto del filosofo francese Gilles Deleuze, caro agli autori1, un territorio non può essere mai pensato senza la possibilità di uscirne, senza una strategia di exit: il volume è dunque importante perché prova a tracciare delle linee di fuga dalle pretese totalizzanti del discorso eccezionalista. Lo stato d'eccezione, l'uso smodato che di questo concetto spesso viene fatto ogni qual volta si presenti una situazione di "crisi" non convince gli autori per l'eccessivo riduzionismo che esso implica. Nel momento in cui l'eccezione pretende di dire troppo essa in realtà dice troppo poco. Sotto il suo stilema vengono fatti rientrare un insieme di fenomeni, di pratiche di governo tra di loro molto differenti: il progressivo rafforzarsi del potere degli esecutivi, l'espandersi del ricorso alla decretazione d'urgenza, il moltiplicarsi di decisioni e procedure di carattere amministrativo sfuggenti ai tradizionali canoni della legalità costituzionale. La stessa operazione logica viene poi fatta valere se si guarda al piano interstatale: il dark side dell'eccezione, in questo caso si presenta nella veste di una incombente "guerra civile mondiale" (definizione apparsa per la prima volta nel 1961, simultaneamente, nell'opera di Hanna Arendt, Sulla Rivoluzione, e di Carl Schmitt, Teoria del Partigiano).2 L'eccezione dunque tenta di ridurre ciò che risulta essere irriducibile. Ed in questo vano tentativo non fa che riproporre la concettuologia propria della Modernità. Di fronte all'avvento di fenomeni e di tendenze non più riconducibili allo statuto della razionalità giuridica moderna - la critica della modernità, con Foucault, è prima di tutto critica della sua episteme - il discorso eccezionalista riabilita proprio ciò che si proponeva di superare: "Nell'istante in cui allude al superamento di un determinato orizzonte, mettendo in questione la capacità di presa sulla realtà delle categorie fondanti della modernità politica, surrettiziamente ci riconduce ad esse" (p. 15). L'eccezione non solo dice troppo poco, ma ciò che dice risulta essere qualcosa di già detto.

Legge e Istituzione

Uno dei contributi più significativi, che ha favorito la diffusione del discorso in questione in ambito internazionale, è quello del filosofo italiano Giorgio Agamben. Tra le due opere, Homo Sacer e Stato d'eccezione, la tematica dell'eccezione assume la più alta e compiuta concettualizzazione3 (anche se, ci permettiamo di rilevare come molti luoghi agambeniani siano già riscontrabili nel lavoro di Georges Bataille, La sovranità, apparsa in Francia nel 1976, a partire dall'analogia tra il miracolo e la sovranità).4
E' nell'opera di Agamben, infatti, che lo "stato d'eccezione permanente" si presenta senza remore come vero e proprio paradigma della contemporaneità. L'eccezione, configurandosi come il punto di intersezione e nello stesso tempo di "indiscernibilità" tra la politica e il diritto, disvela la più intima essenza del comando sovrano: esso si presenta nella sua assolutezza ed effettività solo nel momento in cui la continuità dell'ordinamento giuridico risulta interrotta, o meglio, "sospesa". Così il "paradigma del campo", nel quale la vita viene spogliata della sua dimensione politica, emergendo nella sua nudità - zoé e non più bios - viene a sostituirsi alla rassicurante immagine, propria delle democrazie avanzate, della vita protetta e/o regolata dal diritto. Lo stato d'eccezione, inteso da Agamben anche come "anomia", "vacuum giuridico", "decisione sovrana", fa svanire definitivamente l'utopia liberale di giuridicizzare la vita. La norma può essere applicata solo se la sua vigenza risulta sospesa e la decisione sovrana si realizza proprio in quello spazio anomico che separa previsione normativa e sua concreta applicazione. Il potere sovrano all'interno di questo spazio - che nello scenario contemporaneo per Agamben tende a divenire permanente - riesce ad affermarsi, senza alcuna mediazione, sul reale. Per quanto evocativa - ma occorre aggiungere, anche un po' tetra - questa operazione non convince affatto Rahola e Guareschi, per una ragione di fondo alla quale abbiamo già fatto cenno: la teoria agambeniana invece di smarcarsi dal discorso sulla sovranità, attraverso la coppia norma-eccezione, non fa che riproporlo nella sua massima trascendenza. Le società contemporanee, portando questa tesi alle sue estreme conseguenze, non sarebbero il luogo in cui la sovranità e i processi decisionali si frammentano, si scompongono, ma al contrario sarebbero società iper-sovrane, nelle quali il giuridico risulterebbe una sorta di involucro formale senza più vigenza, e il politico il luogo di espressione massima di una violenza astratta.
Un doppio problema, dunque, si pone. Il primo di tipo logico-concettuale: l'eccezione, così intesa, riproduce della sovranità i suoi stessi (stilizzati) caratteri: l'assolutezza, la perpetuità, l'indivisibilità - un legista francese, Cardin Le Bret, aveva osservato che la sovranità è indivisibile quanto il punto in geometria. Il discorso sull'eccezione cela in questo modo una sorta di presupposto teologico, l'idea per cui una potestas absoluta possa sospendere, con una decisione dall'alto, il corso regolare della vita giuridicamente organizzata. Genealogicamente questa idea va rinvenuta, come osservano gli autori, nel Dio del filosofo francescano Guglielmo da Ockham, il quale poteva disfarsi, attraverso il miracolo, delle regole che egli stesso aveva predisposto.
Potremmo aggiungere a quella degli autori una seconda obiezione, questa volta di carattere storico- concettuale: nel suo discorso è del tutto assente un rilievo begriffsgeschichtlichen alla tematica della sovranità e più in generale allo studio della genesi dello Stato moderno e della sua concettuologia. L'eccezione sovrana assume così la valenza di un universale astorico, un paradigma applicabile ad ogni situazione, che rivela così la sua dipendenza concettuale dal metodo del formalismo giuridico (nel libro c'è solo un rapido accenno all'opera di Otto Brunner che varrebbe la pena approfondire proprio per decostruire, da questo punto di vista, il totalitarismo categoriale dell'eccezione).5 Una tale considerazione ci spinge ad avanzare un ulteriore interrogativo: quale idea di diritto è sottesa al discorso eccezionalista? Proviamo a riprendere e ad approfondire quello che Rahola e Guareschi definiscono come una sorta di cortocircuito del pensiero agambeniano tra ontologia e formalismo giuridico. Solo un pensiero che identifica il diritto con la (forma di) legge può considerare la giuridicità come un continuum lineare di volta in volta intervallato da vuoti (lo spazio a-nomico), e dunque il momento dell'eccezione come "sospensione" dell'ordinamento. Se al contrario il diritto è preso in considerazione nella sua dimensione storicamente determinata, come rapporto, come principio di organizzazione di rapporti di forza situati, come istituzione, difficilmente sono contemplabili dei momenti di vuoto giuridico. Se il diritto viene considerato come una dimensione immanente alla vita associata difficilmente questa potrà essere immaginata come spogliata da una qualsiasi relazione giuridica.
L'esempio dell'istituto della proprietà e della sua evoluzione, risulta in tal senso emblematico. La proprietà, così come sancita all'interno dei codici moderni, è sempre la formalizzazione di un rapporto, di una relazione (il metodo giuridico di Savigny sanciva che la sovranità è "sovranità del volere", in stretta analogia con il modello formale della proprietà)6 e il ricorso a dispositivi d'eccezione, situati e contingenti, può essere letto anche come la risultante del contrasto tra differenti regimi proprietari (gli autori ci sembra vadano nella direzione di sottolineare questo ragionamento quando richiamano l'opera di Negri e Hardt, Comune, che si apre proprio con una serrata critica alla visione "apocalittica" delle teorie dell'eccezione, volte a coprire il potere reale, incarnato nella proprietà e immanente al diritto ).7 La stessa obiezione si potrebbe inoltre muovere se si considera un altro concetto fondamentale del costituzionalismo moderno, pure richiamato da Agamben: il potere costituente. Solo un operazione di tipo formalistico, piegata sul lato della serie continuità-sospensione, può concepire questo potere giuridico come coincidente con lo stato d'eccezione. In definitiva, insistere esclusivamente sul lato della continuità o discontinuità di un ordinamento, come ci insegna la dottrina giuridica più attenta, significa rimanere legati ad un'immagine del diritto come scisso dalla fattualità, dalla sua dimensione storica e ontologica (gli autori rinviano più volte alla linea istituzionalista di Santi Romano e alla valenza che assume nel suo pensiero la necessità intesa come fonte primaria del diritto e non riducibile all'alternativa tra normativismo e decisionismo).8
A questo punto meritevole di interesse ci sembra la contrapposizione che gli autori azzardano tra un approccio filosofico-teologico ed un approccio giuridico-convenzionale al problema dell'eccezione, preferendo di gran lunga il secondo al primo. Parafrasando Georges Canguilhem, il quale aveva ironicamente osservato che filosofi e matematici manifestano un diverso atteggiamento verso l'ignoto, i primi esaltandolo o esorcizzandolo, i secondi risolvendolo serenamente con il calcolo, allo stesso modo gli autori dicono del differente approccio dei filosofi e dei giuristi nei confronti dell'eccezione: per i primi esso è un buco nero, un concetto limite, per i secondi un istituto di diritto positivo o al limite un escamotage tecnico. Tornando ancora una volta a Deleuze ci sembra che questa distinzione si riconnetta ai due tipi di pensiero giuridico che il filosofo francese giocava l'uno contro l'altro. Il diritto, con Hume, è istituzione, giurisprudenza, convenzione, esso rompe il guscio formale della legge per inaugurare una nuova pratica inventiva del reale.9 Come ha osservato Laurent De Sutter in un saggio di recente tradotto in Italia dedicato a questa tematica, "solo a condizione di una critica del pensiero della legge che una clinica della pratica del diritto diventa possibile".10

Il teologo e il giurista

L'alternativa che abbiamo appena richiamato, tra opzione teologica e opzione giuridica, ci rimanda a piè pari all'interno dell'universo del pensiero schmittiano. L'opera del giurista di Plettenberg, infatti, risulta essere un riferimento obbligato per chiunque voglia addentrarsi all'interno di questo campo. La teoria di Agamben, per esempio, prende le mosse proprio da una rilettura di due opere schmittiane molto importanti, La Dittatura e Teologia Politica, apparse tra il 1921 e il 1922 nella Germania weimariana.11 E' attraverso la coppia dittatura commissaria-dittatura sovrana, e poi, attraverso l'opposizione tra norma e decisione, che si sviluppa il discorso agambeniano sull'eccezione. Secondo gli autori una tale operazione è insufficiente, parziale, e non rende giustizia della sinuosità del pensiero di Schmitt. Negli anni della Repubblica di Weimar la produzione teorica schmittiana viaggia (almeno) su un doppio registro: da un lato quello più eclettico e a tratti mistico, proprio della Teologia, dall'altro quello più "tecnico", rivolto allo studio delle forme costituzionali concrete ed in particolare della WRV. I due registri indubbiamente si intersecano ma è bene tenerli distinti, non sovrapporli o annullare l'uno a favore dell'altro. Questa fase del pensiero schmittiano va dalla Dittatura (che è a sua volta il risultato di una serie di saggi che Schmitt aveva già scritto negli anni precedenti) fino al Custode della Costituzione, scritto nel 1931, e passa per la sua opera più importante e sistematica, la Dottrina della Costituzione.12 Parlare di un doppio registro schmittiano, nella fase weimariana del suo pensiero, non equivale a contrapporre le due linee di ricerca o a rilevarne una contraddizione insanabile, ma semmai a rendere conto della poliedricità del giurista tedesco (è stato pure osservato che il pensiero schmittiano sia pensiero "epocale" e al contempo "contingente", attento alle tendenze di lungo periodo e al dato storico concreto, all'analisi delle forme costituzionali concrete, e forse solo in questa valenza può essere inteso il suo "occasionalismo")13.
Non basta dunque attestarsi, come spesso si fa, alla perentorietà di alcune formule schmittiane come quella, notissima, secondo cui "sovrano è colui che decide dello stato d'eccezione" per render conto dell'importanza del pensiero di Schmitt. Il concetto schmittiano di stato d'eccezione va collocato all'interno dello studio sistematico che egli fa della Costituzione weimariana e non può essere ridotto al problema della sospensione totale dell'ordinamento. Da qui l'interesse per l'art.48 della WRV, che diviene per Schmitt nella crisi parlamentaristica di Weimar, di fronte all'incombere delle "maggioranze negative", la via legale, attraverso cui garantire la continuità dell'ordinamento. Il Presidente del Reich, in quanto pouvoir neutre, assumendo le funzioni di dittatore commissario, diviene la figura in grado di porre rimedio ad una situazione di squilibrio tra i poteri costituzionali ed alle spinte centrifughe provenienti dal sistema dei partiti.
Approfondendo questo discorso si deve anche rilevare che per Schmitt la Costituzione di Weimar era "decisione su un compromesso"14 (tutta la sua Dottrina della Costituzione insiste, infatti, su un doppio registro interno alla stessa WRV, la costituzione dello Stato di diritto e la costituzione sociale), e che la disciplina emergenziale era a suo avviso stata pensata come possibile rimedio alla crisi di questo assetto di tipo compromissorio. Se considerato nel suo complesso il pensiero di Schmitt non può essere ridotto quindi alle lapidarie formule della Teologia, e sul piano strettamente giuridico, la figura dell'eccezione non è riducibile al solo istituto della dittatura sovrana, risultando molto più articolata. Nella Dottrina e nel Custode non si rinviene infatti alcun riferimento ad un'eccezione permanente né tantomeno in queste opere compare mai l'immagine di una sospensione totale del diritto o la possibilità di concepire uno spazio anomico. La funzione di dittatore commissario che Schmitt attribuisce per via costituzionale al Presidente del Reich, attraverso un'interpretazione estensiva dei poteri che l'art.48 gli riservava, è volta dunque al ristabilimento di un equilibrio (concetto a lui caro) rispetto alle spinte centrifughe che caratterizzano la costituzione materiale weimariana.
Aggiungono gli autori che l'interpretazione dell'art. 48 schmittiana può essere letta a sua volta in due modi: "da una parte in termini di criterio ermeneutico, in cui il caso limite renderebbe esplicita una titolarità implicita in tempo di "normale amministrazione", dall'altra in termini di condizione critica che determinerebbe un conflitto, dagli esiti aperti, fra istanze decisionali". (p. 36) In questo secondo senso non si nega una rilevanza autonoma al momento della sospensione dell'ordinamento, dell'Ausnahmezustand, ma lo si considera però interno ad un conflitto tra i poteri e non il luogo in cui il diritto viene sospeso. Un dispositivo giuridico interno ad un rapporto tra più poteri più che un atto puro di trascendenza sovrana.

Eccezione o Eccezioni?

Le lacune del discorso eccezionalista emergono con tutta evidenza anche se si procede ad un'operazione di tipo analitico volta a mettere in luce l'irriducibile varietà dei fenomeni che esso si propone di assorbire al suo interno. Non si tratta dunque di negare il sempre più frequente ricorso a dispositivi d'eccezione ma di metterne in luce la loro eterogeneità.
Più che di uno stato d'eccezione permanente e globale, per gli autori sarebbe più opportuno parlare di eccezioni, di un insieme di tecniche, di istituti, di pratiche, di procedure che disegnano uno scenario molto più frastagliato e una crescente zona grigia tra il quadro legale e la sua sospensione. Declinare al plurale l'eccezione non costituisce uno spostamento di poco conto: la topologia agambeniana del dentro-fuori (come nel caso del "bando sovrano") risulta del tutto inadeguata a render conto di questa caratteristica. A questo livello di analisi si chiarisce meglio l'interrogativo che fa da sfondo all'intera ricerca: l'eccezione rimanda alla titolarità di un potere sovrano, già dato, unitario e trascendente o ci indica un insieme di pratiche singolari, all'interno delle quali di volta in volta più poteri vengono a confliggere e/o a riequilibrarsi?
Per poter rispondere a questa domanda occorre considerare in primo luogo che sul piano strettamente giuridico-costituzionale gli strumenti "liberali" di ricorso all'eccezione risultano oggi per lo più desueti (nell'ordinamento italiano si pensi alla dichiarazione dello stato di guerra - art. 78 Cost - alla quale non si è mai fatto ricorso dal 1948 ad oggi). Al loro posto sempre più frequente risulta il ricorso a delle "tecniche miste" o a strumenti emergenziali di altro genere come la decretazione d'urgenza e la delega di "poteri commissariali" (gli autori prendono in esame in maniera dettagliata il caso della Protezioni Civile italiana). Inoltre, il ricorso a strumenti eccezionali, spesso si presenta nella forma della legislazione ordinaria, attraverso l'introduzione di norme speciali, a termine o singolari, o di tecniche sostitutive. Allo stesso modo sul piano internazionale l'emergere di "geografie multiscalari", nel quale la sovranità più che presentarsi in termini unitari si presenta in frammenti, problematizzano allo stesso modo l'idea di uno spazio vuoto all'interno del quale possa dispiegarsi il potere d'eccezione.
Uno sguardo al letteratura giuridica e politologica internazionale confermano questa osservazione. Pasquino e Ferejohn, per esempio, hanno proposto una classificazione diacronica e sincronica dei c.d. emergency powers.15 Al "modello romano", dell'epoca repubblicana, che prevedeva il concorso di tre poteri nell'investitura del dittatore (il senato deteneva il potere di dichiarare lo stato d'eccezione e incaricava i consoli di nominare un dittatore) viene contrapposto quello "neoromano", sulla base dell'art. 48 della Costituzione di Weimar o dell'art. 16 della Costituzione della Quinta Repubblica francese, nel quale tutti e tre i poteri sono concentrati nella figura del Presidente. A queste due varianti andrebbe aggiunta poi quella tipica degli ordinamenti di common law, nel quale il dualismo regime ordinario-regime eccezionale viene sostituito con quello che vede legislativo ed esecutivo da un lato e controllo giurisdizionale dall'altro.
Per quanto concerne gli studi italiani sul tema gli autori richiamano invece i lavori di Pinna e di Marazzita.16 Del primo viene ripresa la distinzione tra modello monistico (risultante da quelle norme costituzionali attributive di competenze straordinarie sospensive o derogatorie della disciplina ordinaria) e modello dualistico d'eccezione, implicante invece una "rottura" dell'ordinamento giuridico. A sua volta Marazzita ha invece delineato un modello tripartito distinguendo la crisi costituzionale (nuovo potere costituente), l'eccezione relativa (riconducibile al modello monistico di Pinna) e l'eccezione assoluta (detta anche crisi costituzionale conservativa, distinguendosi dal potere costituente per il suo fine conservativo). Gli autori richiamano questa classificazione per valorizzare il modello dell'eccezione relativa, il quale si manifesta molto più frequentemente di quella assoluta, ricalcata invece "sulla monarchia della restaurazione, che attribuisce al sovrano un potere latente di "prerogativa" attivabile in situazioni di crisi, attraverso la previsione di istituti come lo stato d'assedio fittizio". (p. 81) Lo scarso uso di queste prerogative nelle c.d. democrazie stabili dimostra come il paradigma dell'eccezione assoluta o permanente sia inadeguato a render conto dei molteplici livelli, forme, procedure attraverso cui si danno oggi i processi decisionali. Si pensi al progressivo emergere della governance accanto al più tradizionale government, di cui tanto discutono le scienze sociali odierne. Gli autori non utilizzano mai quest'ultimo termine, ma si accostano ad esso quando riprendono il concetto foucaultiano di governamentalità:17 alle procedure proprie degli ordinamenti di sovranità (i poteri d'emergenza, i poteri regolamentari, l'istituto della grazia, la decretazione d'urgenza) si aggiungono oggi le modalità governamentali, un complesso di pratiche "silenziose" e "occulte" legate alla gestione amministrativa della macchina statale, che in nome dell'efficacia, derogano contingentemente al quadro legale: "all'immagine di un sovrano che sospende la legge si sostituisce così quella di una molteplicità di pratiche che coinvolgono attori a più livelli, coniugando interventi ad hoc e neutralizzazioni tecniche, atti istituzionali e strategie informali, procedure amministrative e decisioni politiche, in un contesto in cui conflittualità e cooperazione si alternano a geometria variabile". (p. 84)

Territori

Una critica al paradigma dell'eccezione impone di ripensare anche l'idea di spazialità ad esso sottesa. Uno dei casi presi in esame dagli autori è quello del centro di detenzione Camp Delta situato all'interno della base militare statunitense di Guantanamo. Coloro che osservano la realtà contemporanea attraverso le lenti dell'eccezione, considerano infatti Guantanamo come la dimostrazione più lampante e drammatica del progressivo affermarsi del modello del campo, sottolineando la grave violazione dei diritti di libertà provocato dalla extraordinary rendition. Ma al contrario di quello che comunemente si pensa, Guantanamo costituisce quanto di più distante ci possa essere dall'idea di uno spazio a-nomico. All'opposto esso costituisce un chiaro esempio di "ipertrofia normativa". Guantanamo si configura così come uno spazio di eccedenza più che di eccezione: una serie di soggetti "in esubero" vengono collocati all'interno di uno stesso perimetro, senza un ambito politico definito: dagli haitiani in fuga, ai balseros cubani liberati da Castro, agli enemy combatants detenuti al suo interno e non riconducibili alla tradizionale figura del nemico politico.
Questo esempio diviene l'occasione per sviluppare un discorso più generale sulle trasformazioni della territorialità e del confine nei nuovi scenari geopolitici. Ancora una volta rientra in gioco la figura di Schmitt, in questo caso lo Schmitt "internazionalista" del Nomos della Terra, opera nella quale non si riscontra più alcun accento decisionistico. Il centro di detenzione di Guantanamo dimostra la rilevanza del nomos inteso nella doppia accezione schmittiana di Ordnung e Ortung, di ordinamento e orientamento. Un ordinamento concreto non può mai essere ridotto alla sua forma o struttura giuridica, rilevando in esso tanto la sua disposizione spaziale quanto la concreta contesa tra forze materiali.18 Siamo distanti dunque dalla tesi di Bertrand Badie, che ha riscontrato negli ultimi anni un notevole successo, della "fine dei territori"19. Dei differenti significati del termine nomos ad entrare in crisi è forse quello connesso alla "localizzazione". Si prenda il caso dei nuovi muri (tra Stati Uniti e Messico, tra Cina e Corea, tra India e Pakistan, tra Israele e i Territori occupati). Se da un lato, sul piano sia materiale che simbolico, la costruzione di nuovi muri conferma la persistente e spesso tragica rilevanza del confine, in alcun modo essi possono essere ricondotti ad un'idea di territorialità chiusa, statica e geometricamente delimitata. Al contrario il territorio diviene una "matrice" mobile, in grado di incanalare in maniera differenziale e selettiva i flussi di forza lavoro, di merci e di capitali. Più che di fronte all'idea del territorio come strumento di delimitazione di un dentro e di un fuori ci troviamo, secondo gli autori, in presenza di un uso del territorio come strumento per definire status differenziali e per operare un controllo sulla mobilità fisica e sociale degli individui: "Se dunque i territori continuano a rappresentare un fattore cruciale, a venir meno è però la possibilità di rapportare la loro problematica centralità a un singolo principio ordinatore, un ultima istanza a un'idea univoca di sovranità" (p. 172).
Per estendere questo ragionamento facciamo un altro esempio, il caso dell'Unione Europea. Il suo assetto istituzionale infrange almeno tre capisaldi del modello classico della sovranità. Gli Stati dell'Unione hanno delegato alcuni dei loro poteri sovrani all'Unione conservandone altri (per questa ragione si è parlato di una "scomposizione" o addirittura di una "dispersione" dei poteri sovrani). Sul piano spaziale, inoltre, l'Unione sembra introdurre un'immagine dello stesso multiforme e a carattere variabile (l'Europa dell'euro non coincide con lo spazio di estensione dei suoi poteri sovranazionali). Infine, sembra venir meno l'idea, tipica del Leviatano moderno, di una coincidenza tra monopolio della decisione politica e monopolio della forza legittima (i poteri sovranazionali ai quali viene trasferita la decisione in alcune importanti materie sono privi di poteri coercitivi e, viceversa, gli Stati che continuano a detenerli si vedono progressivamente sottratti rilevanti ambiti decisionali).20
Alla luce di ciò risulta errato, dunque, considerare il rapporto tra globale e locale in termini oppositivi. Va sfatato il luogo comune della cosiddetta crisi dello Stato di fronte ai processi di globalizzazione. Gli Stati storicamente hanno sempre svolto un ruolo attivo in quel processo di costituzione del mercato mondiale. Uno degli ultimi lavori della sociologa statunitense Saskia Sassen21 ha gettato nuova luce su questa tematica. L'ordine globale, per Sassen, si sta formando contemporaneamente all'interno e all'esterno degli Stati nazione. Il globale è dentro la sfera nazionale nella stessa misura in cui il nazionale è dentro la dimensione globale. Nuovi "assemblaggi istituzionali", per Sassen, sarebbero in corso di formazione, istituzioni miste che comprenderebbero autorità nazionali, sovranazionali ed extranazionali. Tra queste istituzioni miste è indicativo il caso delle Banche centrali degli Stati, istituzioni di carattere statale-nazionale che sono divenute sedi di politiche monetarie globali. Le banche centrali diventano così matrici decisive di "assemblaggi transnazionali" che accorpando più istanze pubbliche o private, assumono come platea di riferimento di volta in volta il capitale globale, gli investitori internazionali o i mercati.22 E' dunque l'idea di una sovranità monolitica e di una rigida demarcazione tra il dentro e il fuori a dover essere problematizzata. In questo nuovo contesto frammentato, "frattalizzato" e in continuo divenire, sembra ci sia davvero poco spazio per la reductio ad unum dell'eccezione.


Note

1 In particolare di Guareschi ricordiamo Gilles Deleuze popfilosofo, Milano, Shake, 2001 e l'Introduzione a G. DELEUZE - F. GUATTARI, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi, 2006.
2 H. ARENDT, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2006; C. SCHMITT, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto di politico, Milanom Adelphi, 2005.
3 G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995 e ID. Stato d'eccezione. Homo sacer 2., 1, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
4 G. BATAILLE, La sovranità, Bologna, Il Mulino, 1990. 5 O. BRUNNER, Per una nuova storia sociale e costituzionale, Vita e pensiero, Milano 2000.
6 Cfr. W. WILHELM, Metodologia giuridica nel secolo XIX, Milano, Giuffrè, 1974.
7 Cfr. A. NEGRI - M. HARDT, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010.
8 Cfr. P. G. Grasso, voce Necessità (diritto pubblico), in Enciclopedia del diritto, vol. XXVII, Milano, Giuffrè, 1977, 866 ss. Dello stesso autore v. anche la voce Potere costituente, in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Milano, Giuffrè, 1985, 642 ss.
9 G. DELEUZE, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume , Napoli, Cronopio, 2000.
10 L. DE SUTTER, Deleuze e la pratica del diritto, Verona, Ombre Corte, 2011,
11 C. SCHMITT, La Dittatura. Dalle origini dell'idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Roma, Settimo Sigillo 2006; ID., Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in ID., Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino, 1998.
12 C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, Giuffrè, Milano 1984; ID., Il Custode della costituzione, Milano, Giuffrè, 1981.
13 Cfr. C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1996. Sulla poliedricità di Schmitt cfr. F. LANCHESTER, Carl Schmitt e la storia costituzionale in Quaderni Costituzionali, VI, n. 3, dicembre 1996.
14 Oltre alla già citata Dottrina confronta su questa tematica anche il saggio di Schmitt su Hugo Preuss e la dottrina tedesca dello Stato, in ID., Democrazia e liberalismo, Giuffrè, Milano 2001. Su questo punto v. A. BOLAFFI, Il crepuscolo della sovranità. Filosofia e politica nella Germania del Novecento, Roma, Donzelli Editore, 2002. p. 12.
15 J. FEREJOHN - P. PASQUINO, The Law of Exception. A Typolgy of Emergency Powers, in International Journal of Constitutional Law, 2, 2, 2004, pp. 210-239.
16 P. PINNA, L'emergenza nell'ordinamento costituzionale italiano, Giuffè, Milano 1988; G. MAZZARITA, L'emergenza costituzionale. Definizione e modelli, Milano, Giuffrè, 2003.
17 M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005.
18 C. SCHMITT, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum, Milano, Adelphi, 1991.
19 B. BADIE, La fine dei territori: saggio sul disordine sociale e sull'utilità sociale del rispetto, Trieste, Asterios, 1996.
20 Sull'assetto multiforme dell'Europa cfr. S. ORTINO, Introduzione al diritto costituzionale federativo, Torino, Giappichelli, 1996.
21 S. SASSEN, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all'età globale, Milano, Bruno Mondadori, 2006.
22 Per uno studio approfondito di questa tematica v. A. PREDIERI, Il potere della banca centrale: isola o modello?, Firenze, Passigli, 1996.




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