Dmytri Kleiner
Manifesto telecomunista
 
il manifesto - 23 ottobre 2011 Il "Manifesto Telecomunista" di Dmytri Kleiner - La condivisione che dà forma a una società di liberi e eguali
di Francesco Antonelli

Durante il mio corso di sociologia generale, mentre parlavo dei paradigmi della ricerca scientifica, uno studente mi ha chiesto: "se la scienza moderna si basa sul concetto di pubblicità, di condivisione delle scoperte, come si concilia questo con il fatto che le industrie utilizzano le conoscenze per fare profitto che poi rimane a loro?" Nella sua immediatezza, si tratta di una questione carica di radicalità che investe l'ambito della conoscenza in generale e che va al cuore stesso delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Per lo studente in questione come lo è stato perme, una lettura stimolante è certamente il Manifesto Telecomunista di Dmytri Kleiner (ombre corte, pp. 139, euro 13).
In questi anni abbiamo letto decine di "manifesti" che hanno il duplice intento di rilanciare un'alternativa forte di società e aggiornare il contenuto del Manifesto di Marx e Engels, soprattutto nell'indicazione delle nuove soggettività del conflitto. Anche in questo caso il soggetto in questione, non più esplorato nei suoi contorni ma dato ormai per consolidato, è il complesso dei lavori della conoscenza. Dmytri, sia nel suo percorso di vita come membro del collettivo tedesco Telekomunisten - occorre leggere il testo o fare un giro sul web per cogliere tutta l'originalità di questa esperienza - che come studioso militante, si confronta direttamente con l'ambivalenza della Rete e del capitalismo cognitivo, invece di eluderlo come fanno, purtroppo, molti studiosi radicali. Come evidenziato nell'introduzione, e in linea con l'impostazione metodologica di Marx, Dmyitri coglie da una parte le opportunità e le potenzialità che la Rete rende possibili in termini di condivisione e moltiplicazione collaborativa della conoscenza. Dall'altra, ad essere evidenziato è il costante movimento di appropriazione di questa ricchezza, naturalmente comune e gratuita, trasformata in merce dalle grandi industrie culturali e informatiche contemporanee - come ha fatto sistematicamente, ad esempio, Apple: lo sviluppo delle forze produttive è bloccato dai rapporti di produzione, che oggi assumono la fondamentale forma giuridica del copyright.
La recinzione giuridica dell'immateriale (progressiva espropriazione dei beni e spazi pubblici, o commons) è ciò che separa, innaturalmente, il produttore dal consumatore di software, di prodotti culturali e così via, limitando la possibilità di generazione di nuove conoscenze, ricchezze anche materiali e, soprattutto, la loro più equa distribuzione in un mondo che, al contrario, diventa sempre più ineguale. Dal riconoscimento della schizofrenia del lavoratore della conoscenza, nasce l'originalità e la forza politica della proposta di Dmytri e la sua rottura con l'idea stessa di rivoluzione o anche di riformismo, condivisa da una parte significativa dei movimenti socialisti e comunisti del Novecento: per superare questa situazione occorre partire dal basso e non più dall'alto, dalla sfera materiale e non dallo Stato.
Sviluppando le forme alternative di organizzazione della produzione dell'immateriale - come le comuni alla Telekomunisten - inmodo che, più aderenti alla logica e alle potenzialità della Rete, essi risultino non solo eque socialmente ma superiori economicamente. In modo da realizzare, alla fine del movimento, una rivoluzione del sistema che nasce però dall'interno del sistema stesso, nell'esigenza di ricomposizione dell'alienazione subita dal lavoratore della conoscenza contemporaneo. Dmytri offre un interessante declinazione del riformismo radicale: se la classe operaia differiva dalla borghesia come attore portatore, innanzitutto sul piano economico, di un superiore modello di produzione, se non attraverso la mediazione della politica, il lavoratore della conoscenza è esattamente un simile soggetto che il rivoluzionario e intellettuale di Treviri non aveva ovviamentemai potuto conoscere. Certamente questa superiorità economica della comune fondata sulla logica pear to pear - e dunque, solo parzialmente riconducibile alla tradizione dell'autogestione o, anche, del movimento cooperativo, se non sul piano delle finalità generali - è tutta da dimostrare.
Come tutta da dimostrare è, la fondatezza della sua analisi della struttura di classe contemporanea: la categoria del lavoratore della conoscenza, infatti, presenta una profonda stratificazione interna e non è monolitica come pensa Dmytri. Lo sceneggiatore di serie come Lost non guadagna come e non ha gli stessi interessi di un precario dell'università italiana. Che sul piano politico prevalga poi la comune condizione di creatori di simboli e del loro utilizzo in un processo politico- economico, come la creazione delle comuni, è un puro abbaglio volontaristico. Che si trasmette alla critica cheDmytri fa delle forme alternative al copyright, come il copyleft (puoi utilizzare liberamente un bene culturale purché il nuovo prodotto derivato porti con sé la medesima libertà) o i creative commons (il creatore del prodotto può scegliere quali limitazioni devono essere applicate al suo utilizzo).
Il punto, tutto politico, metro su cui deve basarsi in ultima analisi la valutazione di un "manifesto", è il riconoscimento flessibile della funzione autoriale, garantita in entrambi i regimi alternativi, che Dmytri - sebbene sul punto l'autore sia molto ambiguo - sembrerebbe voler dissolvere: non parliamo tanto del riconoscimento economico quanto di quello sociale. Se non si vuol cadere nell'utopia, un punto del genere non può essere liquidato dall'idea che tutti i lavoratori della conoscenza siano riassorbiti da un'unica figura, il prosumer, e da un'unica, pura, volontà collettiva di creazione. Al contrario, occorre fare i conti, anche per un miglioramento della critica al copyright, proprio con il portato individualistico dei lavoratori della conoscenza e con le loro articolazioni interne. In un serrato confronto con quella ambivalenza della Rete, da cui Dmytri stesso parte.



Il futurista - 31 - 19 gennaio 2012

Manifesto "telecomunista" per la Rete del futuro

di Carmine Castoro

Territorio e Rete. Carnale e virtuale. Materialità e software. Beni di consumo e beni di produzione. Non sono più poli opposti, termini di un antagonismo irrisolto, ma stazioni critiche, possibilità dinamiche e interconnesse sulla via di una ristrutturazione profonda, radicale della società di oggi, in nome della libertà, della responsabilità, della distruzione di ogni forma di sfruttamento. È questa la cornice del bel libro di Dmytri Kleiner Manifesto Telecomunista (Ombre Corte, pagg. 139, euro 13) che ha il raro pregio della lucidità e della compiuta sensatezza del linguaggio e delle terminologie filosofiche usate. Un linguaggio che non indulge affatto a ideologie d'antan, non sguazza nel brodo degli schieramenti politici, ma riporta lo spessore antico ed evocativo di alcune parole, marcate dal vocabolario collettivo della storia, alla loro radice ultima, destinale, esistenziale, e dunque più che mai attuale. Nessuna nostalgia di cappotti cosacchi, archivi di stato polverosi, e realismo sovietico, dunque, nel termine "comunista", che, pur ricondotto alla sua matrice marxista e rivoluzionaria, si impregna di nuova linfa col concetto di "comune".
Un concetto affascinante sul quale si fondano quelli ancor più cogenti di comunità, comunione e comunicazione ancora asserviti, secondo l'autore, alle forme di produzione e sussunzione tipiche del mercato neoliberista. All'interno delle quali la stessa ricerca, l'innovazione, le tecnologie, la libera impresa, fanno parte di un orizzonte di accentramento delle risorse, di padronato illegittimo, di accaparramento di denaro e di potere a danno delle classi più deboli. Che coltivino la terra, lavorino in fabbrica, o si esprimano con la creatività tipica di Internet e dei saperi globalizzati. La svolta teorica affascinante di Kleiner, sviluppatore di software e studioso dei risvolti economico-politici della Rete, consiste proprio nell'intravedere un'unica piattaforma oligarchica e discriminatoria dietro le contraddizioni economiche classiche come dietro le nuove forme di intelligenza tipiche delle economie immateriali o virtuali. La sua analisi più corrosiva è quella contro il cosiddetto Web 2.0 spacciato come la nuova effige di autonomia e pariteticità fra utenti, basterebbe pensare a YouTube e alla possibilità di caricare, senza conoscenze e competenze specifiche, video e testimonianze di qualsiasi tipo. E invece no, dice Kleiner. "Il valore prodotto dagli utenti dei servizi Web 2.0 come YouTube è catturato dagli investitori capitalisti. L'appropriazione privata di valore creato dalla comunità è un tradimento della promessa di una tecnologia condivisa e basata sulla libera cooperazione... Poiché i capitalisti che investono nel Web 2.0 spesso non finanziano l'avvio di un sito, il loro comportamento è marcatamente parassitario. I capitalisti del Web 2.0 a volte arrivano dopo, quando la creazione di valore ha già un buon andamento. Come un rapace scendono in picchiata per accaparrarsi la proprietà dei contenuti e usano il loro potere finanziario per promuovere il servizio, spesso favoriti da una rete di grandi partner finanziari". Dalla produzione massiccia, muscolare, potremmo definirla, dalla filiera industriale come da quella di servizi, idee e contenuti collegata alle interfacce informatiche, può provenire allora lo stesso messaggio di cooperazione, di creazione di un nuovo assetto sociale e di un nuovo modello di individuo che rinunci, finalmente e del tutto, agli interessi di parte delle élite capitalistiche e di chi si appropria del lavoro altrui offrendo in cambio solo la moneta della sussistenza. I commons erano proprio questo, l'uso comune delle terre per l'alimentazione del bestiame da parte dei pastori, "regolato da antichi diritti anteriori alle leggi e ai governi moderni". Su questo Kleiner forgia, anzi corregge con tanto di linee che depennano, gli articoli del famoso Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels del 1848, poiché - come sottolinea giustamente Benedetto Vecchi nel saggio introduttivo - la sua "rivoluzione molecolare non prevede nessuna conquista dell'apparato statale, perché lo stato viene progressivamente svuotato di qualsiasi funzione dal diffondersi di forme produttive autorganizzate e di servizi sociali autogestiti". Il vocabolario di Kleiner va dunque a imprimere, in una sorta di versione rivista e corretta del famoso Manifesto, termini ed espressioni come "decentralizzazione", "valore sociale", comunione di tutti i mezzi di produzione", "pari opportunità", "distribuzione generalizzata", andando ben al di là di quelli che citavano esplicitamente sistemi ablativi, espropriativi e concentrativi che il movimento operaio avrebbe dovuto applicare per portare il suo "dominio" su quelle forme di potere prima rette dal pensiero e dall'operativismo tipici della borghesia. La parte finale del bel testo di Kleiner è una riorganizzazione della complessa materia del "copyright", declinata anche questa con nuovi approcci e appelli "dal basso" per favorire quel venture communism che vede nella circolazione libera del sapere, unita al rispetto dell'idea-madre ma in un regime di patrimonio comune, il possibile superamento degli squallori del lavoro salariato, umiliante e insostenibile per il bracciante come per il postmoderno netslave, lo schiavo della Rete.









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