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il manifesto - 12 maggio 2012
Alla radici del lavoro (planetario)
di Michele Nani
La «Global labour history», narrata nel libro edito da «ombre corte» per la cura di Christian De Vito, esplora la possibilità di una storia sociale strutturale Trasformazioni capitalistiche, modi di produzione, conflitto fra centro e periferie, flussi migratori sono le reti tematiche da riconsiderare
La più recente delle ricorrenti ondate di «globalizzazione» che la storia degli ultimi secoli ha presentato si è imposta come «la» globalizzazione per eccellenza. Abbiamo così perduto la profondità storica del processo e la sua intrinseca problematicità. Nell'idea di un livellamento planetario si oscura ad esempio la dimensione di classe della «globalizzazione»: vi sono livelli di circolazione articolati (le cosmopolite vite delle élites e le difficoltà dei migranti ordinari) e le stesse comunicazioni sono segnate dalla frattura del digital divide, l'accesso socialmente e geograficamente diversificato alla rete e all'informazione (Anne-Catherine Wagner, Les classes sociales dans la mondialisation, La Découverte). Fra le contraddizioni che la storia della globalizzazione evidenzia, la principale è senza dubbio quella che vede il susseguirsi e intrecciarsi della formazione di connessioni mondiali e del loro smantellamento. Non c'è alcun processo lineare ed evolutivo verso un mondo unificato: alla grande internazionalizzazione degli anni 1870-1914 seguì la relativa chiusura del trentennio successivo e la stessa ricorrente unificazione dei mercati e delle società va di pari passo con chiusure e conflitti. Senza negare le discontinuità e l'approdo ad un presente più interconnesso, la prospettiva storica contribuisce alla critica delle pretese cesure epocali. Eppure anche la storiografia è stata investita pienamente dalle sollecitazioni dell'ultimo quarto di secolo «globalizzato».
Letture di classe
Corsi, convegni, riviste e libri dedicati alla World History, al «transnazionale» o alla «storia globale» hanno creato un nuovo terreno di studi, ma anche nuove prospettive entro le tradizionali partizioni delle discipline storiche. Accanto alla sociologia storica (Beverly Silver, Le forze del lavoro, Bruno Mondadori 2008, prontamente presentato su queste pagine da Benedetto Vecchi il 16 gennaio 2009), un esempio di grande interesse è offerto dalla storia del lavoro e dei lavoratori. Dobbiamo ora a Christian De Vito la cura e traduzione di una serie di contributi sulla Global labour history, in un denso volumetto appena pubblicato da ombre corte, che si conferma, grazie alla sensibilità di Sandro Mezzadra e all'apertura dell'editore, un canale di introduzione e diffusione delle proposte più interessanti delle scienze storiche e sociali internazionali. Gli addetti ai lavori sono da tempo consapevoli dell'importanza del lavoro dell'Istituto Internazionale di Storia Sociale di Amsterdam (http://socialhistory.org/), ma finora i cantieri allestiti dagli studiosi olandesi, in una fitta rete che si distende da un capo all'altro del mondo (India, Corea, Brasile...), non avevano conosciuto, «manifesto» a parte, una presentazione italiana (si veda però anche Nico Pizzolato, Fatiche globali. Un'agenda per la storia del lavoro, Zapruder, n. 10, 2006).
La proposta di una storia globale del lavoro e dei lavoratori rimanda alle trasformazioni dell'Istituto di Amsterdam da archivio del movimento operaio (che custodisce le carte di Marx ed Engels, di Kautsky, delle internazionali socialiste e sindacali, fino agli archivi dei movimenti anticoloniali) a ente di ricerca, in un fase di crisi della storia sociale della classe operaia. Invece di cambiar discorso, tornare ai rassicuranti lidi di una storia politica tradizionale o dialogare con il postmodernismo rampante di gran parte della nuova storia culturale, dalla fine degli anni Ottanta Jan Lucassen e poi Marcel van der Linden hanno imbastito un programma di lavoro che ha mantenuto l'obiettivo di una storia sociale strutturale, l'importanza dei grandi quadri e il rilievo della trasformazione capitalistica e della lettura di classe, aprendosi però a sistematiche riconsiderazioni del bagaglio tradizionale della labour history. Questo atteggiamento ha condotto a significative innovazioni, opportunamente sintetizzate da De Vito in un triplice «allargamento della prospettiva» della storia sociale classica: «tematico», alla classe si sono affiancate così altre forme di identità (di genere, linguistico-culturali e religiose); «cronologico», all'insistenza sull'età contemporanea si è preferito uno sguardo sulle radici lunghe del presente, sfumando lo spartiacque della «rivoluzione industriale» e, dunque, la paradigmaticità del caso inglese; «geografico», all'idea di una centralità europea e atlantica si è opposta la costruzione dialettica di un mondo globale, nel quale le «periferie» non sono un residuo arretrato, ma un diverso modo di presentarsi delle stesse dinamiche «moderne». Il risultato è la dissoluzione dei pregiudizi eurocentrici impliciti e la messa in discussione del «nazionalismo metodologico» (Ulrich Beck), che fa dello Stato-nazione l'unità «naturale» di analisi, la cornice della «società».
Verso la forma salariale
L'incontro con i Subaltern studies della storiografia indiana è stato decisivo e ha condotto a un ulteriore allargamento, questa volta concettuale: visto su scala globale, il lavoro sotto comando capitalistico assume nuovi contorni e costringe a ripensare le stesse categorie di analisi. Il lavoro salariato «libero», celebrato come forma per eccellenza del rapporto di produzione capitalistico (sin dai tempi di Marx e di Weber), diviene così solo una delle forme possibili di «mercificazione» della forza-lavoro. Il capitalismo ha saputo mettere al lavoro, cioè «sfruttare», sia i «proletari», che possedevano solo le proprie braccia, ai quali corrispondeva un pagamento in cambio di una giornata o di una prestazione, sia altre figure sociali: il lavoro non salariato è stato estorto a coloro che non possedevano nemmeno le proprie braccia, come schiavi e servi, o è stato erogato da chi possedeva braccia e mezzi di produzione, cioè intere famiglie, lavoratori autonomi o cooperative. Si tratta di una questione controversa, già al centro degli interrogativi di Immanuel Wallerstein (Il capitalismo storico, Einaudi 1983) e dell'antropologia economica: se il salariato fosse la forma contrattuale più congeniale al modo di produzione capitalistico, perché non si è generalizzato e al contrario ha convissuto con una gamma estesa di modalità lavorative?
Eppure il lavoro salariato, la separazione dei produttori dai mezzi di produzione e la creazione di un mercato del lavoro «libero» da vincoli (specie se tendono alla tutela di chi lavora), continua a diffondersi: ma come ai tempi di Marx anche oggi non si dà in forme «pure», bensì costantemente intrecciate con elementi non salariali, che vanno dal lavoro domestico all'intervento di regolazione o di coercizione dello Stato. Il problema è complicato e ha a che fare con la coesistenza di diversi modi di produzione nella stessa formazione sociale e, anche, con la molteplicità dei lavori, la «pluriattività» che con la diversificazione delle fonti di reddito ha consentito storicamente alle famiglie povere di sopravvivere alla precarietà dell'occupazione e del rapporto con la terra. Il nodo non è risolvibile in punta di teoria, ma solo attraverso una ricostruzione storica delle forme concrete di sfruttamento del lavoro e di proletarizzazione parziale. La discussione, in merito, è accesa, perché implica una nuova definizione della «classe» che produce i profitti e consente l'accumulazione, più inclusiva di quella cara al marxismo classico: a una «classe operaia» di «proletari» la global labour history preferisce classi lavoratrici, labouring poors o lavoratori subalterni.
Una diaspora proletaria
Nel 2000 un convegno ad Amsterdam ha fatto il punto sullo «stato dell'arte»: Global labour history, il ponderoso volume che ne ha poi pubblicato gli atti, ha rappresentato un punto di riferimento per gli studiosi (vedi «il manifesto», 1 agosto 2008). Di mole più ridotta, ma altrettanto stimolante, il libro dallo stesso titolo oggi messo a disposizione del lettore italiano dà efficacemente conto di quel che significa, come recita il sottotitolo, la storia del lavoro al tempo della «globalizzazione». Gli italian workers of the world, l'immensa «diaspora proletaria» (per dirla con Eric Wolf) del secolo dell'emigrazione italiana sono stati già al centro di una storia transnazionale, grazie ai lavori di Gabaccia, Fraser, Ottanelli e Fasce: e se una nuova generazione di storici e storiche raccogliesse le lezioni del grande cantiere di Amsterdam e scrivesse una storia globale del lavoro in Italia? Proprio il modello di ricerca collettiva e collaborativa elaborato dall'Istituto di Amsterdam, al di là dell'anacronistica insistenza sulla produzione (e valutazione) individuale degli studi storici vigente nelle nostre accademie, potrebbe fornire la cornice più adatta.
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