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Biocapitale
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Vita e corpi nell'era del controllo biologico
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Il manifesto - 12 luglio 2011
La produzione della vita
Mappatura del Dna umano, biopirateria, brevetti, manipolazione genetica, bioingegneria. Il puzzle e i temi relativi a un emergente settore economico ricostruiti in un recente libro edito da ombre corte
di Federico Rahola
Per capire come ogni distinzione tra economia reale e finanziaria "si dissolva nell'aria" basta guardare al mondo della biomedicina e delle biotecnologie. È soprattutto una questione di tempi, di futuri anteriori. Lo suggerisce il ricorso al termine "postgenomico", che i profani potrebbero interpretare come un inverosimile "oltre il genoma", e invece indica lo zero imposto dal suo sequenziamento. A emergere è quindi un tempo ipotetico, che si proietta su momenti a venire da cui irradia scommesse sul futuro. Lo sviluppo delle biotecnologie, popolato da un lessico à la Dick (corpi embrioidi, crioconservazione, linee cellulari immortalizzate), è in realtà consustanziale alla finanziarizzazione: oltre a esprimere le stesse temporalità proiettive e logiche speculative, ne costituisce un'immediata epifania materiale, quasi la ricaduta "vivente".
Per certi versi siamo talmente dentro la soglia biopolitica della modernità individuata da Michel Foucault ("l'uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente") da esserne oltre, "post". Del resto, neppure Foucault avrebbe potuto immaginare una traduzione tanto letterale di biopolitica e uno scenario che ne eccedesse in modo così violento i contorni - a partire da quelli statuali, contesto implicito della sua analisi dei biopoteri. Semplificando, se per biopolitica si intende la presa in carico del vivente, principale posta in palio delle moderne tecnologie di governo, il biocapitalismo indica la sua messa a valore, e colloca le biotecnologie al centro delle nuove logiche di accumulazione e valorizzazione, di quella produzione della vita a mezzo vita o, seguendo Christian Marazzi, dell'uomo a mezzo uomo che caratterizza il capitalismo cognitivo. Sondarne gli effetti significa tenere insieme una molteplicità di piani materiali e discorsivi (economico, sociopolitico, giuridico, antropologico, geografico e ovviamente scientifico) e soprattutto saperli situare, recuperando la loro natura di rapporti concreti.
La rivoluzione biotech
Nasce da qui l'idea di biocapitale, a indicare in primo luogo quel processo di produzione e riproduzione della "vita in sé", come mezzo e fine, che definisce la rivoluzione biotech disseminandosi tra centri di ricerca, comparti produttivi, cliniche private e biobanche. Descriverne il funzionamento vuol dire allora calarsi nel "mondo sotterraneo" di una produzione dislocata e assumere uno sguardo etnografico multisituato, giocato tutto sui confini (quello, per esempio, che caratterizza Biocapital di Kaushik Sunder Rajan, o Tissue economies di Catherine Waldby e Robert Mitchell).
In Biocapitale. Vita e corpi nell'era del controllo biologico (ombre corte), lo studioso Mauro Turrini valorizza questa prospettiva attraverso un'antologia di testi (degli autori citati e di Melinda Cooper e Sarah Franklin) che documentano un dibattito critico molto ampio, di cui in Italia è nota solo la produzione di Nikolas Rose, restituendo una mappa del biocapitale che è anche una cartografia biopolitica del presente. L'esito è un voyage out che va dal cellulare al globale, passando attraverso sequenze genetiche, multinazionali farmaceutiche, pecore clonate, imprenditori scientifici e fluttuazioni del Nasdaq. Aldilà di una differenza di fondo che fa capo a due distinti approcci analitici (un primo che enfatizza il coté produttivo, la capacità cioè di trasformare la "vita in sé" in informazione genetica e materia prima di un sistema di flussi; un secondo che, a partire dal discorso femminista, pone invece l'accento sulla dimensione riproduttiva, orientata verso la produzione di nuove forme di vita), l'idea centrale consiste nell'assumere il biocapitale come sintomo di un nuovo modo di produzione, il cui segno è dato da una serie di sovrapposizioni: tra scienza ed economia, pubblico e privato, competizione e condivisione (nella misura in cui "economie pubbliche rette sullo scambio oblativo costituiscono la controparte essenziale di economie politiche private rette sull'appropriazione e la capitalizzazione del biologico"). E soprattutto tra astrazione e materializzazione. Proprio qui sembrano giocarsi le nuove frontiere di un rapporto sociale che si riattualizza attraverso l'appropriazione della natura vivente (i brevetti sulle forme di vita geneticamente modificate), che si impone astraendo dalle condizioni da cui essa origina (la vita tradotta in codice biochimico, insieme di dati trasmissibili e manipolabili), ma che non può separarsi dal suo contenuto socializzato.
Il corpo ridotto a bit
L'informazione biologica, quindi, è sia immateriale che materiale: traduce il vivente in dati e sequenze e lo riproduce. In questo intreccio di astrazione e materializzazione, incentrato sull'idea di salute e in cui la vita è mezzo e fine, si profila una ridefinizione dell'umano. Per dirla con Sarah Franklin, la coltura delle cellule staminali è anche, antropologicamente, cultura (o, con le parole di un protagonista della rivoluzione genomica, Randley Scott, "curare la malattia e prolungare la vita porterà alla fine... alla definizione di cosa significa essere vivente"). Su questi presupposti il biocapitale si determina come rapporto tra prodotto biologico ed essere umano e quindi come scambio che, pur nel segno dell'astrazione, si gioca tutto sui corpi.
La domanda è allora immediata: è possibile concepire questo scambio in termini di lavoro? Giocando con le parole, Turrini sembra suggerire che il lavoro non sia mai stato così "vivo" come sotto il biocapitale, per poi distinguere due tipi di lavoro clinico, rispettivamente di natura rigenerativa e sperimentale. Il primo va dall'estrazione delle cellule staminali presenti nel cordone ombelicale e nel liquido amniotico a quella di tessuti (la mercificazione del corpo e il traffico di organi descritti da Scheper Hughes). Il secondo consiste invece nell'esporre il proprio organismo a un monitoraggio costante, da banali controlli genetici fino al test di nuovi farmaci, attività che Sunder Rajan ha analizzato in un'etnografia del Wellspring Hospital, clinica di lusso per la sperimentazione farmaceutica situata a Parel, sulle ceneri del distretto tessile di Mumbay. A emergere è la sensazione di un laboratorio dentro al più generale laboratorio postcoloniale, che può contare sulla disponibilità di una popolazione indigente e geneticamente diversificata, una "moltitudine di ceppi etnici" in grado di offrire ciò che le democrazie occidentali negano.
Il lavoro sperimentale viene infatti contrapposto a quello volontario e gratuito nelle biobanche occidentali: se il primo prevede un compenso per il rischio, nel secondo "il rischio funziona come logica operativa in chiave preventiva e collettiva", in nome della salute, e i partecipanti sono contemporaneamente "risorse biologiche, potenziali acquirenti e cittadini con diritti e doveri". Alla base della nuova frontiera del capitale, che sovrappone l'estrazione di valore dai corpi e dal controllo delle funzioni metaboliche, la durezza di un espianto di organi e la leggerezza di un prelievo, sembra allora esserci qualcosa di molto vecchio, quasi una nuova divisione internazionale del lavoro. Ma a emergere è soprattutto un'idea complessiva di popolazione come risorsa genetica e fonte di biovalore. In questo generale regime di esposizione (al rischio e/o allo sguardo medico) il biocapitale include tutti su basi differenziali, che però eccedono ogni polarizzazione geografica - se è vero che i paesi che incentivano il lavoro sperimentale, come l'India, sono gli stessi che guidano la rivoluzione biotech.
Per questo, a ogni latitudine, il lavoro clinico diventa espressione di una cittadinanza scientifica che si gioca "sulla rivendicazione del ruolo diretto nel processo di creazione di biovalore". Perché alla base della trasformazione della vita in una fonte inesauribile di plusvalore c'è sempre un atto di espropriazione, nuovi enclosures, come i brevetti. Dentro a una teoria del (bio)valore che oltre al lavoro socialmente necessario rimanda al desiderio sociale di salute, forse l'elemento più vecchio è proprio questo: l'artificio che privatizza il comune e crea anche nel biologico il fantasma della scarsità.
La genetica modificata del valore
Il cosiddetto biocapitalismo è uno straordinario laboratorio per comprendere il mutato rapporto tra materiale e immateriale, tra finanza e economia reale, tra informazione genetica e nuova divisione del lavoro. E che aiuta a svelare l'arcano della proprietà intellettuale
di Benedetto Vecchi
Brevetti sulla mappatura del Dna, pirateria nei confronti della biodiversità. È attraverso questa griglia analitica che, spesso, viene analizzato il "biocapitale", nuova frontiera, come spesso sostenuto in molti, del capitalismo, dopo la perdita della spinta propulsiva del silicio e della Rete, subentrati all'acciaio e alla plastica nel garantire lo sviluppo economico. Letture che colgono alcuni elementi, ma che se isolati possono essere fuorvianti.. La critica alla proprietà intellettuali assume, infatti, spesso le tonalità etiche di chi, inorridito, si ritrae di fronte a enclosures che, oltre la conoscenza socialmente prodotta, invade la vita. Un rigetto etico che viene esteso anche alla biopirateria, vista come rapina da parte delle multinazionali di quel sapere ancestrale e prodotti della Terra che i popoli del Sud del mondo hanno salvaguardato per secoli, se non per millenni.. Dimenticando così che l'espropriazione è uno dei fattori immanenti la produzione capitalistica, come più volte ha sottolineato il geografo David Harvey nella sua Breve storia del neoliberismo (Il Saggiatore) e nel recente L'enigma del capitale (Feltrinelli). E tuttavia biocapitale è molto più di tutto ciò.
In primo luogo va sgomberato il fatto che le biotecnologia e la manipolazione genetica possano svolgere lo stesso ruolo avuto, ad esempio dall'automobile, nello sviluppo capitalistico. Con pacato realismo, va affermato che il capitalismo non ha più un settore "egemonico" rispetto ad un altro. Quando il sapere e la conoscenza diventano materie produttive e fattore imprescindibile di ogni attività innovativa, tutti i settori produttivi ne sono coinvolti. Assunto che conduce l'analisi e la critica alla proprietà intellettuale sul terreno della produzione e circolazione del sapere. Cioè alla sua valorizzazione capitalistica. e che svela l'arcano dell'assenza di un settore centrale nell'attività economica.. E tuttavia il "biocapitale" può essere inteso come un laboratorio dei contemporanei rapporti sociali di produzione. Come emerge dal volume Biocapitale. Vita e corpi nell'era del controllo biologico (Ombre corte) nei settori delle biotecnologie e della manipolazione genetica della materia vivente sono inanellati, uno dopo l'altro, tutti gli aspetti del capitalismo contemporaneo, a partire dal rapporto tra materiale e immateriale, tra lavoro vivo e lavoro morto.
Infatti, al di là di una lettura deterministica, tra materiale e immateriale più che contraddizione c'è contiguità, perché le sequenze del Dna e la loro trasformazione in informazione hanno radici nei corpi di uomini e donne, ma anche in semi e altri animali viventi. Allo stesso tempo, sono settori in cui il lavoro morto, cioè le macchine, ha ben poco la caratteristica di un residuo che se non intervenisse il lavoro vivo dei ricercatori rimarrebbe inerte. Nel biocapitale tra lavoro vivo e lavoro morto emerge una interdipendenza, un double bind che rende il primo appendice del secondo per poi, invertire la sequenza e far diventare le macchine appendice del lavoro di decrittazione e formalizzazione del lavoro di ricerca. Da questo punto di vista, l'analisi sull'uso capitalistico delle macchine non può che contemplare, nuovamente, il modo di produzione del sapere en general.
La mappatura del Dna dei viventi, infatti, ha come habitat la cooperazione sociali, sia nelle forme di vita che assume, sia nell'intelligenza collettiva che esprime. Da questo punto di vista, il biocapitale costringe a misurarsi con il nodo della forma-impresa e con il legame con la finanza. È noto che una delle forme di finanziamento delle imprese biotecnologiche è il cosiddetto capital venture e la borsa. E se il primo coinvolge anche i fondi pensione (cioè salario differito), il secondo aspetto a che fare con quel fenomeno che assegna alla borsa un ruolo niente affatto parassitario. In altri termini, e in entrambi i casi, siamo ben lontani alla vecchia immagine del rentier nemico della produzione.
Ma il decalogo dei motivi della rilevanza analitica del biocapitale non può ignorare un altro aspetto, ben evidente nel volume qui presentato. Quello delle tecnologie del controllo sociale. La mappatura del dna umano e la sua traduzione in informazione non è solo il primo passo per la valorizzazione capitalistica, ma anche come primo passo per controllare singoli e popolazioni. Leggere di come le informazioni individuali o di una "popolazione" sono usate per "disciplinare" il comportamento dei singoli e collettivi evoca ovviamente le riflessioni di Michel Foucault sulle tecnologie del sé o della "società di controllo" di Gilles Deleuze, ma anche quelle intense pagine del primo libro del Capitale di Karl Marx o de "La situazione della classe operaia inglese" di Friedrich Engels dove venivano descritto minuziosamente il disciplinamento dei corpi che la fabbrica comportava. Per omologia, anche la mappatura del dina umano comporta forme disciplinari per la vita dei singoli e delle collettività.
Il libro di Mauro Turrini ha l'indubbio pregio di offrire materiali e riflessioni che aiutano a comporre il puzzle di una discussione molto ricca e i cui echi in Italia sono stati finora molto flebili. Einaudi ha pubblicato l'importante saggio di Nikolas Rose La politica della vita, altri editori hanno pubblicato i contributi di studiosi e attivisti come Vandana Shiva, mentre studiosi italiani come Stefano Rodotà hanno più volte sottolineato il problema di privacy e di rischi per la democrazia che sono dietro la traduzione in informazioni "sensibili" del dna. E tuttavia sono solo tasselli di un puzzle ancora da comporre. Non solo per delineare il campo delle biotecnologie e di come influenzeranno l'assetto geoeconomico della "politica della vita" in cui collocare anche l'industria farmaceutica. Più importante, e che costituisce un vero e proprio laboratorio di ricerca, di come la comprensione del biocapitale può fornire strumenti utili per avviare quell'opera di comprensione critica del capitalismo.
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