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Decolonizzare la follia
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Scritti sulla psichiatria coloniale
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Il manifesto - 8 luglio 2011
I dannati della terra persi nella spirale del manicomio
Pubblicati gli scritti sulla psichiatria, molti dei quali inediti in Italia Riflessioni che rivelano la loro attualità nel mettere a fuoco le relazioni di potere tra terapeuta e paziente
di Paolo Peloso
Frantz Fanon psichiatra. Non è solo una professione, la sua, esercitata per mantenersi mentre il cuore batte altrove, tutto preso nella questione coloniale, e tanto meno una copertura negli anni della cospirazione in Algeria. È un'altra questione, quella psichiatrica, nella quale è intensamente impegnato nei pochi anni della maturità, dal 1952, anno della laurea e della pubblicazione di Pelle nera maschere bianche, al 1961, anno della morte e della pubblicazione de I dannati della terra. E le due questioni, psichiatria e colonia, incessantemente si intrecciano in Fanon, rimandando l'una all'altra; due temi gemellari, per i biografi, che non possono essere considerati separatamente. Lo psichiatra è un doppio che vive con il rivoluzionario una condizione di scambio incessante. La centralità della questione dell'uomo, e delle relazioni tra gli uomini, nutre il suo esercizio di clinico e i suoi scritti politici, che abbondano di riferimenti propri dell'ambito medico e psichiatrico. Così come l'ansia di demistificazione e di liberazione che anima la sua attività politica è la stessa che avvertiamo nei suoi scritti di psichiatria.
Quella del nero non è mai solo un'esperienza, è immediatamente un'esperienza vissuta, sofferta. E forse proprio questo continuo intrecciarsi tra due dimensioni altrettanto importanti della sua persona ha contribuito a far sì che il Fanon politico, più noto, lasciasse per lo più in ombra lo psichiatra, sottraendo ai suoi cultori una parte importante della sua personalità, e alla storia della psichiatria un suo protagonista a pieno titolo. La pubblicazione in italiano, curata da Roberto Beneduce, dei suoi scritti psichiatrici (Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, ombre corte, pp. 173, euro 16) rappresenta quindi un indispensabile complemento per chi voglia conoscerne il pensiero nella sua complessità. Costituisce una parte, finora mancante, di un insieme indivisibile.
Come psichiatra, Fanon si era formato a Saint-Alban, presso François Tosquelles, in quello che, in quegli anni, era considerato giustamente uno degli ambienti psichiatrici più avanzati e aperti al mondo, dove si stava sperimentando la socioterapia delle malattie mentali. In uno scritto del 1952, La sindrome nordafricana, sono già evidenti due elementi che rimarranno centrali nella sua ricerca: l'interesse per il rapporto tra psichiatria e questione coloniale, e la consapevolezza che non si può fare psichiatria mettendo tra parentesi le relazioni di potere nelle quali la sofferenza del paziente si manifesta. Un tema, questo, che ritornerà più potente nella famosa Lettera al ministro residente con cui Fanon lascerà l'Algeria nel 1957.
Il suo primo incarico lavorativo lo ebbe nel 1953, in un manicomio della Normandia, dove l'applicazione dei metodi liberali di cura che aveva appreso a Saint-Alban non fu molto apprezzata. Fu dunque costretto a lasciare l'incarico. Così, la seconda offerta di lavoro lo portò a Blida, il manicomio dell'Algeria francese, e segnò il suo destino. È lì che avrà modo di sperimentare la socioterapia e constatare, attraverso l'esperienza, che i metodi elaborati in Europa possono funzionare con soggetti di cultura europea, mentre possono fallire quando applicati a soggetti di altre culture. Si tratta di una scoperta che sarà confermata da altri saggi del periodo algerino, nella quale Beneduce individua il punto di svolta tra la vecchia etnopsichiatria e l'etnopsichiatria critica. Capace, la prima, di raggiungere le rappresentazioni grottesche dell'altro che Fanon illustra nel breve ma prezioso saggio apparso anonimo nel 1955, e qui reso disponibile per la prima volta. E caratterizzata invece, la seconda, dalla caduta del pregiudizio eurocentrico e della scotomizzazione dei rapporti di potere, cioè dall'aspirazione a decolonizzare, appunto, la follia.
Nel sottolineare giustamente l'importanza del contributo di Fanon nel campo etnopsichiatrico e nel riferire il suo lavoro psichiatrico alla questione della colonia, che ne costituisce certo il contesto, occorre però fare attenzione a non lasciare in ombra l'importanza che assumono, nella storia recente della psichiatria, anche altre sue rilevanti e ancora attuali osservazioni.
Il riferimento è alla Lettera al ministro residente - il cui tema centrale è già ravvisabile, appunto, in La sindrome nordafricana, di cinque anni precedente - che ebbe un ruolo importante nell'evoluzione della psichiatria italiana del successivo decennio. Essa fu infatti ripresa da Basaglia nel denunciare la scandalosa situazione manicomiale nella quale versava il nostro paese alla fine degli anni Sessanta, quando il manicomio italiano era diventato per lui un contesto nel quale, come aveva sostenuto Fanon per la colonia (e come ancora oggi, non dimentichiamolo, può accadere), la totale spogliazione di potere e dignità dell'altro impediva l'esercizio del lavoro medico e psichiatrico, imponendo, ancor prima sul piano scientifico che etico, la sua demistificazione.
Altrettanto significativo è il saggio del 1959, nel quale Fanon analizza la propria esperienza al day hospital neuropsichiatrico dell'ospedale civile di Tunisi. Qui, oggetto della sua critica è la socioterapia, e quindi la psichiatria del tempo nella sua massima modernità e apertura democratica, nella quale coglie molti limiti e rischi che oggi avvertiamo presenti nelle nuove istituzioni e nei modelli con i quali gli psichiatri lavorano. Certo, quelle di Fanon sono parole di uno psichiatra degli anni Cinquanta, ma capaci di cogliere i problemi che si venivano profilando e le sfide che ancora oggi rimangono di straordinaria attualità. Un saggio, come molti altri della raccolta, che chiunque sia in interessato alle questioni dell'assistenza psichiatrica dovrebbe senz'altro conoscere.
il manifesto - 5 ottobre 2011
Cancellati nella tela del potere
di Miguel Mellino
Una riflessione sull'opera del teorico militante a partire dalla pubblicazione degli scritti psichiatrici. Testi fondamentali per le successive elaborazioni contenute nei "Dannati della Terra", nei quali il disagio mentale dei colonizzati può essere affrontato dal punto di vista clinico, ma svelando anche le condizioni di illibertà imposte dal colonialismo
A cinquanta anni dalla morte di Frantz Fanon escono in Italia alcuni dei suoi più importanti scritti psichiatrici. È la casa editrice ombre corte a proporci questa suggestiva raccolta: Decolonizzare la follia, a cura di Roberto Beneduce - direttore del Centro Frantz Fanon di Torino - e corredata da un suo ampio e interessante saggio introduttivo. Si tratta di un testo che mancava, dal momento che ci consente di conoscere meglio uno dei lati paradossalmente meno approfonditi della vita e del pensiero di Fanon: quello legato alla sua attività di psichiatra. Come ci ricordano David Macey e Alice Cherki, autori delle migliori biografie di Fanon in circolazione, è difficile capire il suo percorso teorico-politico - la genesi del suo umanesimo anticoloniale e militante - senza collocare sullo sfondo della sua opera anche l'esperienza di psichiatra, sia nella Francia metropolitana che nell'Algeria e Tunisia coloniali.
Corpo in frammenti
Nonostante il suo intenso coinvolgimento sia nel dibattito filosofico dell'epoca sia nell'attività rivoluzionaria del Fln algerino, Fanon non smise mai di dedicare buona parte delle sue energie alla professione di psichiatra. Forse vale la pena ricordare che Pelle nera. Maschere bianche (1952) prese corpo proprio come tesi di dottorato in Psichiatria e che I dannati della terra (1961) si chiude con un lungo resoconto degli effetti destrutturanti della tortura e della violenza su alcuni dei suoi pazienti (colonizzatori e colonizzati) mentre era direttore dell'ospedale psichiatrico di Blida. Per questo, appare difficile capire la pratica teorica e politica fanoniana senza prendere seriamente in considerazione questa "passione per la cura altrui", questa estrema sensibilità nei confronti della sofferenza psichica ed esistenziale di quelli che chiamerà qualche anno dopo I dannati della terra.
Si tratta di una passione che lo accomuna a un altro grande rivoluzionario: Ernesto Che Guevara. E come nel caso di Guevara, fu proprio questa passione, questa esperienza di vita accanto a soggetti umiliati dalla violenza razziale, economica e culturale dell'imperialismo occidentale, a mostrare al giovane "psichiatra" Fanon la futilità di qualsiasi pratica emancipatoria (medica, politica, ecc.) che non fosse accompagnata dalla soggettivazione politica di chi viveva nel proprio corpo questo stato di umiliazione-espropriazione.
Questa "passione per la cura" ebbe un ruolo importante nella genesi di una delle sue concezioni chiave: non ci può essere alcuna reale disalienazione dei colonizzati senza una loro effettiva "presa di parola", senza una loro decisa determinazione a riprendersi la vita nelle proprie mani. E questo perché, come egli spiega sin dalle prime pagine del saggio Pelle nera, maschere bianche, il razzismo costitutivo del modo di produzione coloniale implica di per sé l'annichilimento soggettivo del colonizzato, ovvero la sua riduzione a mero "corpo in frammenti".
Nelle colonie, dunque, le patologie psichiche appariranno a Fanon un problema eminentemente politico. Non si tratta però di fare di Fanon un Foucault antelitteram o un precursore dell'antipsichiatria. Dai suoi scritti psichiatrici affiora in modo sintomatico quello stesso significante padrone che regola il resto della sua narrazione: date le condizioni costitutive di pura violenza del potere coloniale qualsiasi approccio esclusivamente "clinico" o "medico" al disagio psichico dei colonizzati non potrà che rivelarsi fallimentare. In breve: per Fanon non vi è cura senza la ricostituzione di un mondo di relazioni autenticamente umane, senza il superamento dell'inferiorizzazione culturale dei "nativi" e del loro riconoscimento negato. Così, è chiaro che ciò che fa del colonizzato un dannato non è, contrariamente a un luogo comune (coloniale) piuttosto diffuso, il suo status di vittima ma soprattutto la sua potenziale soggettivazione riparatrice.
Fallimento dell'assimilazione
Questo stretto legame tra violenza coloniale e psiche è uno dei fili-conduttori dei saggi psichiatrici. Si tratta di scritti pubblicati in diverse riviste tra il 1951 e il 1959, e che, combinando questo presupposto con i principi della "terapia sociale" sperimentata alla clinica di Saint-Alban con Francois Tosquelles, prendono di mira le concezioni razziste dei nordafricani diffuse allora dalla psichiatria coloniale dei vari Antoine Poirot (fondatore della scuola di Algeri) e J.C. Carothers (autore nel 1954 per conto dell'Organizzazione mondiale della sanità di un polemico studio sulla "mentalità del nero africano"). Si può sostenere che ciò che Fanon considerava come dinamiche psicopatologiche costitutive della "situazione coloniale" non faceva che confermare i suoi convincimenti sull'efficacia della terapia sociale come strumento di cura.
Due dei saggi della raccolta sono emblematici. In "La terapia sociale in un servizio psichiatrico di uomini musulmani" Fanon prende spunto da un suo fallimento terapeutico: i metodi di risocializzazione applicati con successo alle donne europee ricoverate a Blida - istituzione di feste e cineforum, redazione di un giornale interno, terapie di gruppo, sedute musicali, spettacoli teatrali, corsi di attività manuali, ecc. - si erano rivelati del tutto inadeguati per gli uomini musulmani. Fanon non dubita nell'attribuire il fallimento a un presupposto (coloniale) implicito della psichiatria dominante all'epoca: "Lo psichiatra, senza riflettere, adotta la politica dell'assimilazione, secondo cui l''autoctono non ha bisogno di essere compreso nella sua specificità culturale. Lo sforzo deve essere fatto "dall'indigeno" poiché si crede che questi ha tutto l'interesse a somigliare al tipo di uomo che gli proponiamo. C'è tutta una cultura che deve sparire a vantaggio di un'altra". Viceversa, sostiene Fanon, lo psichiatra deve assumere qui un atteggiamento rivoluzionario, ovvero passare da una posizione in cui "la supremazia della cultura occidentale era evidente" a una sorta di "relativismo culturale". In altre parole, doveva rimettere insieme ciò che la psichiatria tradizionale aveva separato: il biologico, lo psicologico e il sociologico. Si trattava quindi di passare dall'esistenza naturale dei soggetti a quella culturale. Ed è questo quanto Fanon farà: proporre delle attività terapeutiche di risocializzazione più consoni non solo al mondo socioculturale dei "contadini musulmani algerini", ma anche a ciò che possiamo chiamare la loro situazione post-coloniale. È importante sottolineare quest'ultimo aspetto: ciò che Fanon vuole mettere in luce non è - contrariamente all'orientalismo dell'antropologia dell'epoca - l'idea di una società algerina immobile e quindi la necessità di reinserire i contadini algerini in strutture e istituzioni semplicemente "tradizionali".
Fanon mette al centro della sua analisi anche la situazione materiale reale dei pazienti musulmani: si tratta di contadini rimasti senza terra e alla mercé di se stessi dopo il processo di destrutturazione comunitaria e detribalizzazione generato dall'irruzione del colonialismo francese e dei suoi meccanismi di accumulazione originaria. È da questo trauma che occorre ripartire: ogni terapia di riabilitazione dovrà assumere non soltanto la loro appartenenza a un mondo socioculturale governato dalla religione musulmana e quindi da abitudini ben diverse da quelle occidentali; ma anche, "che questi contadini sono attaccati alla terra, che costituiscono un tutt'uno con essa". Così, sarà soltanto se si riesce ad "assegnar loro un pezzo di terra", a farli interessare alla resa della coltivazione. che il lavoro potrà diventare "davvero un fattore di cura e riequilibrio".
Queste conclusioni di Fanon non devono essere fraintese: non stanno a indicare un suo lato bucolico, antiurbano o antimoderno, come sostiene Francoise Verges; e nemmeno la vicinanza del suo metodo a un'etnopsichiatria alla Tobie Nathan. Le sue osservazioni ci parlano chiaro invece dei due fondamenti che egli colloca alla base della sua "psichiatria anticoloniale": a) la necessità di ricondurre diagnosi e prognosi alla dimensione culturale dei pazienti, ovvero a quella stessa dimensione negata e derisa tanto dal dominio coloniale quanto dalla psichiatria razziale dell'epoca; b) nei contesti coloniali le diverse patologie psichiche dei colonizzati si mostrano prima di tutto come sintomo dell'occupazione violenta del territorio e quindi del razzismo economico e culturale espropriatorio che ne deriva.
Le gerarchie della cittadinanza
Si tratta dei primi due passi necessari a una radicale decolonizzazione tanto della follia quanto della psichiatria. Fanon ci offre un'applicazione eccellente di questi due presupposti in un altro dei saggi della raccolta: "Condotte di confessione in Nord-Africa". Qui egli ci mostra che se in Algeria c'è la pratica di negare la propria ovvia responsabilità per delitti commessi davanti alla corte ciò non è dovuto a una tendenza genetica alla bugia da parte dei nativi, come sosteneva la psichiatria di Porot. Piuttosto, ci dice Fanon, rifiutando la confessione i nativi non fanno che destituire di ogni legittimità il potere (coloniale) giudicante: "Questo rifiuto dell'imputato musulmano di autenticare, attraverso la confessione del suo gesto, il contratto sociale che gli si propone significa che la sua sottomissione, spesso profonda, osservata nei confronti di tale potere, non può essere affatto confusa con l'accettazione di tale potere".
Questi scritti psichiatrici di Fanon dunque possono rivelarsi fondamentali per comprendere nel suo farsi molte delle concezioni attorno cui egli costruirà la trama dei suoi testi più noti. Particolarmente rilevante è l'interesse mostrato in questi scritti per gli studi di Lacan sulle origini culturali della paranoia, sulla "fase dello specchio" e sulla follia come elementi costitutivi della soggettività; di Ferenczi sugli effetti sociali del "trauma"; di Mauss sul "fatto sociale totale" e di M. Klein sulla "cultura del corpo come superamento dell'angoscia". Sono concezioni che verranno rielaborate e incorporate alla sua critica dell'ontologia del colonialismo. Ma soprattutto è dall'esperienza psichiatrica che comincia a prendere corpo la sua teoria sul razzismo; una teoria che egli cercherà di mettere a punto in "Razzismo e cultura". Fanon qui è molto chiaro. Il razzismo non va mai pensato come una mera tara psicologica. Non è un semplice atteggiamento mentale, non è xenofobia, non è paura dell'altro.
Il razzismo è violenza materiale, corporea, il prodotto di un sistema di sfruttamento complessivo. Il razzismo è conseguenza e non causa. È l'asservimento materiale a comportare inesorabilmente l'inferiorizzazione culturale dei gruppi subalterni. Per tutto questo, non si può combattere il razzismo senza mettere in discussione l'intero sistema di cui è prodotto. Come a dire che non può esistere un antirazzismo che non sia radicale, che non sia rivoluzionario: che non sia capace di mettere in discussione integralmente una società che non sa riprodursi se non attraverso meccanismi di "inclusione differenziale", attraverso la razzializzazione e la gerarchizzazione della cittadinanza.
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