Eugenia Parise
Dalla diaspora, voci in contrappunto
Hannah Arendt ed Edward W. Said nel conflitto sionista-palistinese
 
il manifesto - 28 gennaio 2010

di Federico Rahola

In L'opera struggente di un formidabile genio, Dave Eggers descrive la fuga a rotta di collo di un ragazzo di ventidue anni e di suo fratello di nove: alle spalle hanno il ghiaccio di Chicago e il vuoto determinato dalla perdita ravvicinata di entrambi i genitori; davanti, il progetto indefinito di ricostruirsi una bizzarra family-life a Berkeley, circondati dallo sguardo di sospettosa pietà di insegnanti, assistenti sociali, amici e vicini. I due, si scopre, sono in fuga non solo dal dolore, come degli animali feriti, ma anche dal passato, dal fantasma di una realtà famigliare a pezzi che continua a incombere nei modelli a cui ostinatamente decidono di non piegarsi. Sono due esuli, in qualche modo, stritolati da un'esperienza e forse anche da un'appartenenza, un modo di essere, a cui cercano fantasiosamente di sottrarsi ma con cui si trovano continuamente a dover fare i conti.
Che c'entra Eggers con il libro che Eugenia Parise dedica a Hannah Arendt e Edward Said (Dalla diaspora, voci in contrappunto. Hannah Arendt ed Edward Said nel conflitto sionista-palestinese, ombre corte, pp. 148)? Immediatamente, anche le biografie di Arendt e Said sono segnate dall'esilio: due esili diversi, verosimilmente di lusso, in ogni caso violenti e forzati, come tutti gli esili. Nell'esperienza esistenziale e politica di entrambi c'è una simmetria tragicamente ironica, che potrebbe rendere l'operazione di Parise in un certo senso facile, quasi immediata: due vite parallele, o meglio due semirette che originano da un preciso nucleo traumatico (tanto distinto quanto concatenato) ma che proprio per questo appaiono destinate a non incontrarsi. Si tratta allora di un'immediatezza fuorviante, e il libro di Parise lavora proprio su questo scarto, lo sviluppa e cerca di venirne a capo. Per questo il discorso decentra l'impianto da una partitura rigorosamente simmetrica e alla fine conciliante (l'esperienza parallela, sradicata e hyphened di un'ebrea-tedesca-americana e di un palestinese-americano evocata nella copertina - vaga, involontaria allusione alla sigla di "Attenti a quei due"), e riposiziona l'asse centrale su un coté preciso della storia, uno zero ritagliato su un continuum (il sionismo e il suo impatto politico, immediatamente annichilente sulla vita dei palestinesi e decisivo sull'esperienza ebraica), da cui le biografie di entrambi escono rifratte, le posizioni segnate. È infatti intorno a questo specifico "falso inizio" che, mettendo tra parentesi la voragine di persecuzioni sfiorate, esodi imposti e sradicamenti vissuti, si può ricostruire qualcosa di simile a un dialogo tra i due. Niente di scontato, sia chiaro, perché anche questa può rivelarsi un'impressione fuorviante. Del resto, il dialogo storicamente non c'è, non c'è stato. C'è però la giustapposizione di due voci dissonanti, o meglio, ricorrendo a un termine utilizzato con sempre maggior frequenza da Said, contrappuntistiche. Se la diaspora - concetto vago e fin troppo dilatato che allude comunque a una condizione che eccede violentemente lo spazio-tempo della nazione - costituisce verosimilmente il leitmotiv in base a cui leggere le biografie di Arendt e Said, la modalità con cui le voci di entrambi si inseriscono su questo spartito imposto e si indirizzano contro l'idea stessa di nazione rappresenta il nucleo più incisivo dell'analisi di Parise. Da questo punto di vista, come i due adolescenti di Eggers fuggono dal fantasma della famiglia, Arendt e Said sono in fuga dal fantasma della nazione, dall'infinita agonia del progetto nazionale. In fondo, che altro è il sionismo se non un nazionalismo fuori tempo massimo, che eccede l'idea di nazione finendo per proiettarne un'immagine ancora più ingigantita e spettrale?
Questa consapevolezza, un tarlo che via via prende corpo, modella la posizione di Arendt rispetto al progetto di Hertzl e dei suoi discepoli, definendo un'inversione di rotta, dall'appoggio iniziale dopo la fuga in Francia e l'arrivo negli Stati uniti a un marcato dissenso. Si tratta però di un dissenso che, una volta messo a fuoco, aldilà delle congiunture storiche risulterà sorprendentemente lineare, appuntandosi su un nucleo costante. C'è un'ironia tragica nel constatare come la riflessione di Arendt sul senso dell'appartenenza politica resti ancorata al titolo sibillino e solo all'apparenza provocatorio del capitolo probabilmente più incisivo di Le origine del totalitarismo: "La fine dei diritti umani e il tramonto dello stato nazione". In quel caso, il suo sguardo si rivolgeva a uno specifico frangente, l'Europa satura di frontiere a cavallo tra le due guerre e la massa di soggetti che non rientravano più nella geografia claustrofobica di quegli anni, per cogliere la cifra complessiva di una crisi irreversibile: l'apogeo dell'idea di nazione diventa sintomo del suo inesorabile tramonto, la fine di un progetto che legittima la propria universalità in termini esclusivi. Parole che si ritrovano in Ripensare il sionismo, a sancire un dissenso definitivo e incolmabile rispetto ai presupposti (nazionali) di quel progetto, dell'idea di una terra (senza popolo - credo che lo slogan di Golda Meir lo si debba scrivere sempre così, mettendo tra parentesi i palestinesi) per un popolo senza terra": "…lo stato nazionale non può esistere se ha una popolazione mista". A questa altezza, allora, poco importa il tipo di nazione da costruire, se cioè si tratti di un'entità ebraica, democratica e/o estesa sull'intero territorio della Palestina storica - queste le tre condizioni che Ben Gurion vedeva realizzabili solo a patto di scartarne sempre una. Il tarlo e il dissenso di Arendt sono molto più radicali, e riguardano la stessa forma nazionale che il progetto sionista finisce inesorabilmente e paradossalmente per riprodurre.
Un dissenso non diverso sembra segnare le traiettorie discontinue della posizione militante di Said sulla questione palestinese, concepita però da subito come "necessariamente universale". Abbandonare l'idea di uno stato nazionale, in precedenza sostenuta fino indurlo a un impegno politico diretto, è da questo punto di vista riflesso immediato della distanza sempre più marcata rispetto alle posizioni di Fatah e Olp, letteralmente impersonate dalla figura paternalistica e soffocante di Arafat. Il fatto è che il distacco, da esule, rispetto all'idea di uno stato palestinese e della soluzione a due stati (del resto continuamente procrastinata, come un dito che indica la luna) lo porta negli ultimi anni a rivendicare, malgré tout, la necessità "anacronistica" e forzatamente utopica di uno stato postnazionale, di una popolazione mista, come solo possibile antidoto all'esilio, e contro ogni idea di appartenenza nazionale.
Su questi presupposti le due voci sembrano dialogare, contrappuntisticamente, reagendo in qualche modo all'agonia infinita e alle promesse inesorabilmente tradite di ogni progetto nazionale. È come se le parole di Fantz Fanon, evocato da Parise nelle pagine iniziali, continuassero a incombere nel testo, ingigantendosi oltre il confine coloniale e quelli nazionali: le contraddizioni del nazionalismo postcoloniale possono anche essere lette come sintomo più generale di un "nazionalismo morente", che però non muore mai e continua a far morire. C'è una frase di Adorno, che accompagna come un mantra ogni tentativo di definire esteticamente l'esperienza dell'esilio, contrapponendola a qualsiasi senso pieno di appartenenza. La cito a memoria: "non sentirsi a casa nella propria casa fa parte della moralità del presente". La domanda posta dalle voci contrappuntistiche di Arendt e Said, e forse anche dalle peripezie dei personaggi di Eggers, sembra essere decisamente più radicale: quale casa?








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