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La città lontana
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Con una conversazione con l'autore di Pierangelo Di Vittorio
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Il manifesto - 5 Febbraio 2002
Le periferie della città degli angeli
Aperta, sempre in movimento e attraversata da flussi continui di comunicazione. E' la "Città lontana" di Jean-Luc Nancy. Per Ombre corte edizioni
di AGOSTINO PETRILLO
Per vecchia abitudine parliamo ancora di città, abitiamo e pensiamo ancora in termini di città. Eppure la città ci sfugge, le scienze del territorio moltiplicano i loro sforzi di definizione, ma l'oggetto appare sempre più sottrarsi alle diverse lenti che vengono utilizzate per catturarlo. Spontaneo domandarsi se si tratti di un oggetto ancora esistente, o se non si stia perdendo la dimensione urbana che abbiamo conosciuto, quella familiare all'esperienza europea degli ultimi due secoli. Il problema viene riproposto con eleganza in un agile volumetto, La città lontana , dal filosofo Jean-Luc Nancy (con una conversazione con l'autore a cura di Pierangelo Di Vittorio, Ombre Corte, Verona, 75 pp., 7,23 euro). Le riflessioni di Nancy prendono spunto da Los Angeles, ormai consacrata nell'immaginario collettivo come non-città, come metropoli frammentata e dispersa, sprovvista di un centro. Si dice di essa che sia spaesante per l'europeo, che stenta a ritrovarvi i momenti indispensabili della passeggiata, della flanerie, che sia irritante per la pressoché completa assenza di riferimenti storici e di un qualunque tipo di monumentalità. Ribaltando il luogo comune il filosofo francese ne tesse una sorta di paradossale elogio. In essa infatti si disegnano delle linee di completa dissoluzione dell'urbano: "ci sono a malapena muri...anche le case sono costruite appena". In questo processo di dissoluzione non si perde qualcosa, dato che la città borghese, o, per dirla in altre parole, la città europea, è stata una città che :"ha sempre messo in opera con la volontà del centro, del raggruppamento, una sorda volontà di frammentazione". Quella "europea" è una città che produce banlieue , che crea periferia con la sua pervicace volontà di centralità. Da questa malattia L.A. è esente, in quanto qui la banlieue è ovunque, infiltra e soggioga ogni astratta pretesa di centro. Non che questo cancelli le differenze etniche e di classe, esistono nell'enorme agglomerato banlieues ricche e altre miserabili, c'è Beverly Hills e c'é Watts. Tuttavia, sfuggite alla maglia ordinatrice e discriminatrice della città borghese, rovesciate e disperse su un territorio gigantesco, queste differenze risultano "declassate", alludono a una questione sociale non immediatamente e prepotentemente spazializzata come in Europa, in cui un'eredità imperiale ha lasciato una profonda traccia di potere nel tessuto urbano, e in cui in ogni caso si respira un'aria malsana di "immanenza comunitaria". Diversamente l'aria di una non-città come L.A. rende liberi, nell'enorme spazio della "città orizzontale" si respira l'ebbrezza di una dimenticanza della storia, di una convivenza eclettica di tempi e società, in cui le differenze, per quanto macrosopiche, paiono il risultato di un capriccioso bricolage sociale. Ma forse un giorno anche L.A. sarà più città borghese di quanto non sia oggi, si andrà caricando di una sua storia, ricalcando quanto già avvenuto altrove. Il futuro della città o meglio il futuro di quello che verrà dopo le città è ai confini della stessa sconfinata L.A., nei nuovi insediamenti che crescono dove erano gli aranceti, e più lontano ancora nelle bidonvilles che proliferano appena superata la frontiera messicana: "escrescenza cancerosa...eretta a luogo di vita". Da queste impressionistiche considerazioni su Los Angeles, che risalgono peraltro all'87, prima che Mike Davis ne desse sotto il profilo sociologico un ben più approfondito ritratto, Nancy passa nella seconda parte ad altre considerazioni più generali, stese nel 99, completando e ampliando le sue argomentazioni. Egli rileva come: "l'urbanizzare" non sia più sostenuto da nessun orgoglio, ma solo da "rilucente opulenza d'impresa" e come si agitino sempre più inquietanti sulla città-società i fantasmi di quelli che ne sono messi al bando, dei "senza-città". Al tempo stesso le città si modificano, si diffondono, "evaporano", grazie alla "dissipazione" di funzioni e luoghi in spazi periferici, la città diviene "una totalità sparpagliata". D'altro canto queste caratteristiche la spingono sempre più a divenire un sistema di flussi, a debordare verso altre città, in un costante gioco di espansione che comporta la cancellazione delle individualità dei centri urbani in cui la storia, la "città di ieri" è utilizzata solo come spettacolo, cartolina, testimonianza di una ricerca/elusione di un'identità passata e irrecuperabile. Forzatamente inautentica la ricerca delle radici o delle fondamenta prelude alla consapevolezza della dispersione, la città: "va verso un altro essere". Presa in questo processo di metabasis eis allo genos , di radicale metamorfosi, essa un giorno "dimenticherà persino di chiamarsi città". Del resto a tutte le definizioni di città tentate, siano state politiche, statistiche, o giuridico-amministrative, è sfuggito finora un aspetto determinante, essa è "tecnica", contronatura priva di una qualsiasi entelechia, di una "vocazione finale", specchio di una techne, di un'arte di fare che non ha al suo centro l'ethos della politica, ma piuttosto quello della libertà. L'energia della strada ha un suo dinamismo interno che sfugge alla riduzione politica, alla costrizione nello spettro dei poteri formalizzati: la città "non è uno Stato più di quanto non sia il territorio di una tribù". In questo senso essa non può mai essere ridotta alla civitas, alla mera cittadinanza, ma è piuttosto moltitudine aperta in movimento. Movimento pulviscolare di gruppi, di singoli, che la attraversano in continuazione, ricomponendo configurazioni sempre nuove. Flussi pulviscolari attraversati comunque da divisioni: la città dei ricchi, la città dei poveri, segnati da una "espulsione sempre sul punto di ricominciare", anche se la natura della città è alle sue radici profondamente egualitaria: "senza natura di classe o di casta". Ma forse l'essenza ultima della città è quella che raccoglie l'antichissimo monito di un vangelo apocrifo: "Siate passando!". Nancy ci dice che: "L'uomo abita en passant". E oggi, nel momento in cui si dissolvono le categorie tradizionali di città rimane proprio questo: "il contagio delle lontananze, la comunicazione disseminata, l'energia fragile di un senso inedito, ribelle a qualunque residenza". Molte le suggestioni del volume, che rappresenta un interessante contributo ad un dibattito spesso asfittico, e al tempo stesso fornisce un importante antidoto alla riproposizione di ideologie comunitarie e municipaliste oggi in gran voga anche a sinistra, ma non prive di pericolose ambiguità. Un testo in cui aleggiano sia l'eredità di Simmel che quella di Bergson, sostenuto da una notevole unità formale e di contenuto a dispetto degli anni che dividono i due saggi che lo compongono, che offre (speriamo) ad architetti, urbanisti, studiosi del territorio indicazioni per un pensiero meno banale.
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